Non solo censura

Tre esempi di traduzione dalla narrativa tedesca sotto il fascismo

By Natascia Barrale (Università di Palermo, Italy)

Abstract & Keywords

English:

This article looks at the practices in use in the translation of contemporary German fiction in Italy in the 1930s. The aim is to analyse the strategies used in the translation of these novels and to consider the ideological and political implications of the choices that the translators made at the time. The analysis is based on a corpus of three very representative novels and a detailed examination of the Source and Target texts.

Italian:

L’articolo prende in esame la prassi traduttoria dalla narrativa tedesca contemporanea nell’Italia degli anni Trenta. Sulla scorta di un corpus di tre romanzi rappresentativi dei generi di maggior successo in Italia e attraverso un confronto dei testi di partenza con le rispettive traduzioni italiane, si intende quindi analizzare le trasformazioni subite dai romanzi tradotti, conducendo un’indagine sulle eventuali implicazioni ideologiche e politiche ravvisabili nelle scelte editoriali e nel lavoro svolto dai traduttori.

Keywords: censura, fascism, repubblica di weimar, censorship, weimar republic, zensur, faschismus, weimarer republik, history of translation

©inTRAlinea & Natascia Barrale (2011).
"Non solo censura Tre esempi di traduzione dalla narrativa tedesca sotto il fascismo", inTRAlinea Vol. 13.

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Stable URL: https://www.intralinea.org/archive/article/1669

1. Un’indagine sulla prassi traduttoria durante il fascismo

L’analisi comparativa qui proposta, condotta su tre intere opere di tre diversi generi letterari, intende offrire uno sguardo d’insieme, quanto più esaustivo possibile, dei modi di esercitare l’attività traduttoria in una determinata epoca storica. Sulla scorta di una campionatura di opere rappresentative di quei generi letterari della narrativa tedesca contemporanea che ebbero maggior successo presso il pubblico dell’Italia degli anni Trenta - il romanzo al femminile, il romanzo di guerra e il romanzo di ambientazione metropolitana - l’obiettivo è quindi sottoporre a verifica i criteri di traduzione e analizzare le eventuali implicazioni ideologiche riscontrabili nelle scelte adottate dai traduttori.
I precedenti studi sul processo di assimilazione delle modernità europee nell’Italia degli anni Venti e Trenta (Albonetti 1994; Fabre 1998; Rubino 2002; Billiani 2007; Bonsaver 2007; Rundle 2000, 2010) hanno messo in luce sotto più aspetti il clima di negoziazione che caratterizzava il raffinato sistema di compromessi tra priorità ideologiche di regime ed esigenze commerciali editoriali.

Sarà sufficiente qui sottolineare brevemente come l’atteggiamento del regime e le sue oscillazioni legate agli sviluppi della più generale politica culturale fascista abbiano dettato i tempi e le modalità dell’ingresso delle narrative straniere in Italia, pur misurandosi con l’abilità di quegli editori che seppero - e furono nelle condizioni di - fronteggiare i numerosi provvedimenti inibitori.

Come dimostrano gli studi di Rundle, fino ai primi anni Trenta il regime non ostacolò il considerevole flusso di traduzioni, lasciando inascoltate le numerose polemiche degli autori italiani - che vedevano nelle traduzioni una forma di concorrenza sleale -  e mettendo anzi in atto una strategica ed esibizionistica apertura alle influenze straniere (cfr. Rundle 2010: 20-34).

Quando però, con l’inizio della guerra coloniale, il progressivo accentramento del potere si tradusse nell’imposizione di un controllo pressoché totale sul mondo culturale, si registrò anche una graduale inversione di rotta delle posizioni che il regime assunse nei confronti della narrativa straniera (Rundle 2010: 113-114). Ben consapevoli dei temi ‘scomodi’ o potenzialmente sgradevoli agli occhi del regime - pacifismo, aborto, incesto, suicidio, sessualità, emancipazione femminile, comunismo, o episodi che mettessero l’Italia in cattiva luce - gli editori o i traduttori stessi optarono spesso per la rimozione dai testi degli elementi che avrebbero incontrato la resistenza del regime, cautelandosi così da sanzioni governative e inutili costi di pubblicazione. La tendenza a praticare questa forma di autocensura preventiva è ravvisabile a chiare lettere sia nei pareri di lettura che nei rapporti epistolari tra gli editori e i vari ministri che si avvicendavano al potere (Albonetti 1994, Billiani 2007, Nottola 2010). Comprensibilmente, il livello di pericolosità di un libro non era sempre facile da stabilire: perfino Mondadori, nonostante il suo rapporto privilegiato col regime, incontrò qualche difficoltà nella selezione dei romanzi da pubblicare, e non fu sempre immune ai sequestri. Nei casi di maggiore incertezza, una lettera indirizzata all’Ufficio Stampa risultò essere d’aiuto: molti editori ricorsero così a procedure informali, rivolgendosi alle autorità, chiedendo consigli e sottoponendo loro le sintesi dei progetti librari.
Il cosiddetto ‘permesso preventivo’ si rivelò il modo più sicuro per proteggersi da decisioni spesso imprevedibili e diventò una pratica via via più consueta, fino a rappresentare poi, in tempi più rigidi, una prassi obbligatoria, imposta dal governo stesso (Rundle 2010: 87-96).

La pratica dell’autocensura e il ricorso ai permessi preventivi rappresentarono quindi i confini di uno spazio di negoziazione, dai profili non sempre netti, all’interno del quale gli editori operarono per mantenere saldo quel delicato equilibrio con il regime che avrebbe garantito la loro sopravvivenza (Cembali 2006).

Considerate queste premesse e prendendo le mosse dal contesto storico-editoriale già oggetto di studio dei contributi citati sopra, questo lavoro intende partecipare al dibattito sulle traduzioni dalle narrative straniere durante il fascismo spostando lo sguardo sui testi e tentando di fornire degli spunti di riflessione per un complementare approccio di natura filologica. Adottando qui una prospettiva di tipo sociologico agli studi sulla traduzione, si intende proporre uno studio descrittivo che, partendo dai testi di arrivo e dalle trasformazioni subite dai romanzi tradotti, miri a introdurre una più generale riflessione sui condizionamenti extra-linguistici del processo traduttivo.

Mediante la selezione e il commento delle principali tipologie di alterazioni riscontrate nel corso del confronto dei testi, è stata condotta quindi un’analisi delle scelte operate dai traduttori, di cui si proporrà qui una breve campionatura esplicativa.[1] Gli esempi delle manipolazioni più significative subite dai testi di partenza verranno via via strutturati all’interno di tabelle che affiancano il testo di partenza e quello di arrivo, corredate di una terza colonna, intermedia, che propone una traduzione ‘letterale’ dal tedesco all’italiano.[2]

Le traduzioni dei tre romanzi presi in esame - Vicki Baum, stud. chem. Helene Willfüer (Elena Willfüer, studentessa di chimica) 1928, per il romanzo al femminile; Arnold Zweig, Der Streit um den Sergeanten Grischa, (La questione del sergente Grischa) 1927, per il romanzo di guerra e Hans Fallada, Kleiner Mann - was nun?, (E adesso pover’uomo?) 1932, per il romanzo metropolitano - furono tutte pubblicate da Mondadori tra il 1930 e il 1933, a pochi anni dalla loro uscita sul mercato tedesco. Per un approfondimento sulla ricezione della narrativa tedesca nell’Italia degli anni Trenta e una riflessione sull’interesse del pubblico italiano nei confronti della nuova prosa weimariana, si rimanda anche al mio recente contributo (Barrale 2011) specificamente rivolto alla ricezione dei romanzi al femminile.

2. Il romanzo al femminile: Elena Willfüer studentessa in chimica di Vicki Baum

La Unterhaltungsliteratur fu uno dei filoni della produzione letteraria d’oltralpe che varcarono con successo i confini italiani. Numerosi romanzi di autrici tedesche, austriache e angloamericane trovarono posto tra i ‘Romanzi della Palma’, una collana mondadoriana creata ad hoc nel 1932 che intendeva sfruttare il capillare canale di distribuzione delle edicole.

Sebbene contenessero buona parte degli ingredienti tipici dei romanzi rosa, che garantivano il successo di sempre, storie d’amore e vicissitudini di eroine infelici non erano le uniche attrattive offerte dalla nuova collana mondadoriana: questi fascicoli, “specchi vivi di problemi o di fenomeni presenti”, (Mazzucchetti 1928: 243) presentavano alle lettrici italiane un modello di femminilità alternativo, fondato su una seducente forma di indipendenza e di emancipazione. Caratteristiche all’avanguardia e moderne, tipicamente weimariane, mutuavano così i parametri del genere ‘rosa’, dando vita a nuove eroine - inserite nel mondo del lavoro, emancipate ed economicamente autonome - che erano partecipi delle problematiche sociali e vivevano totalmente immerse non soltanto nelle proprie vicissitudini sentimentali, ma anche nella realtà contemporanea.
Per comprendere il fascino che questi romanzi esercitarono in Italia, è sufficiente considerare la distanza che intercorre tra le eroine weimariane e il modello femminile materno durante il Ventennio, promosso dal regime attraverso iniziative specifiche, come la campagna demografica e quella contro il lavoro femminile.

In un contesto in cui, come si è accennato prima, gli editori eludevano il rischio di sequestri operando una forma di autocensura, non sorprende che “anche i momenti schietti e liberi degli impianti rosa” venissero rimaneggiati (Albonetti 1994: 64). La chiarezza espositiva con cui questi romanzi presentavano temi di attualità ritenuti scottanti, la loro fruibilità e la capillarità della loro diffusione tramite la regolare cadenza periodica, rendevano anzi i loro messaggi ancora più accessibili, e per questo più ‘dannosi’, di quanto non lo fossero i romanzi con contenuti pacifisti o a sfondo politico.

Sebbene le trame dei ‘Romanzi della Palma’, anche “potate e livellate” (Albonetti 1994: 77),  conquistassero comunque le lettrici italiane - che divoravano questi romanzi esotici e moderni, ignare delle alterazioni - gran parte delle scelte più audaci delle eroine weimariane non giunse mai al pubblico italiano: prima di comparire sui banchi delle edicole italiane, quei volumi erano stati ripuliti a fondo, e avevano perso buona parte del loro sapore civile e sociale più originale e provocatorio.

Stud. chem. Helene Willfüer, di Vicki Baum, fu il primo titolo tedesco della ‘Palma’. La vicenda di Helene comportava non pochi problemi per Mondadori, che ritenne necessario apportare alcune modifiche perché il regime non ostacolasse la pubblicazione del volume. Tradotto da Barbara Allason nel 1932, Elena Willfüer, studentessa in chimica, quarto numero della collana, narrava la storia di una studentessa di chimica che, malgrado le difficoltà economiche e familiari riusciva ad affrontare da sola una gravidanza e ad affermarsi nel mondo scientifico, contribuendo alla scoperta di un famoso ritrovato farmaceutico rigeneratore.

Confrontando il testo di partenza con la traduzione italiana, si osserva come gran parte dei tagli e delle alterazioni riscontrate siano riconducibili alla difficile conciliabilità di alcuni aspetti del romanzo con i modelli imposti dall’ideologia fascista. L’ambientazione poteva certamente incuriosire i lettori italiani: il romanzo descriveva molto bene la vita e gli intrecci sentimentali degli studenti ed era corredato di molte scene nei laboratori e nelle cliniche universitarie. Il testo presentava però non poche difficoltà, che spinsero Mondadori a procedere con le dovute cautele.
Le alterazioni più rilevanti riguardano gli episodi che narrano il modo in cui Helene affronta la gravidanza: dal confronto con il testo di partenza si osserva come le visite ginecologiche, i colloqui con i medici e gli insistiti inutili propositi di aborto abbiano subito un vistoso alleggerimento nella traduzione italiana.

Ciò che sorprende maggiormente è però l’inserimento di aggiunte e commenti personali da parte della traduttrice. Il modus operandi di Allason dimostra infatti di aver corrotto - ancor più sottilmente che mediante i tagli - il modo in cui Baum affrontava il tema dell’aborto, - argomento scottante nell’attualità tedesca di quegli anni. (Da qui in poi si utilizzeranno le sigle ‘TP’ e ‘TA’ riferendosi rispettivamente al testo di partenza e a quello di arrivo).

Il testo di arrivo rivela evidenti inserimenti intenzionali di termini ed espressioni che tendono a demonizzare l’interruzione della gravidanza e ad esaltare le gioie della maternità.

Un’altra tipologia di alterazioni si riscontra poi nelle parti del testo in cui è presente il tema della sessualità: oltre alla cassazione totale di un sogno carico di simboli erotici raccontato dalla protagonista, risultano totalmente eliminati numerosi altri brani del romanzo in cui si allude ai rapporti sessuali o, ancora più semplicemente, in cui si descrivono corpi nudi:

Con la profonda alterazione dell’immagine di Yvonne, la descrizione del suo corpo viene rimpiazzata dall’aggiunta di vaghi riferimenti all’arte pittorica o scultorea.

Per simili ragioni di ordine morale, il testo di arrivo rivela anche la rimozione di numerosi riferimenti a Gudula, un personaggio femminile la cui connotazione omosessuale viene scrupolosamente annullata. Quando Helene le accarezza i capelli in segno di saluto, Gudula la respinge nervosamente:

Un altro tabù, dopo l’aborto e il sesso, era la morte. Via dal testo allora le descrizioni delle morti avvenute in ospedale e le richieste di eutanasia da parte di una malata terminale. Nel passaggio da una lingua all’altra scompaiono anche numerosi riferimenti a malattie e infezioni letali contratte da fisici e chimici in laboratorio, ai quali la traduttrice riserva una sorte decisamente migliore rispetto a quella d’origine:

Neanche il filologo Jonas sembra essere in buone condizioni di salute: ma non era certo il caso di parlare di reduci di guerra in fin di vita. Al suo fianco, compare un misterioso fisiologo, di cui non c’è alcuna traccia nel testo di partenza.

Dall’analisi della traduzione, emergono poi innumerevoli manipolazioni - tagli, riduzioni, sintesi, aggiunte e alterazioni di tipo stilistico-formale o compositivo - che, a differenza di quelle fin qui analizzate, risultano essere prive di un’intenzionalità autocensoria mossa da ragioni ideologiche o morali.

Tra le alterazioni stilistiche più significative vi è la curiosa scomparsa - quasi totale - dei numerosi termini scientifici, composti chimici e utensili da laboratorio.

L’eliminazione del lessico scientifico può essere forse motivabile con la volontà di semplificare il linguaggio del testo di partenza per renderlo più adatto ai lettori dei “Romanzi della Palma”, una collana economica programmaticamente rivolta a un target molto ampio e popolare. Ciò comportò l’indubbia rinuncia a molti di quegli ingredienti del romanzo che sono riconoscibili come caratteristiche peculiari della narrativa della Neue Sachlichkeit.

L’analisi del testo di arrivo ha portato poi alla luce una serie di esplicitazioni, tramite cui la traduttrice è intervenuta per spiegare al lettore italiano alcuni accenni interni al testo o impliciti nella narrazione, ancora più semplicemente, per chiarire alcuni comportamenti dei personaggi. 

Sebbene questo genere di esplicitazioni siano attribuibili alla supposta intenzione della traduttrice di avvicinare il testo al lettore italiano, rendendolo più chiaro, si sono riscontrate allo stesso tempo alcune aggiunte con cui Allason inserisce invece inspiegabilmente delle frasi o degli aggettivi che veicolano informazioni nuove o, in alcuni casi, commenti meramente personali:

Le alterazioni operate sul testo di partenza non sembrano aver ostacolato in alcun modo il successo del romanzo presso i lettori italiani, naturalmente ignari delle modifiche: nel 1932, Elena Willfüer, studentessa in chimica ottenne ben tre edizioni per 25 mila copie in un anno e venne ulteriormente ristampato, in 10 mila copie, nel 1937.

3. Il romanzo di guerra: La questione del sergente Grischa di Arnold Zweig

I romanzi di guerra tedeschi rappresentavano per i lettori italiani una duplice attrattiva: oltre a soddisfare la loro generale curiosità per la letteratura neusachlich, essi offrivano la possibilità di ripercorrere il conflitto mondiale con gli occhi di un Paese ex alleato, poi avversario e infine sconfitto. La collana dei ‘Romanzi della guerra’ si aprì nel 1930 con La questione del sergente Grischa di Arnold Zweig, a cui seguirono titoli italiani, francesi, inglesi, russi e ungheresi.

È sufficiente pensare alla nota vicenda del sequestro di Niente di nuovo sul fronte occidentale di E. M. Remarque per comprendere quanto l’ambizioso progetto di Mondadori, che intendeva dedicare un’intera collana ai romanzi di guerra, non abbia avuto vita facile. Sebbene Mondadori avesse acquistato per tempo i diritti del romanzo, intenzionato a lanciarne sul mercato la traduzione di Stefano Jacini nel settembre del 1929, il nullaosta del governo tardava ad arrivare. Quando Treves annunciò sul Giornale della Libreria l’imminente pubblicazione di Guerra di Ludwig Renn, Mondadori corse ai ripari chiedendo a Mussolini, il 2 ottobre 1929, il permesso di distribuire la versione italiana di Remarque e, qualche giorno dopo, spiegando al segretario del duce, Alessandro Chiavolini, che le edizioni francesi di quel romanzo si stavano diffondendo al di qua delle Alpi in quantità sempre maggiori. Malgrado l’insistenza, la traduzione venne bloccata dalla censura. Nell’aprile del 1931, dopo aver appreso da un giornale ticinese che un editore svizzero stava provvedendo a una propria traduzione italiana, Mondadori riuscì ad ottenere il consenso per vendere il libro in Svizzera e in Sudamerica. Non si esclude che la traduzione sia anche circolata clandestinamente in Italia, ma Niente di nuovo sul fronte occidentale apparirà ufficialmente sul mercato italiano soltanto nel secondo dopoguerra (Rubino 2002: 77-81; Bonsaver 2007: 50-52).

Tornando alla collana dei ‘Romanzi della guerra’: secondo Albonetti, probabilmente l’editore “confidò che quel titolo fosse gradito ai censori di un regime, che dalla guerra vantava un marchio d’origine” (Albonetti 1994: 62), ma le sue previsioni sembrarono non tenere conto della forte componente pacifista che caratterizzava questa nuova ondata di libri.

Diversamente da quanto si sarebbe però propensi a credere, i tagli rilevati nella traduzione di Enrico Burich di Der Streit um den Sergeanten Grischa intervengono quasi esclusivamente su parti di testo descrittive o dialogiche, lasciando escludere quindi - quasi del tutto - l’ipotesi di una reale responsabilità (auto)censoria di natura politica o ideologica.

Solo in pochissimi casi i brani eliminati contengono messaggi antimilitaristi o antibellicisti. È stata individuata nel testo tradotto, ad esempio, la scomparsa di un breve passaggio da cui si evince che l’esercito italiano non goda di grande considerazione all’estero:

Il livello di inammissibilità di un’affermazione simile è facilmente intuibile. Piuttosto che eliminare del tutto il passaggio in cui l’esercito italiano è messo in cattiva luce, si preferì dirottare l’accusa verso un altro Paese, la Grecia.

Altrettanto dannosi potevano essere i passaggi in cui la condanna della guerra raggiungeva toni più espliciti:

Un altro aspetto su cui Burich intervenne - probabilmente non a caso - riguarda poi la descrizione dei caduti in guerra:

Considerata la morale eroica alla quale tendeva invece ad ispirarsi il fascismo, e tenendo conto del mito postumo della Grande Guerra, non è da escludere che questi tagli siano stati il risultato di un’azione di autocensura.

Fatte salve queste poche eccezioni, la maggior parte dei tagli riscontrati agisce però su aspetti secondari della narrazione e sembra unicamente motivabile come risposta a una presumibile volontà editoriale di ridurre le dimensioni del romanzo. Pur comportando innegabili ripercussioni anche sul piano dei contenuti, l’incidenza di questo genere di manipolazioni - siano esse dovute a una prassi traduttoria poco scrupolosa, o a precise indicazioni editoriali - può dirsi pressoché limitata all’assetto stilistico, e quindi formale, del romanzo.

Le trame dei numerosissimi episodi secondari - la cui somma potrebbe quasi costituire materiale narrativo sufficiente alla stesura di un secondo romanzo - si intrecciavano nel testo tedesco con la vicenda di Grischa attraverso una tecnica narrativa che tendeva a sovrapporre frammenti di più scene montati tra loro. La scomparsa di gran parte di questi episodi - e l’attenta rimozione dei relativi rimandi ad essi, interni al testo - ha indubbiamente appiattito il valore letterario dell’opera: i personaggi secondari e gli episodi che li vedono coinvolti, sebbene non siano in rapporto diretto con lo svolgimento della trama, svolgono infatti un’importante funzione di contestualizzazione della vicenda principale all’interno del generale quadro storico. I tagli, che si verificano anche in blocchi di cinque o sei pagine consecutive, giungono a stravolgere così l’assetto stilistico del testo di partenza, annullando la struttura concentrica del romanzo che, con innumerevoli brevi episodi che ruotano intorno alla vicenda del protagonista,  riproduceva tra l’altro un ricco affresco della società tedesca d’inizio Novecento.

Oltre all’eliminazione in toto degli episodi ritenuti marginali - cioè dell’intero sub plot, o della Nebenhandlung -, si registra complessivamente una certa tendenza di Burich a ridurre o a eliminare del tutto i passaggi descrittivi che fanno da sfondo all’azione del romanzo. La traduzione risulta quindi ripulita e visibilmente alleggerita di tutte le informazioni ‘superflue’ e appare come il frutto di una volontà concreta di ridurre il testo all’essenziale.

Tuttavia, in netta contrapposizione con quanto detto finora, si registrano alcune esplicitazioni e aggiunte ingiustificate con cui il traduttore interviene per chiarire e rendere esplicite alcune informazioni del testo di partenza o per immettere elementi nuovi e, come nel caso di Allason, talvolta piuttosto fantasiosi:

È curioso come simili incursioni agiscano in direzione diametralmente opposta alla ben più frequente propensione di Burich, fin qui riscontrata, a ridurre drasticamente le dimensioni del testo.

Tornando alle eliminazioni, i dati raccolti dal confronto rivelano che l’entità delle alterazioni osservate è tale da rendere la traduzione del Grischa un caso esemplare di sfrondamento massiccio del testo di partenza. La traduzione risulta decurtata di ben centoquaranta pagine, complessivamente circa il 25% del testo di partenza.[3]

Eppure la critica era al corrente di questo ‘alleggerimento’, ma non sembrò biasimare un simile sfrondamento, anzi: il romanzo di Zweig, scriveva Kociemski su L’Italia che scrive, “attrae forse più nella versione italiana perché l’originale ci è sembrato assai arruffato e non facile a leggersi”. La recensione procede con l’esplicito elogio di questa riduzione:

Enrico Burich ha ridotto alquanto le proporzioni del romanzo (che crediamo molto più lungo nell’originale) ma, pur senza aver fatto confronti, possiamo dire che questa riduzione ha forse giovato al romanzo stesso (Kociemski 1930: 357).

Si trattava quindi, almeno secondo Kociemski, di una trasformazione salutare: la riduzione del testo aveva recato un certo beneficio a un originale di difficile lettura.

L’analisi della traduzione di questo secondo romanzo attesta quindi un nuovo aspetto della prassi traduttoria degli anni Trenta, piuttosto inatteso - almeno in tale drastica portata - e finora poco studiato: la disinvoltura cioè con cui, pur in assenza di una pressione dall’alto, si giungeva ad intervenire sul testo di partenza per rispondere a esigenze editoriali e, come in questo caso, per ridurne la dimensione ritenuta eccessiva.

Come sostiene Billiani, gran parte dei tagli a cui venivano sottoposti i testi non venivano operati “in ossequio ad una richiesta pronunciata dai poteri politici” ma erano mossi da “esigenze estetiche”, spesso finalizzate a facilitare una maggiore diffusione del romanzo tra il pubblico italiano (Billiani 2007: 98).

Sebbene quindi l’eliminazione di alcuni dettagli possa essere ricondotta a un intento censorio, i tagli più massicci sembrano essere il frutto di scelte e valutazioni che portarono l’editore a preferire un testo più snello e di agevole lettura. Tra le variabili in gioco, quindi, che concorrevano a caratterizzare la prassi traduttoria dell’epoca, presumibili ragioni editoriali si affiancavano ai diffusi meccanismi di controllo censorio.

4. Il romanzo di ambientazione metropolitana: E adesso pover’uomo? di Hans Fallada

I primi romanzi metropolitani di firma tedesca arrivarono sugli scaffali delle librerie italiane già nei primissimi anni Trenta.[4] Tra i romanzi tradotti da Mondadori, Kleiner Mann - was nun? di Hans Fallada raggiunse il più alto successo di vendita. Era la storia dei coniugi Pinneberg, una coppia piccolo borghese tedesca alla vigilia del nazismo che si ritrova a dover affrontare una gravidanza imprevista ed è infine costretta a condurre una vita all’insegna della disoccupazione e della miseria. Tradotto da Bruno Revel - che in seguito curerà tutte le versioni mondadoriane dei romanzi di Fallada - e pubblicato nel marzo del ‘33 come secondo numero della nuovissima ‘Medusa’, E adesso pover’uomo? ottenne cinque edizioni e quasi 20 mila copie in quattro anni, a cui seguirono continue ristampe negli anni successivi.[5]

Il successo in Italia di quello che fu definito dalla critica uno ‘psicodramma del piccolo borghese tedesco’ può essere una dimostrazione, secondo Decleva, di quanto “anche nell’Italia fascista, ci si potesse identificare con quelle situazioni e con quegli stati d’animo” (Decleva 2007: 190). L’interesse che il lettore italiano nutrì per questo romanzo sembra proprio nascere dal valore documentario e informativo che gli si attribuiva. Non a caso, l’Almanacco della Medusa del 1934 lo presentò strategicamente come la “Bibbia del disoccupato” (Almanacco 1934: 365).

Oltre a rappresentare un interessante documento della condizione del nuovo proletariato tedesco, Kleiner Mann era allo stesso tempo la parabola di un uomo che, pur in condizioni disperate, continuava a nutrire una speranza all’interno dell’idillio familiare. Proprio questo aspetto salvifico che la vicenda conferiva al focolare domestico avrebbe probabilmente aiutato il romanzo a scivolare senza ostacoli tra le maglie della censura. Tuttavia, per precauzione, si preferì apportare qualche modifica.

Se dal confronto della traduzione col testo di partenza emergono numerosi tagli di natura descrittiva, mirati ad eliminare parti di dialogo e clausole di contrassegno ritenute superflue, gran parte delle alterazioni riscontrate sono però inequivocabilmente riconducibili a ragioni di ordine morale o politico.

Il caso più evidente è rappresentato dal tema del nudismo. Sebbene Fallada avesse affrontato l’argomento in modo decisamente sobrio e contenuto, le descrizioni di una piscina per nudisti in cui tutti i bagnanti, privi di abiti, si intrattengono con disinvoltura in conversazioni di varia natura dovettero sembrare eccessive al traduttore, che decise di stralciare due interi capitoli consecutivi del romanzo.[6]

A causa di analoghi eccessi di pruderie, Revel ritiene poi di dover sorvolare su ogni passaggio in cui si verificano momenti di intimità tra i due protagonisti:

Furono alleggeriti o eliminati i riferimenti - anche i più blandi o ironici - ai mezzi anticoncezionali:

Edulcorati o cancellati anche i malesseri dovuti alla gravidanza, ridotti i timori sul rischio di complicazioni durante il parto: il tutto, insomma, in perfetto stile pro-demografico.

Al fianco delle ragioni di ordine morale, si collocano anche ingerenze squisitamente politiche. Le riflessioni sull’insicurezza economica dei ceti medi, il malcontento di Pinneberg nei confronti dell’indifferenza dei politici e - soprattutto - le simpatie della moglie, Lämmchen, per i comunisti furono tutti elementi più che sufficienti a giustificare l’eliminazione di un ulteriore capitolo, di cui si riporta qui un breve estratto:

Rispetto ai due romanzi analizzati prima, il testo di arrivo in questo caso riporta pochissime esplicitazioni o aggiunte ingiustificate:

Il confronto tra il testo di partenza e la traduzione evidenzia invece, più in generale, una precisa volontà di ‘adeguamento’ stilistico della scrittura falladiana.

Oltre ai tagli di natura contenutistica, si riscontra quindi una grande quantità di ritocchi, omissioni, reticenze e velature linguistiche, che rivelano una prassi traduttoria decisamente proiettata verso un radicale addomesticamento del romanzo al costume e alle norme sociali e morali del Paese di arrivo e, allo stesso tempo, verso un riadattamento del registro linguistico a parametri stilistici evidentemente più in voga in Italia.

Nell’Avvertimento anteposto al volume, il traduttore stesso precisò: il testo di partenza presentava “certe espressioni un poco dure o un poco crude” che richiedevano un sostanziale addolcimento. Nei confronti delle “sincerità volgari” o di certe “intimità spiattellate”, dichiara: “il traduttore si è permesso di ingentilirne qualcuna o di ometterne altre”. L’obiettivo - che Revel purtroppo raggiunse - era rendere il lessico irto e pungente di questo romanzo più adatto ai lettori italiani, “in considerazione dell’orecchio latino più pudico e musicale” (Revel 1933: 9).

Il risultato fu un generale livellamento del linguaggio, debitamente edulcorato attraverso la rimozione delle espressioni più colorite e dei termini linguisticamente più vivaci.

Oltre ai vistosi ‘ritocchi’ evidentemente dovuti ad un intervento autocensorio - come nel caso dei tre capitoli eliminati - l’analisi della traduzione mette quindi in luce ulteriori modifiche stilistiche apportate dal traduttore al testo di partenza, in risposta a un presumibile bisogno di avvicinare quanto più possibile il romanzo di Fallada al lettore italiano.

Al quadro della prassi traduttoria finora descritto - fatto di trasformazioni contenutistiche di natura censoria subite nel caso del romanzo di Vicki Baum e di tagli motivabili con ragioni editoriali osservati nel testo di Arnold Zweig - si aggiunge quindi una terza tipologia di alterazioni: operando una sorta di livellamento del linguaggio verso l’alto, Revel risulta aver edulcorato e ‘ingentilito’ numerose espressioni del testo di partenza, restituendo così ai lettori italiani un’opera sostanzialmente letterarizzata.

Come anche nel caso di Burich, l’operato di Revel fu valutato positivamente dalla critica. Nella recensione apparsa sul Corriere della Sera, Panfilo (pseudonimo utilizzato da Giulio Caprin) apprezza l’intervento del traduttore:

Il romanzo [...] par quasi una cronaca di verità nuda. La formula dal quale deriva è ancora quella del verismo, non escluso tutto quello di urtante in cui si compiace un verista tedesco contemplatore senza pudori della miseria umana. Il traduttore ha fatto bene ad attenuarlo (Panfilo 1933: 3).

Si trattava, anche in questo caso, di una prassi convalidata. Il compromesso estetico raggiunto da Revel aveva sì adattato il testo alle mode correnti e ai parametri dettati dal gusto dell’epoca, ma al tempo stesso aveva rivestito il romanzo di Fallada di un più astratto velo di ‘rispettabilità’, ritenuta probabilmente d’obbligo per un romanzo di fama internazionale.

5. Conclusioni

L’indagine sulla prassi traduttoria dalla narrativa tedesca nell’Italia degli anni Trenta ha fornito elementi utili a riconsiderare la totale imputabilità della censura nel processo di trasformazione subìto dai testi presi in esame.
Di fronte a temi potenzialmente sgraditi, si è constatato come i traduttori abbiano complessivamente operato una forma di autocensura preventiva, allineando visibilmente i testi alla volontà e alle disposizioni più o meno esplicite del regime fascista, a danno spesso dei medesimi aspetti realistici e innovativi che avevano, tra l’altro, motivato il successo della narrativa della Neue Sachlichkeit in Germania.

Pur confermando in numerose occasioni l’intervento censorio, i risultati del confronto hanno però posto l’accento su aspetti e dinamiche legati ad una certa arbitrarietà della prassi traduttoria, sostanzialmente caratterizzata da un’assenza pressoché totale del principio di fedeltà al testo di partenza.

Non vi fu soltanto la censura, quindi, tra le cause della massiccia manipolazione che le traduzioni subirono durante gli anni Trenta.

Nel processo di ricreazione del testo letterario, importato in questo caso dal campo letterario tedesco, e del suo reinserimento in un contesto altro - più o meno pronto ad accoglierlo -, il concepimento e la nascita del testo tradotto avvenne dunque in uno spazio delineato da margini e regolato da principi di diversa natura: i testi tradotti in quell’epoca mostrano sì le ferite della pratica dell’autocensura, ma furono influenzate anche dalle scelte editoriali di riduzione della dimensione dei romanzi e, più in generale, dall’approssimatività della prassi traduttoria contemporanea.

In molti lamentavano la “mania frettolosa di tradurre libri altrui per colmare le lacune della nostra cultura, rivelando un’erronea inferiorità nazionale e morale”, e chiedevano che almeno si operassero “quei tagli ragionevoli e quelle modificazioni necessarie” a rendere l’opera “adatta allo spirito italiano” (Lector 1934: 424). Il celebre Gone with the wind di Mitchell, ad esempio, prima che fosse tradotto, era stato considerato dalla critica italiana un po’ pesante: sfrondato di qualche parte di un realismo un po’ fotografico, di qualche antefatto, o pesante o eccessivamente lungo, scriveva Zoja, ci avrebbe certamente guadagnato. (Zoja 1937: 253).

Tuttavia, tra le riflessioni sulla traduzione formulate tra le due guerre, non è raro poter osservare che alcune opinioni a favore di una più scrupolosa prassi traduttoria avevano cominciato a farsi strada ormai da qualche anno. Tra il 1918 e il 1938 i recensori delle due riviste mensili L’Italia che scrive e I libri del giorno, rispettivamente edite da Formìggini e da Treves, non mancarono di commentare il lavoro dei vari traduttori. Fu anche grazie a questo approfondimento intellettuale, oltre che al fervore di vecchie e nuove case editrici, che nella seconda metà degli anni Venti si cominciò a registrare una crescente attenzione nei confronti della prassi traduttoria. Nel 1925 Ettore Lo Gatto, traduttore prolifico ed eccellente slavista, enumerando meticolosamente per I libri del giorno tutti gli errori e le alterazioni riscontrati nella traduzione di Eugenio Onjeghin di Puškin, concludeva:

La traduzione è sempre traduzione, e la freschezza d’ispirazione dell’originale non l’avrà mai neanche il più ispirato dei traduttori, perché la sua ispirazione è, vuoi o non vuoi, di seconda mano. Tuttavia alcune traduzioni possono riuscir bene, se al traduttore non faccia difetto il buon senso (Lo Gatto 1925: 604).

Considerata la comprensibile approssimatività delle versioni in cui fino a pochi anni prima era circolata la narrativa straniera, quando in Italia si era soliti ritradurre i testi stranieri dalle edizioni francesi, sembrava quasi sufficiente che la traduzione nascesse direttamente dal testo originale perché si conquistasse il fregio di ‘traduzione fedele’.

Tuttavia, nel corso degli anni Trenta si cominciò lentamente a diffondere la tendenza a combattere certe strategie di edulcorazione e a promuovere, almeno nelle intenzioni, un nuovo approccio alla traduzione che tenesse in maggiore considerazione il principio di fedeltà al testo di partenza. La casa editrice Slavia, fondata nel 1926, fece di quest’intenzione il suo manifesto programmatico (Adamo 2000). Billiani riporta ad esempio l’insistenza con cui nel 1933 Enrico Piceni, capo dell’ufficio stampa di Mondadori fino al 1935, si oppose alla “proverbiale infedeltà di Vittorini” per le traduzioni di Lawrence (Billiani 2007: 187). Come documenta Nottola, anche le politiche editoriali messe in atto da Einaudi a partire dalla seconda metà degli anni Trenta rivelano un certo rigore dell’editore nei confronti di traduzioni di qualità, quanto più possibile rispettose dell’opera originale (Nottola 2010: 194-195).

È in quest’ottica che un’analisi filologica delle traduzioni basata sul confronto testuale, pur non intendendo esprimere un giudizio valutativo sul modo in cui si traduceva in quegli anni, risulta essere uno strumento analitico utile per osservare e descrivere come la prassi traduttoria di un dato periodo storico possa essere rappresentativa del gusto letterario di un’epoca, concorrendo così - al fianco delle politiche editoriali e delle vicende storiche - a tratteggiare un affascinante itinerario delle forme e dei modi in cui innumerevoli romanzi furono accolti dal pubblico italiano.

Riferimenti bibliografici

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— (1930) La questione del sergente Grischa, Milano: Mondadori.

Note

[1] Per un ulteriore approfondimento, si rimanda alla mia tesi di dottorato (Barrale 2010).

[2] Intendendo fornire un criterio di confronto ‘non soggettivo’ tra i due testi, si è adottata infatti una strategia traduttiva che mantenesse quanto più possibile la struttura del testo originale, calcandone gli aspetti sintattici di partenza, pur allontanandosene nel caso di frasi idiomatiche e collocazioni lessicali assenti nella lingua di arrivo.

[3] Il totale delle eliminazioni ammonta a circa 140 pagine su 553.

[4] Nel 1930, a meno di un anno dalla sua pubblicazione, la Modernissima proponeva Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, nella traduzione di Alberto Spaini, la stessa conosciuta dai lettori di oggi.

[5] Si trattò di 35 mila copie tra il 1940 e il 1943. Fino al 1950 continuò ad essere ristampato per la ‘Medusa’ (dodici ristampe), per passare poi a ‘I libri del Pavone’ (1956 e 1960) e approdare dal 1968 nella serie ‘Oscar’, dove fu ristampato fino al 1992.

[6] Cfr. TP: 189-201; TA: 204.

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Dottore di ricerca presso l'università di Palermo.

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©inTRAlinea & Natascia Barrale (2011).
"Non solo censura Tre esempi di traduzione dalla narrativa tedesca sotto il fascismo", inTRAlinea Vol. 13.

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