The Translator as Author. Perspectives on Literary Translation.

Proceedings of the International Conference, Università per Stranieri di Siena 28-29 May 2009

Claudia Buffagni, Beatrice Garzelli, & Serenella Zanotti (Eds) (2011)

LIT Verlag, Berlin, pp. 245 ISBN 978-3-643-10416-8

Reviewed by: Pierangela Diadori

Il volume curato da Claudia Buffagni, Beatrice Garzelli e Serenella Zanotti, ricercatrici rispettivamente di lingua e traduzione tedesca, spagnola e inglese[1], raccoglie i contributi dei relatori al convegno internazionale tenutosi presso l’Università per Stranieri di Siena il 28 e 29 maggio 2009. Tema dell’incontro, a cui hanno partecipato alcuni dei traduttologi di maggiore spicco a livello internazionale, era il ruolo dell’autore (del prototesto e del metatesto), come si evince dal titolo delle tre sezioni in cui si era articolato il convegno e che rappresentano l’asse portante del volume stesso: 1. The translator as author? (con introduzione di Claudia Buffagni),  2. The tanslator and the author. (con introduzione di Serenella Zanotti), 3. The translator as mediator. (con introduzione di Beatrice Garzelli).

1. Il traduttore come autore?

Il punto di domanda aggiunto al titolo di questa sezione esprime bene l’esitazione con cui ci si avvicina ancora oggi, nell’ambito della traduzione letteraria, all’idea della parità di prestigio fra autore del prototesto e autore del metatesto, frutto di una lunga tradizione Occidentale che associa al rapporto fra i due soggetti l’idea di una asimmetria di fondo, colmabile forse solo se a tradurre non è un esperto del contatto linguistico ma piuttosto un letterato prestato temporaneamente al mestiere di traduttore. Tali concetti vengono rimessi in discussione in questa sezione, che accoglie i contributi di Christiane Nord, Antony Pym, Bruno Osimo e Franco Buffoni.

La prospettiva di Christiane Nord è quella funzionalista, che applica anche alla traduzione letteraria il processo di analisi tipico della Skopostheorie (Reiss e Vermeer 1984, Nord 1991, 1997, Vermeer 2000). Il traduttore letterario, una volta individuato il proprio lettore-modello, sceglierà in base a questo l’approccio traduttivo più adeguato fra i vari possibili (per es. straniamento vs addomesticamento, connotazione vs neutralizzazione, priorità al prototesto vs priorità al destinatario). Nel caso della traduzione letteraria sono possibili ulteriori scelte, per es. realizzando una traduzione con note, con glosse, con testo a fronte ecc. Quello che è certo, secondo la Nord, è che l’operazione traduttiva non solo è possibile, ma può perfino dimostrarsi un’occasione di “crescita” qualitativa e quantitativa rispetto alla forma del prototesto: dal punto di vista quantitativo, essendo reso disponibile a un numero più ampio di lettori, il prototesto amplifica il proprio raggio di influenza e espande il suo scopo a pubblici diversi rispetto a quello originario. Dal punto di vista qualitativo la traduzione letteraria offre ai nuovi destinatari l’occasione di ampliare i propri orizzonti culturali, la propria visione del mondo e perfino il proprio spazio linguistico attraverso neoconiazioni e prestiti dalla lingua del prototesto. “Growth in translation”, dunque, piuttosto che “Loss in translation”, secondo la Nord.

Più critica invece la visione del ruolo autoriale del traduttore di Anthony Pym, che già nel titolo si scusa per la sua posizione controcorrente rispetto alle rivendicazioni di vari teorici della traduzione, specialmente di quelli legati al creative turn dei Translation Studies, come Lawrence Venuti. Secondo Pym un traduttore non può essere definito un “autore” in primo luogo perché non ha la responsabilità delle parole e del messaggio che trasmette: come sostiene il sociologo canadese Erving Goffman, infatti, il termine “autore” indica la persona “who takes responsibility for an utterance”. Al contrario, il traduttore che traduce una frase in prima persona, non ha la responsabilità di ciò che viene detto: la prima persona si riferisce all’autore del prototesto, non a lui. Certo, al traduttore si chiede di riportare “fedelmente” (?) il pensiero dell’autore del prototesto, ma questo non indica “authorship”, almeno non nel senso di esprimere “discoursive positioning, beliefs and committment” propri. Il pessimismo di Pym deriva soprattutto dal fatto che oggi il traduttore raramente ha la possibilità di scegliere cosa tradurre o come tradurre: si pensi alla difficoltà di far circolare anche in traduzione opere non canoniche o politicamente scorrette, si pensi alla difficoltà per i mediatori di usare generi testuali interlinguistici come il discorso riportato o il commento, che permetterebbero loro davvero di avere visibilità e prestigio autoriale. Ma fortunatamente, conclude Pym, “translation is not the only form in town”.

Bruno Osimo si sposta sul piano psicolinguistico e semiotico, sintetizzando il pensiero di alcuni importanti pensatori est-europei attivi nel cinquantennio 1959-2009: lo psicologo russo Lev Vygotsky e il suo concetto di “discorso interno” (1934), il linguista russo-americano Roman Jakobson e il suo concetto di “traduzione intersemiotica” (1959), il traduttologo russo Alexander Lûdskanov e il suo approccio semiotico alla traduzione (1967), lo studioso slovacco Anton Popovič e il concetto di prototesto e metatesto che implicano una diversa dinamica di riferimenti intertestuali fra testo originale e testo tradotto (1975), il traduttologo estone Peeter Torop e il suo concetto di “traduzione totale” (1995), il semiologo russo Jurij Lotman e il concetto di “semiosfera” (2000). Il pensiero est-europeo condivide l’idea di traduzione come centrale di qualsiasi tipo di comunicazione, associandolo all’idea semiotica di trasferimento di senso e di passaggio da un codice all’altro attraverso canali diversi, primo fra tutti quello mentale della percezione individuale e del discorso interno. In tal senso ogni forma di traduzione, sia interlinguistica che intralinguistica e intersemiotica,  implica un ruolo creativo del soggetto che interpreta e traduce.

Chiude questa sezione l’intervento di Franco Buffoni, secondo il quale la traduzione letteraria scaturisce dall’incontro di due poetiche: quella dell’autore tradotto e quella del traduttore stesso. Secondo Buffoni il testo letterario non è fisso e immutato a differenza delle sue traduzioni che si susseguono per adattarsi nel tempo a sempre nuovi destinatari: anch’esso è in movimento, visto che sempre nuove e diverse sono le interpretazioni che ne possono dare i suoi lettori,. In tal senso per Buffoni “la dignità estetica della traduzione appare come il frutto di un incontro tra pari”, in cui fondamentali sono i concetti di ritmo, pre-testo, intertestualità, poetica e movimento della lingua nel tempo.

2. Il traduttore e l’autore.

Se è vero che il traduttore non può identificarsi nell’autore (come sostiene Pym) o, da un altro punto di vista, che può nascondere o manifestare la propria identità autoriale (come sostiene Venuti), certo è che spesso le due figure si sovrappongono, si integrano, si affiancano. Il primo caso è quello dell’autore che si autotraduce in una lingua diversa dalla propria (spesso la lingua dominante, nel caso della letteratura postcoloniale). Il secondo caso è quello dell’autore che lavora fianco a fianco con i propri traduttori, spesso scoprendo interpretazioni nuove nel proprio stesso testo (in un atto di “cannibalismo” all’inverso”). Il terzo caso è quello dell’autore ri-tradotto, che vede amplificata la dicotomia autore-traduttore/i. Su questi complessi rapporti fra autore e traduttore, che sconfinano nella metafora dei vasi comunicanti, si esprimono i contributi inseriti in questa sezione, realizzati da teorici della traduzione che sono anche traduttori di testi letterari: Susan Bassnett, Moshe Kahn, Antonio Melis, Mario Fusco, Yasmina Melaouah, Claudio Groff e Barbara Ivančić.

Susan Bassnett riprende il tema di un volume da lei curato nel 2006 con Peter Bush (The Translator as Writer) per riaffermare che la traduzione è sempre un atto creativo di ri-scrittura in cui è impossibile separare il traduttore dallo scrittore. La sua peculiarità sta nella costante tensione fra libertà (di scelta, di allontanamento dal prototesto) e costrizione (cioè i limiti che a tale libertà vengono posti dal testo stesso e dalle possibilità di negoziazione che il traduttore decide di accogliere). Non solo: spesso tradurre, secondo la Bassnett, è “the logical next stage of a writer’s individual development”. Lo stile del traduttore che influenza quello dell’autore tradotto rappresenta un caso ulteriore in cui i confini fra autore e traduttore si fondono e che dimostra una volta di più quanto sia forte l’impatto della letteratura tradotta nei sistemi culturali in cui si inserisce. 

Un particolare rapporto fra autore e traduttore è quello descritto da  Moshe Kahn, che da anni traduce in tedesco testi letterari italiani caratterizzati dall’uso di varietà substandard o dialettali: da Malerba a Pasolini a Camilleri. Secondo Kahn il dialetto non va tradotto ma “trattato”. Le sue scelte hanno di volta in volta seguito sia le indicazioni dell’editore sia la sua personale sensibilità: come quando scelse di utilizzare un gergo popolare di sua creazione, comprensibile a qualsiasi germanofono ma non associabile a nessuna varietà regionale, per tradurre il romanesco di Ragazzi di vita di Pasolini, o come quando decise di usare una varietà di tedesco del sud della Germania nella traduzione dei romanzi di Camilleri della serie del Commissario Montalbano scritti nella varietà siciliana. Kahn non si sente un co-autore per il semplice fatto di avere elaborato delle soluzioni creative capaci di riprodurre sui suoi lettori un effetto analogo a quello esercitato dall’autore sui propri. Il suo ruolo (e la sua massima ricompensa) sta nell’aver reso all’autore questo servizio.

Antonio Melis descrive il caso di José María Arguedas, uno scrittore che scrive in quechua e si autotraduce in spagnolo. Dal confronto analitico di una sua poesia bilingue (“Appello ad alcuni dottori”) emergono sia interferenze reciproche, sia forti differenze dovute ai pubblici diversi a cui le due versioni si rivolgono, rendendo anche in questo caso difficile il compito di separare il ruolo dell’autore e quello del traduttore, ancorché identificabili in questo caso nella stessa persona.

Mario Fusco tocca l’altra questione delle ri-traduzioni. A partire da certi problemi incontrati nelle soluzioni traduttive di varie opere, Fusco spiega le proprie varianti, come nel caso dei nomi dei personaggi e dei luoghi della traduzione in francese de La coscienza di Zeno, o delle espressioni alternative all’argot usato nella traduzione di Paesi tuoi di Cesare Pavese. Anche qui il traduttore letterario si pone al servizio dell’autore, cercando di evitare errori e fraintendimenti in un processo di affinamento continuo.

Yasmina Melaouah presenta la propria esperienza di traduttrice dal francese all’italiano del romanzo Zone di Mathias Enard (2008), “costituito da un’unica frase di 517 pagine. Un’unica frase per raccontare il viaggio in treno di un uomo che si reca da Milano a Roma”: il lessico, la sintassi, gli impliciti, i riferimenti extralinguistici rendono qui particolarmente vera la metafora del testo letterario come “eco di un mondo” e di conseguenza quella della traduzione letteraria come di “eco di un (sic) eco dal mondo” (curiosamente la Melaouah sceglie di trattare l’eco come sostantivo maschile in tutto il capitolo).

Ancora una testimonianza sul campo, quella di Claudio Groff traduttore dal tedesco in italiano delle opere di Günter Grass, autore particolarmente prodigo di indicazioni e suggerimenti, di cui vengono ricordati i regolari incontri seminariali con i propri traduttori tutti impegnati contemporaneamente nella traduzione di un suo romanzo. La traduzione come scrittura collaborativa, in questo caso, mostra non solo il ruolo asimmetrico seppure complementare fra autore e traduttore, ma anche quello paritario e sinergico dei traduttori fra loro.

Barbara Ivančić conclude questa sezione con un altro esempio di processo traduttivo collaborativo: quello fra Claudio Magris (scrittore e germanista) e i sui traduttori. Come Grass, Magris partecipa al lavoro di traduzione delle proprie opere con suggerimenti, chiarimenti lessicali, riferimenti alle proprie vicende personali, trasmessi per lettera ai propri traduttori. Varie forme di negoziazione caratterizzano questo tipo di rapporto, secondo la Ivančić: fra traduttore e autore, senza dubbio, oltre che fra traduttore e testo e fra autore e testo, come dimostra il caso del trattamento dei nomi di luoghi (Fiume / Rijeka, Antholz / Anterselva) nell’opera Microcosmi.

Autore e traduttore (o meglio, utilizzando la terminologia di Popovič 1975, autore del “prototesto” e autore del “metatesto”) hanno dunque ruoli diversi, che talvolta possono coincidere, ribaltarsi o avvicinarsi al punto da rendere difficile una separazione netta o un’attribuzione di ruoli asimmetrica e univoca. Vale in certi casi la metafora musicale del traduttore letterario come “performer”, come esecutore della musica creata da altri, che comporta comunque il riconoscimento della qualità artistica del suo lavoro, della sua creatività e unicità.

3. Il traduttore come mediatore.

In tempi recenti la traduzione ha assunto una dimensione sociale più ampia e, grazie all’iperonimo “mediazione” che comprende in sé varie forme (scritta, orale, trasmessa), viene oggi intesa nella prospettiva primaria della comunicazione fra soggetti altrimenti incapaci di entrare in contatto fra loro. Il traduttore come mediatore tra lingue e culture è una figura cruciale in particolare nell’Europa contemporanea, in cui il plurilinguismo va garantito ma non a discapito della mobilità delle persone, della reciproca conoscenza e dell’inclusione. Anche la traduzione letteraria può esser vista in questa ottica, che caratterizza anche altri professionisti del contatto linguistico (mediatori linguistico-culturali, interpreti di trattativa e di comunità). In questa sezione i contributi di Tim Parks, Maria Grazia Profeti, Maria Avino, Anna Maria Paoluzzi, Rosa Lombardi, oltre ad occuparsi di varie lingue (inglese, spagnolo, arabo e cinese), affrontano anche generi testuali molto diversi fra loro (teatro, poesia, narrativa, saggistica), sia contemporanei che del passato, ma sempre dal punto di vista del traduttore come ponte fra culture diverse, secondo un concetto “dinamico” di traduzione letteraria.

Tim Parks si concentra sulla difficoltà di mediare fra passato e presente nel caso della traduzione dei classici. Per esempio, tradurre l’italiano “principe” con l’inglese “prince” comporta uno slittamento su accezioni e connotazioni totalmente estranee all’uso di questo termine nell’opera omonima di Machiavelli. Lo stesso accade per molte parole dell’uso comune anche nell’Italia contemporanea, ma cariche di significati diversi se riportate all’epoca in cui l’opera fu scritta.

Problemi analoghi sono messi a fuoco da Maria Grazia Profeti, riferendosi alla traduzione dallo spagnolo in italiano dei testi teatrali del Siglo de Oro, a cui si aggiunge la necessità per i traduttori di conoscere lo scopo a cui risponde il loro lavoro: la traduzione per la lettura differisce infatti non poco da quella per la rappresentazione scenica, come dimostra per esempio l’aggiunta nel prologo delle spiegazioni sulla diversa forma scenica italiana rispetto a quella spagnola, o il ricorso a un trattamento più “moderno” delle metafore, delle figure retoriche, del ritmo e della rima, nonché della comicità tipica del teatro spagnolo del Seicento, pensato per un pubblico di sala di tre secoli dopo.

La funzione di ponte fra culture esercitata dalle traduzioni in arabo delle opere classiche scritte in molte lingue occidentali viene affrontata da Maria Avino, che ne ricorda la portata in quella che viene chiamata l’”età della traduzione”, che va dalla fine del Diciannovesimo secolo alla terza decade del Ventesimo secolo e che riempie il vuoto lasciato dall’”età della decadenza” (dal Quattordicesimo al Diciottesimo secolo). Si realizzano in questo periodo traduzioni in arabo di opere in greco e in latino, nonché di testi letterari in francese, in italiano, in tedesco e spagnolo, si traduce la Bibbia dal greco e dall’ebraico, con forti ricadute sulla stessa struttura dell’arabo che da questo momento si libera dallo stile involuto e complesso tipico del passato, tendendo verso costrutti più semplici e meno arcaici. In questi anni la traduzione viene vista come il mezzo per il mondo arabo di stabilire una forma di comunicazione più profonda con gli altri paesi, specialmente con quelli europei, ovvero con l’Occidente e non solo quello contemporaneo, ma anche quello del passato (come dimostra la traduzione dell’Iliade dal greco all’arabo del libanese Sulaymān al-Bustānī, completata nel 1904). Questo interesse di molti intellettuali arabofoni veniva tuttavia osteggiato da gruppi di conservatori che lo definivano spregiativamente come una “imitazione degli europei” temendone l’influsso sulla cultura arabo-islamica. Anche la traduzione letteraria, quindi, mostra in questo caso i rischi tipici della mediazione, che creando ponti permette la libera circolazione delle idee rendendo in certi casi più vulnerabili i luoghi e le persone, dal punto di vista sia metaforico che reale.

Altre sfide di tipo linguistico e culturale sono insite nella traduzione dei testi letterari dal cinese alle lingue occidentale, come osserva Anna Maria Paoluzzi a proposito delle traduzioni in italiano delle opere degli scrittori taiwanesi Wang Zhenhe e Bo Yang vissuti entrambi nel Novecento. La tensione fra domestication e cultural localization è costantemente presente, specialmente quando si tratta di gestire la presenza nel testo di realia della cultura taiwanese assenti in quella italiana, oppure l’alternanza fra cinese mandarino e dialetto di Taiwan (risolta dalla traduttrice con l’alternanza fra italiano standard e una varietà genericamente meridionale dell’italiano), o ancora l’uso di nomi fortemente connotati a livello semantico per i quali la semplice traslitterazione lascerebbe irrimediabili perdite di significato.

Rosa Lombardi conclude la sezione affrontando la stessa problematica del contatto fra lingua e cultura cinese e italiana attraverso la traduzione in italiano della poesia cinese classica del periodo Tang (618-907), sconosciuta in Italia fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando molte opere vennero tradotte per la prima volta ma non direttamente dal cinese, bensì da altre lingue occidentali. Questa doppia mediazione, accentuata dalla lontananza temporale oltre che culturale e geografica fra prototesto e metatesto, rappresenta un caso estremo ma non isolato in sui si esplica la funzione di mediatore del traduttore letterario.

4. Conclusioni

Gli interventi degli autori di questo volume (redatti in italiano o in inglese) trattano, come abbiamo visto, le tematiche sopra esposte facendo riferimento a esempi di testi letterari diversi (dal testo narrativo, al testo poetico, al testo teatrale), realizzati e tradotti in lingue diverse (inglese, italiano, spagnolo, tedesco, cinese, arabo e quechua), in varie epoche e in vari contesti geografici. Questa apparente eterogeneità rappresenta in realtà anche la ricchezza di questo volume, che vuole appunto mettere a confronto non solo le opinioni, i riferimenti teorici e esperienziali di traduttologi, linguisti, letterati e traduttori, ma anche spaziare, come è giusto, attraverso i generi e le culture, nell’ottica dell’approccio descrittivo dei Translation Studies ma anche alla ricerca di elementi costanti così come di fenomeni peculiari, oltre che di soluzioni traduttive possibili che permettano di affrontare i vari casi. Al centro di tutto sta comunque il soggetto umano che traduce, visto, in questo saggio, sia come autore, sia come alter ego dell’autore del prototesto, sia come mediatore che “sta in mezzo”: fra il prototesto e il metattesto, fra la cultura del primo e quella in cui andrà ad inserirsi il secondo, fra il destinatario-modello dell’autore e il proprio. Ci sembra giusto terminare questa recensione, ancora una volta, con più di un punto di domanda, questa volta riferito al ruolo specifico del traduttore: come ponte? come tramite? come mezzo di comunicazione interculturale? Tante e tali sono infatti le ulteriori questioni pratiche e speculative che apre lo stesso uso del termine “mediatore”, da poco introdotto nella cultura europea e mondiale con questa accezione e qui applicato anche al traduttore letterario.

Riferimenti bibliografici

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Venuti L., The Translator’s Invisibility, London and New York, Routledge, 1994

Note

[1] Claudia Buffagni e Beatrice Garzelli presso l’Università per Stranieri di Siena, Serenella Zanotti presso l’Università Roma Tre.

©inTRAlinea & Pierangela Diadori (2012).
[Review] "The Translator as Author. Perspectives on Literary Translation.", inTRAlinea Vol. 14
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