Per una fenomenologia del tradurre

Nasi, Franco & Marc Silver (a cura di) (2009)

Officina Edizioni: Roma, pp. 208, € 16,-

Reviewed by: Cecilia Lazzeretti

Per una fenomenologia del tradurre, a cura di Franco Nasi e Marc Silver, si apre e si chiude nel nome di Emilio Mattioli (1933-2007), fondatore della rivista “Testo a Fronte” e professore di Estetica, al quale il volume è dedicato, a due anni dalla scomparsa. Il richiamo al metodo indicato dallo studioso è già implicito nel titolo, dove la scelta della preposizione per presuppone che si lasci aperto il dibattito sulla traduzione e che si guardino con sospetto le soluzioni dogmatiche e definitorie. Proprio Mattioli, infatti, in un articolo quasi pionieristico per la traduttologia, apparso su “il verri” nel 1965, alla domanda categorica “è possibile tradurre?” o a quella ontologica “che cosa è la traduzione” suggeriva di “sospendere il giudizio” e muovere piuttosto a un rilievo dei modi in cui la traduzione si era esercitata nel tempo, preferendo le domande alternative “come si può tradurre?” e “che senso ha tradurre?”.

Il volume raccoglie dieci contributi elaborati nel 2008, in occasione dell’annuale seminario sulla traduzione presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, alle cui precedenti edizioni Mattioli aveva partecipato con interventi puntuali su Semiotica e traduzione (in Hans Honnacker, ed., Dieci incontri per parlare di traduzione, 2005), sulla poetica (in G. Palumbo, ed., I diversi volti del tradurre, 2007, entrambi in http://www.slc.unimore.it/on-line/Home/articolo5437.html)e sull’etica della traduzione (ora in E. Mattioli, L’etica del tradurre, Mucchi, 2009, pp. 59-64). Gli atti si concludono con l’inedita trascrizione della registrazione di un intervento che Mattioli tenne nel 1994 a un ciclo di conferenze organizzate dall’Istituto Antonio Banfi di Reggio Emilia dal titolo “I poeti traducono i poeti”; ciclo curato dallo stesso Mattioli e che vide la partecipazione, fra gli altri, di Giovanni Giudici, Andrea Zanzotto e Maria Luisa Spaziani.

L’invito di Franco Nasi, che firma l’introduzione, è di cominciare la lettura del volume dal fondo, proprio da quel testo trascritto di Mattioli, che si potrebbe definire “seminale” e programmatico (pp. 193-205). Curiosamente, alcuni dei concetti espressi in quest’appendice ricompaiono nei saggi che la precedono. Per esempio, Mattioli richiama l’attenzione sull’etimo del verbo tradurre, che, come è noto, viene utilizzato per la prima volta per indicare una traduzione linguistica nel De interpretatione recta dell’umanista Leonardo Bruni. Ma né il latino traducere né il greco metafèrein avevano originariamente quel significato, alludevano piuttosto ad un trasferimento, ad uno spostamento. È lo stesso concetto espresso da Salman Rushdie, citato nel saggio di Giovanna Buonanno (“La scrittura della Black Britain tra ibridazione e traduzione culturale”, pp. 119-137), che di sé e della condizione di tutti gli scrittori migranti scrive “We are translated men”: la scrittura, per questi autori, si configura, spiega Buonanno, come un terzo spazio, diverso sia da quello della cultura d’origine, sia da quello della cultura d’arrivo, il che pone forti analogie con l’attività di traduzione che, allo stesso modo, è sempre frutto di un trasferimento. Mattioli evidenzia inoltre l’importanza, per il traduttore, di conoscere a fondo la poetica dell’autore che ci si accinge a tradurre e cita come massimo esempio di dialogo tra poeti quello che seppe creare in absentia Paul Valery con il Virgilio delle Bucoliche: un dialogo talmente intenso e totalizzante da condurre a una confusione di ruoli, al punto che il traduttore, talvolta, vorrebbe addirittura mettere mano all’originale, apportando cambiamenti ai versi di Virgilio.

Una sintonia non dissimile tra autore e traduttore è quella che auspica Hans Honnacker (“Echi traduttivi: dire quasi la stessa cosa di Umberto Eco in traduzione tedesca” pp. 155-166). Il modello a cui guardare, per Honnacker, è il mutuo scambio di informazioni instauratosi negli anni tra Umberto Eco e il suo traduttore tedesco Burkahrdt Kroeber, che si misurano spesso in un confronto serrato, non privo di spunti polemici. Ciò va a grande beneficio del lettore tedesco, che, spiega Honnacker, in qualche caso, grazie alla versione di Kroeber riceve ancora di più di quanto riceverebbe leggendo il testo in lingua originale. Mattioli affermava nel 1994 che “l’idea che non esiste un’unica soluzione nemmeno per la traduzione di un testo in versi” è “la più produttiva” (p. 198). Ne dà una prova convincente Franco Nasi (“Specchi deformanti. Riflessioni sul tradurre”, pp. 45-72) attraverso la comparazione di sei diverse traduzioni del celebre carme 1, XI di Orazio, riferite ad epoche diverse e caratterizzate da differenti livelli di manipolazione (metrica, fonetica, ideologica). La varietà delle soluzioni adottate dai traduttori, tra i quali anche Pascoli e Sanguineti, sembra avvalorare il significato del carpe diem oraziano e suggerire a tutti i traduttori che occorre fare del proprio meglio qui ed ora, senza la presunzione di poter superare chi verrà dopo e si cimenterà con lo stesso testo.

Nel presentare alcune delle prospettive più fertili e in via di sviluppo per lo studio della traduzione Mattioli cita quella dell’intertestualità, termine proposto da Julia Kristeva nel 1966 sulla scorta di Bachtin. Il tema è ripreso sia da Franco Buffoni, sia da Lawrence Venuti. Buffoni (“Da traduttologia e ritmologia. Per Emilio Mattioli” pp. 13-30) sottolinea come il fatto di inserire la traduzione all’interno di una catena intertestuale consenta di difenderne la dignità artistica rispetto agli altri testi con i quali è messa in relazione e quindi di superare la dicotomia che oppone originale e copia. Per Venuti (“Traduzione tra l’universale e il locale”, pp. 31-44) l’intertestualità è uno degli universali della traduzione, insieme ad interpretazione ed etica: ogni traduttore, cioè, opera una ri-contestualizzazione del testo da tradurre, attingendo ad elementi intertestuali diversi da quelli che caratterizzano il testo d’origine, in grado di rendere la traduzione più comprensibile e interessante per i riceventi. Venuti cita come esempio la traduzione di E. F. Watling dell’Oedipus di Seneca, compiuta negli anni sessanta del secolo scorso, il cui intertesto è il dramma elisabettiano. Il risultato della sua traduzione evoca Shakespeare e Marlowe: un richiamo oltretutto filologicamente corretto, dal momento che il teatro di Seneca influenzò molto gli elisabettiani. La prima parte di Per una fenomenologia del tradurre è sicuramente più densa dal punto di vista concettuale e privilegia gli aspetti teorici della traduttologia, termine orgogliosamente rivendicato da Buffoni per gli studi sulla traduzione.

A chiudere idealmente questa prima metà del volume è un saggio di Marc Silver (“Tradurre senza testo originale: verso una teoria psicoanalista della traduzione”. pp. 73-86) che sembra richiamare ancora una volta i dettami di Mattioli, sfidando ulteriormente i limiti della traduzione e aprendo ad una dimensione quasi paradossale: si può tradurre qualcosa che non ha testo? Il metodo psicanalitico dimostra che ciò non solo è possibile, ma addirittura necessario se si vuole far affiorare l’inconscio del paziente, che non può emergere a livello superficiale in forma di linguaggio, perché rimosso. Non a caso Lacan, ricorda Silver, invitava i suoi allievi a sviluppare forme di comprensione al di là dei meri significanti, a leggere poesia ed enigmistica, per imparare a cogliere la dimensione non-linguistica del linguaggio. Una volta assunta come valida l’equazione psicanalisi-traduzione, l’antinomia tra traduzione e testo originale verrebbe superata definitivamente e la presunta superiorità dell’uno rispetto all’altra sarebbe nettamente confutata. Di fronte a un simile estremo parrebbe opportuno, ancora una volta, citare le parole di Mattioli in appendice e in particolare il riferimento, espresso attraverso un richiamo a Paul Valery, al fatto che qualunque attività umana può essere interpretata come un atto di traduzione: “Scrivere qualunque cosa […] è un lavoro di traduzione” (p.197).

Nella seconda parte di Per una fenomenologia del tradurre il livello teorico lascia il posto ad una esemplificazione di alcuni degli aspetti più concreti e attivi del mestiere di traduttore. Giuseppe Palumbo (“Ripensare la traduzione? Appunti sul ruolo delle (nuove) tecnologie”, pp. 87-98) illustra le principali innovazioni tecnologiche offerte ai traduttori, in primis la possibilità di confrontarsi con la vasta comunità online di colleghi e la disponibilità di memorie di traduzione: strumenti in grado di velocizzare il lavoro ma anche di determinare una contrazione delle tariffe professionali. Ritta Oittinen (“Da Pollicina a Winnie The Pooh: immagini, parole e suoni nella traduzione”, pp. 99-118) introduce al lavoro specifico di traduzione di testi multimediali per l’infanzia, come gli albi illustrati e i film di animazione. Loredana Magazzeni (“Nomadismo e tradizione nella poesia femminile indiana”, pp. 139-154) rivendica il valore politico della traduzione di poesia femminile in grado di gettar luce su culture molto lontane dalla nostra e di affrancare la donna da una condizione subalterna. Letizia Cirillo e Laura Gavioli (“Tradurre nell’interazione orale”, pp. 167-192), infine, discutono alcuni aspetti della traduzione dialogica, evidenziando che non esiste solo la traduzione di testi letterari scritti ma anzi che quella orale è tra le più diffuse forme di traduzione sin dall’antichità. Nell’analisi della traduzione dialogica il testo perde la priorità in funzione dell’interazione tra i partecipanti ed emerge il ruolo centrale e tutt’altro che neutrale dell’interprete, in grado di indirizzare la conversazione e di negoziare i contenuti. Al termine dell’esame di Per una fenomenologia del tradurre possiamo affermare che l’obiettivo alla base dell’opera, quello di fornire un apporto critico che non risolvesse, ma aiutasse a comprendere la complessità dei temi e delle prospettive metodologiche che si accompagnano all’atto del tradurre, proprio così come indicato nell’introduzione, è stato pienamente raggiunto.

Ai curatori del volume va riconosciuto il merito di aver saputo selezionare studi che, pur nella loro specificità e autonomia, insieme rivelano caratteri di interdipendenza e rimandano implicitamente l’uno all’altro. La raccolta è quindi in grado di offrire una vasta panoramica sugli studi sulla traduzione, con uno sguardo bifocale alle pratiche del presente e alle teorie ereditate dalla tradizione, evidenziando la necessità di un approccio multidisciplinare e, soprattutto, di un atteggiamento non dogmatico nei confronti della traduzione.

©inTRAlinea & Cecilia Lazzeretti (2011).
[Review] "Per una fenomenologia del tradurre", inTRAlinea Vol. 13
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Stable URL: https://www.intralinea.org/reviews/item/1101

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