Spostare la scena

Sul tentativo di aprire il sipario minore sul maggiore: traduzione teatrale e lingue sconfitte

By Giovanni Nadiani (University of Bologna, Italy)

Abstract & Keywords

English:

The article deals with the paradoxical phenomenon of translation from “majority”  to “minority” languages and cultures. Building on Venuti’s (1998) definition of “minority languages”, I will use the term “minor defeated languages” for all those codes which are still used, mostly orally, in a situation of fast diminishing diglossia. This is the case of many vernaculars across Europe (in particular of some Italian and German dialects) as well as of some officially recognized and theoretically “safeguarded” languages, which are thus in the same sociolinguistic situation.  Cronin (2003) argues that, while for a language it is important to translate modernity, minor defeated languages can at best hope to integrate cultural products coming from a majority language, a practice in which they can count on an established tradition of quality. This “last offensive” is mainly carried out by intellectuals (in the sense of Wa Thiong’o 2004), and may be seen as a kind of strategy aimed at “sucking life” from majority languages and inflating it into minority ones. An especially interesting example of this strategy can be seen in stage translation from classical or majority languages into vernaculars. The paper also deals with general issues involved in stage translation and practical issues involved in translating plays written in “major” languages into “minor” ones.

Italian:

A partire dalla constatazione che in diverse parti d’Europa si assiste alla traduzione in cosiddette “lingue sconfitte”, cioè non garantite in alcuna maniera, come nel caso dei dialetti italiani, di importanti opere letterarie e teatrali scritte nelle lingue a maggiore diffusione o nelle grandi lingue classiche del passato, l’articolo nella prima parte pone alcune questioni sulla fattibilità e opportunità, soprattutto nel campo della traduzione teatrale, di tale operazione.  Nella seconda esso sottolinea l’importanza di tale operazione per il ribaltamento dell’immagine negativa di una data lingua sconfitta che hanno i relativi parlanti e, di conseguenza, per un rallentamento temporaneo dell’abbandono di quella lingua, vedendo in ciò il compito del cosiddetto “traduttore minore”.

Keywords: minority languages, berman, antoine, literary translation, traduzione letteraria, lingue sconfitte, traduzione teatrale, theatre translation

©inTRAlinea & Giovanni Nadiani (2006).
"Spostare la scena Sul tentativo di aprire il sipario minore sul maggiore: traduzione teatrale e lingue sconfitte", inTRAlinea Vol. 8.

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1. Alcune questioni ancora aperte

Il noto scrittore keniano Ngugi Wa Thiong’o,[1] imprigionato dalle autorità del suo Paese e successivamente costretto per oltre vent’anni all’esilio per aver contribuito alla stesura collettiva di una pièce scritta nella lingua nativa Gikuyu, abbandonando definitivamente nella scrittura creativa la lingua “colta” del dominatore inglese, e attuale professore di inglese e di letterature comparate nonché direttore dell’International Centre for Writing and Translation all’Università della California a Irvine, sostiene che

Intellectuals, from what we at the International Centre for Writing and Translation at the University of California at Irvine call marginalised languages – we call them marginalised not marginal – have to realize that their primary audience is that of the language and cultural community that gave them. It’s only they who can produce knowledge in their own languages for that audience defined by their access to that language, and then later, through translation, autotranslation, or by another person, open the works to audiences outside their original language community [url=#n2][2][/url][Pozo 2004: online].

È, ovviamente, sempre arbitrario voler adattare posizioni sorte in determinate situazioni socio-culturali e linguistiche, come quelle post-coloniali a cui si riferisce lo scrittore keniano, ad altre affatto differenti. Tuttavia, il dato di fatto inconfutabile del dominare o dell’essere dominati, se non solo, primariamente attraverso le lingue, e la posizione che ogni scrittore (traduttore) assume, più o meno direttamente, nei confronti dei codici con cui si trova a operare, possono essere considerate delle costanti spazio-temporali universali che, quindi, ci permettono di confrontarci con alcune problematiche sollevate nella citazione sopra riportata, tanto più che Wa Thiong’o è perfettamente a conoscenza dei rapporti di forza linguistici vigenti anche nelle le società occidentali e tra di esse, e non solo tra l’Occidente e le ex colonie [cfr. Wa Thiong’o 2000: 73-85].

In sostanza, l’affermazione citata mette in campo, mutatis mutandis, alcune questioni che ci interessano da vicino, sia che si tratti dello scrivere in lingua emarginata/dialetto tout court, sia che ci si presti a tradurre in una data lingua emarginata priva di koiné non formalizzata, un’opera teatrale di un autore “classico” che ha scritto in una lingua imperiale del passato, classica e codificata immutabilmente, come potrebbe essere Plauto, o un autore “classico” della contemporaneità scrivente nella lingua pervasiva e mobilissima dell’Impero[3], poniamo il Premio Nobel Harold Pinter, nella language of the capital [la lingua del capitale/della capitale/del centro/dei grandi immaginari] come la definisce egli stesso [Pinter 1988: 21].

Che cosa significa, innanzitutto, tradurre per il teatro? Perché si fa? Quali sono le motivazioni che spingono qualcuno a tradurre per la scena? Perché, in una situazione di diglossia scemante in cui una lingua nazionale (seppure nelle sue varianti regionali) si sostituisce nelle funzioni comunicative principali a un’altra preesistente ma ormai sconfitta, si traducono opere teatrali proprio in quest’ultima, costretta tra l’altro a una consistente dose di prestiti[4] per adempiere a tale compito? D’altro canto quest’operazione di lingue in contatto non può forse, in certi casi, restituire caratteristiche dell’opera originale meglio di una piatta versione in una qualche sorta di pseudo-standard? “E dove mettiamo il prestigio?”, dirà qualcuno. Non è un’operazione altamente svalutante trasporre l’opera di un “classico”, antico o moderno che sia, in una lingua per troppo tempo ormai sanzionata socialmente proprio per la sua mancanza di prestigio? E poi, ancora, come far fronte con un “povero” codice orale, destinato quasi esclusivamente alla servile comunicazione quotidiana tra le pareti domestiche, a una lingua che può vantare secoli di grandissima scrittura in tutti i generi testuali stoccata tra gli scaffali di altissime biblioteche? Esiste una tale tradizione di linguaggio, in questo caso, teatrale nelle sue varianti (da quello in versi a quello eminentemente colloquiale) da consentire un’assunzione nella lingua emarginata (indolore per l’opera originale) di una tanto forte e alta alterità[5]? D’altro canto, la lingua teatrale per sua natura non è forse “written to be spoken” [scritta per essere recitata/detta] [Snell-Hornby 1996: 33]? E come la mettiamo col cronòtopo bachtiniano, con le coordinate spaziotemporali (ma anche culturali e psicologiche) in esso racchiuse, “poiché le difficoltà traduttive aumentano in proporzione alla distanza cronotopica tra il testo che viene tradotto e la cultura verso la quale viene proiettato attraverso la traduzione” [Osimo 2000: 13-14]? E a proposito di graffiare il prestigio di una lingua di cultura “alta” e dei relativi argomenti “alti”, non è proprio questo ciò che succede anche con il latino della liturgia cattolica, addirittura con la parola di Dio in greco o della Vulgata tradotta nelle tante parlate africane senza alcuna tradizione scritta[6]?

Ma sì, – si potrebbe ribadire ribaltando la prospettiva – è assolutamente questo il compito dell’intellettuale, dello scrittore/traduttore nato dialettofono: “produrre la conoscenza proprio nella lingua di quel dato pubblico definito dal suo accesso a quella data lingua” (cfr. traduzione della citazione di Wa Thiong’o) e, in tal modo, contribuire ad arricchire la sua lingua, allargandone l’orizzonte culturale e, soprattutto, sviscerandone le potenzialità espressive con la propria bravura, affermare la propria “necessaria” peculiarità e creare la tradizione. Perché è proprio quest’operazione di ripresa e di valorizzazione di un elemento (la lingua), se vogliamo, del passato di un luogo e di una comunità, a farne semenza per un possibile futuro, o perlomeno a procrastinare ancora un poco la definitiva scomparsa:

Aesthetics does not develop in a social vacuum. The aesthetic conception of life is a product of life itself which it then reflects. A flower, so beautiful, is the product of the entire tree. But a flower is also an important marker of the identity of a particular individual plant. The flower, so delicate, also contains the seeds for the continuation of that plant. A product of the past of that plant, it also becomes the future of the same plant[7][Wa Thiong’o in Pozo 2004: online. Enfasi mia].

Ma, si potrebbe obiettare, siamo propri sicuri che esista ancora una comunità di parlanti pronti a recepire quell’opera in traduzione? Non si tratta forse di un’estrema illusione in cui cade l’intellettuale/scrittore/traduttore in lingua sconfitta? Non è soltanto un’operazione intellettualoide fine a sé stessa dal momento che ormai il dado sembra definitivamente tratto per determinate lingue[8], impossibilitate a succhiare la linfa vitale di ogni lingua che si rispetti e perpetui, cioè quella che oggi le proviene in gran parte, sebbene non solo, dai mezzi di comunicazione di massa?

E se invece non fosse proprio così? Le fortune degli uomini e delle loro lingue possono essere caduche, come pure le sfortune: se, dati certi presupposti socio-culturali, una data lingua sconfitta viene paradossalmente “ripescata”, anche solo temporaneamente, nell’alta società della cultura prestigiosa[9] proprio ad opera di quegli intellettuali/scrittori/traduttori di cui parla il nostro autore keniano, quest’operare – d’accordo, probabilmente per un lasso di tempo limitato – potrà forse avere ancora una sua porzione di senso. 
Le questioni che si sono appena poste, il cui elenco potrebbe essere allungato a piacere, sono variegate, complesse, stratificate e colme di molteplici implicazioni. Di seguito non si cercherà tanto di sviscerarle e di risolverle, bensì semplicemente di proporre qualche prospettiva per una loro parziale lettura.

2. La dominante nella traduzione teatrale – Necessità o committenza? Scrittura o performance?

Nel caso della traduzione per il teatro, tra “le occasioni pratiche del processo traduttivo, cioè i motivi concreti a causa dei quali una traduzione viene realizzata” [Zuccato 2004: 469], generalmente si riscontra in un numero infinitamente minore di casi rispetto ad altri generi letterari come la poesia, la prosa poetica, il frammento, la narrazione-lampo epifanica, la short story ecc., la libera scelta, cioè quell’assoluta spinta interiore, quella Sehnsucht, quella nostalgia/desiderio struggenti del testo, anzi dell’anima di un autore[10]. Quello che, insomma, potremmo definire il gesto gratuito e necessario di un’acquisizione testuale in una data lingua autoriale, quel

quantum di forza tensionale e differenziale, sentito come reagente (e agente) all’interno della lingua nella quale si vuole dare ‘traduzione’[…]. Da un’altra lingua, dalla sua poesia, può partire l’impulso a riconoscere un’esigenza viva di intonare il respiro e lo sguardo della nostra lingua. […] la vocazione a configurare un nuovo legame del sentire e del conoscere, che già ci chiama, e vuole che gli sia data riconoscibilità, vuole e offre riconoscenza” [Villalta 2005: 41-42].

Quasi sempre, anche nel caso di opere teatrali in versi o a forte componente di scrittura poetica, l’occasione della traduzione è un incarico attribuito da un committente a un traduttore (specialista di una certa lingua, autore teatrale in proprio conoscitore di quella lingua o quant’altro). Indipendentemente dal tipo di occasione traduttiva, questa determinerà comunque la scelta di una specifica “dominante” nella realizzazione pratica della traduzione, secondo quanto proposto da Torop [2000] sviluppando un concetto di Jakobson [1987], cioè di un “elemento, all’interno di un testo, che viene considerato irrinunciabile per caratterizzare il testo stesso. In funzione della dominante viene attuata la strategia traduttiva, che consiste nel trovare tutti i mezzi necessari sacrificando elementi secondari di cui si può dare conto nella traduzione metatestuale, ossia sotto forma di note, indicazioni in postfazione o prefazione o in altra forma al di fuori del testo vero e proprio” [Osimo 2000: 14]. In sostanza, nel caso di un’occasione di desiderio del testo senza fini scenici, la dominante si indirizzerà verso una soluzione eminentemente scritturale ovvero di leggibilità autoriale, cioè letteraria, che comunque farà i conti, se non con una visione “sacralizzante” del testo originale, almeno con un approccio rispettoso della sua letterarietà; mentre nel caso di una commissione a fini drammaturgici, la dominante propenderà quasi sicuramente per una resa scenica con tutte le conseguenze del caso, affidandosi a una visione traduttologica, se non proprio “etnocentrica” [cfr. Berman 1985: 48-49], in buona parte “addomesticante” [cfr. Venuti 1998b: 67-87], ripiegata se non altro sulle esigenze della produzione e della regia con in mente il loro pubblico, dunque funzionalistica [cfr. Reiß-Vermeer 1991][11]. Quanto affermato da Pirandello a proposito del drammaturgo si potrà, allora, estendere al traduttore, che si ritrova in una posizione molto simile alla figura del “Dramaturg” nella tradizione teatrale tedesca, cioè di ganglio vitale (per la messa in scena) tra l’autore, il testo, gli attori, il regista e il palcoscenico, quindi di “manipolatore”, “adattatore” dell’opera secondo quanto richiesto dalle esigenze della produzione: 

Ma perché dalle pagine scritte i personaggi balzino vivi e semoventi bisogna che il drammaturgo trovi la parola che sia l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’atto, l’espressione unica che non può essere che quella, propria cioè a quel dato personaggio in quella data situazione; parole espressioni che non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole [Pirandello 1908: 235].

Con questa affermazione il Premio Nobel siciliano tocca le questioni fondamentali del tradurre un’opera per la sua drammatizzazione, questioni – come si legge tra le righe – che intrecciano indissolubilmente l’operare linguistico con le giuste pretese di altri codici espressivi, ricordandoci la recitabilità in uno spazio e in un tempo precisi, o meglio l’usabilità performativa del testo scritto, la sua attuabilità da parte di attori/agenti, suggerendoci ciò che più tardi verrà definito come un insieme in cui interagiscono codici multipli [Bassnett-McGuire 1985], un tutto costituito da elementi interrelati che – come in un’esecuzione musicale – cambiano a seconda delle singole costellazioni delle componenti coinvolte. In ciò, il testo verbale può essere paragonato allo spartito, il quale può adempiere le sue potenzialità soltanto all’interno dell’ensemble costituito da strumenti e musicisti [Snell-Hornby 1993].
Nella stragrande maggioranza dei casi, l’occasione della traduzione in una lingua sconfitta, al pari di tante pièces scritte direttamente in quella lingua, è data dalla committenza (teatro, produttore, regista ecc.), intenta a soddisfare una certa aspettativa da parte di un pubblico “popolare” ancora parlante abbastanza attivo, magari solo tra le mura domestiche o in situazioni amichevoli (bar, circolo ecc.) della lingua in cui si traduce, oppure volta a sperimentare nuove formule espressive per un pubblico “colto” che, pur non parlando più (nel caso delle generazioni più mature) quella lingua essendosene “emancipato”, ancora o in qualche modo la comprende perché a suo tempo imparata, oppure non parlandola affatto perché solo orecchiata (nel caso delle giovani generazioni) è disposto a impegnarsi nella comprensione dell’espressività creativa[12]. Vale la pena, pertanto, soffermarsi brevemente su cosa comporta la scelta quasi obbligata di una “dominante” d’uso, cioè di una specifica strategia traduttiva tesa a produrre un testo destinato a un’effettiva messa in scena. 

2. 1. Cambio di scena: da lingua teatrale a lingua teatrale

Al pari di ogni altra espressione linguistica creativa (letteraria), anche quella teatrale nel suo aspetto dialogico (monologico) è una forma particolare di discorso, scritto per essere recitato, a volte ricalcato sulla più bassa oralità, ma assolutamente distinto dal discorso naturale in quanto creato arti-ficialmente, cioè arti-sticamente a tavolino, caratterizzato da particolari forme di coesione testuale, di densità semantica, di forme ellittiche complesse, da una deissi particolarmente adatta all’interpretazione attoriale ecc., insomma da tutto quanto in ambiente teatrale da Stanislavskiy in poi è noto come sottotesto. Esso è, inoltre, contraddistinto da un’interazione di prospettive multiple derivanti dal gioco simultaneo di diversi fattori e da ciò che essi risvegliano nel pubblico; particolarmente produttivo da questo punto di vista si rivela l’impiego di elementi paradossali, ironici, allusivi, metaforici, di climax o di anticlimax improvvisi ecc. Si può intenderlo anche come un’azione potenziale in progressione ritmica. Per ogni singolo personaggio/attore il discorso teatrale assume le caratteristiche di un idioletto, di una maschera linguistica che assieme al colore della voce, alla mimica, al movimento e quant’altro va a costituire nell’interpretazione in palcoscenico un tutto che si tiene. Infine, si può dire che per il singolo spettatore tra il pubblico il discorso e l’azione in scena vengano percepiti come un tutto sinuoso e, in ogni caso, come un’esperienza personale diretta, coinvolgente (anche al negativo nel caso della noiosità dello spettacolo). Queste componenti basilari del discorso teatrale devono essere tutte riconosciute e tenute in considerazione nella drammatizzazione ovvero in egual misura nella traduzione da drammatizzarsi [cfr. Snell-Hornby 1996: 33-34]. In sostanza, i testi teatrali possono essere descritti “as texts conceived for possible theatrical performance, as dominant verbal sign-systems which rule and integrate all other theatrical sign-structures”[13] [Totzeva 1999: 81]. A questo proposito Totzeva parla di “potenziale teatrale”, Theatrical Potential [TP], cioè della relazione semiotica tra segni verbali e segni non verbali ovvero strutture della performance, i codici[14] e le norme della quale devono essere compresi e studiati come un particolare sistema per la creazione di senso, basato storicamente su determinate tradizioni e convenzioni, che in un’ipotesi traduttiva devono essere ben presenti all’operatore.

TP can be seen as the capacity of a dramatic text to generate and involve different theatrical signs in a meaningful way when it is staged. The concept of TP aims to clarify how the various structural characteristics of a dramatic text stimulate and regulate the integration of theatrical signs to create intersemiotic meaning structures; for, after all, it is only the written dramatic text that provides the literary communication and allows the creation of all the different meanings which can be rendered through theatrical signs. […] The problem for translation as an interlingual transformation of the dramatic text is therefore how to create structures in the target language which can provide and evoke an integration of nonverbal theatrical signs in a performance[15] [Totzeva 1999: 82. Enfasi mia]

Dal punto di vista del traduttore – che almeno da ora in poi dovremmo definitivamente e idealmente vedere come una sorta di figura plurale o perlomeno come figura-ombra del regista-adattatore, esperto non solo dei codici linguistici ma in qualche misura anche del loro interrelarsi con codici d’altra natura, nonché delle tradizioni/convenzioni teatrali in gioco –, l’approccio di Totzeva, integrante altri importanti studi precedenti sempre di impianto semiotico che avevano sottolineato gli elementi necessari alla “eseguibilità” di un testo e, conseguentemente, da tenere presenti per la sua traduzione[16], ha il pregio di ricordare da un lato che, nel teatro di parola, il testo rimane pur sempre l’elemento che concretizza la comunicazione letteraria, che permette ancora l’identificazione dello spettacolo come appartenente, seppure in modo particolare, a una ben specifica tradizione di scrittura (a meno che non si vogliano cancellare secoli di storia letteraria)[17]  Dall’altro, esso evidenzia che questa stessa comunicazione letteraria è qualcosa di assolutamente dinamico, mobile, che si dà nel dialogo permanente del testo col sistema comunicativo non verbale. Tale dialogo apre nel momento traduttivo – in base a elementi definiti aesthetics dominants [dominanti d’estetica] che tengono conto delle rispettive tradizioni teatrali coinvolte – la possibilità di ricreare a livello linguistico strutture in grado di evocare o di procurare nella rappresentazione un’integrazione di segni teatrali non verbali. In sostanza, il traduttore nella stesura del testo d’arrivo fa già “leggere” a chi di dovere (regista, scenografo, costumista, tecnico delle luci, ingegnere del suono ecc.) le possibilità drammaturgiche implicite in esso, “dentro” la sua lingua, cioè quanto è stato definito come TP [Theatrical Potential]. Questo, a sua volta, potrebbe essere visto come una sorta di TP1 Translational Potential [potenziale traduttivo][18] che contempla la possibilità – attraverso la trasformazione dei segni verbali e, di conseguenza, di quelli non verbali e la nuova interazione tra tutti – di enfatizzare o indebolire determinati elementi-significati a scapito di altri[19], riconfigurando, tra l’altro, creativamente il concetto di “residuo intraducibile” [cfr. Osimo 1998: 23]. Da questo punto di vista si può ben dire che il testo teatrale d’origine, oltre che a essere ricollocato nel tempo e nello spazio a ogni sua nuova messa in scena in quella sua data lingua d’origine, nel passaggio da una lingua teatrale a un’altra lingua teatrale, cambia letteralmente di scena, venendosi a trovare in un ambiente segnico affatto diverso.

Dati questi presupposti, e pur coscienti che ogni generalizzazione si scontra con la “realtà” (linguistica, letteraria, socio-culturale, drammaturgica ecc.) di ogni singola opera e relativa messa in scena, in linea teorica si dovrebbe poter sostenere che qualsiasi codice linguistico, indipendentemente dal grado di scritturalità/letterarietà da esso sviluppato, in mano a un traduttore capace di stimolarne al massimo le potenzialità – per brevità e comodità si rimane nel vago di questo termine, non intendendo assolutamente impiegare una categoria preromantica abusata quale “genio della lingua”, tra l’altro troppo spesso associata all’altra famigerata categoria di “genio del popolo” – ovvero di spremerne capacità impensate disponga[20] di sufficiente TP1 [Translational Potential] per realizzare un adeguato TP [Theatrical Potential], a prescindere dalle specificità di ogni singolo testo teatrale (periodo, argomenti, ambientazione, personaggi e relativi registri ecc.) in qualsiasi lingua.

3. Spostare la scena:  tradurre il maggiore col minore[21]

Negli ultimi anni in campo traduttologico si è cominciato a prestare una significativa attenzione a problematiche complesse come quelle di “minoranza” e di “minorità”, soprattutto in una prospettiva post-coloniale, inter- e multiculturale e di genere, con un’attenzione particolare al non-canonico anglo-americano e francofono (in cui però è del tutto assente il discorso minore-dialetto interno, ancora una volta fuori moda [cfr. Zuccato 2004b: 185]), nonché – entrando nello specifico linguistico – alle difficoltà di riproduzione nella lingua d’arrivo di elementi linguistico-culturali minoritari. Molto produttivo si è dimostrato in questo campo il settore degli studi sulla traduzione multimediale, di cui la traduzione teatrale fa parte appieno, anche se non si può disconoscere la tendenza generale a restringere l’attributo alle forme di traduzione legate ad altri media, in particolare il cinema e la televisione, cioè il doppiaggio e il sottotitolaggio, per i quali negli ultimi tempi è stata coniata la più precisa etichetta screen translation [traduzione per lo schermo]. Proprio al settore del doppiaggio cinematografico-televisivo dobbiamo una messe di scritti concernenti la resa di elementi dialettali (soprattutto nell’accezione anglosassone del termine, cioè di varietà diatonica, diastratica e diafasica di una lingua, di substandard, e meno in qualità di codice orale autonomo e distinto, come invece viene inteso in ambito italiano e tedesco) verso una grande lingua veicolare, ovvero la “pulizia linguistica” (perché in soldoni si tratta di questo) a scapito di tutto quanto non ha le sembianze di uno pseudo-standard [cfr. in particolare Herbst 1994; Heiss-Leporati 2000; Heiss 2001; Heiss 2004; Nadiani 2004a]. Sempre nella direzione dialetto (nell’accezione data per il doppiaggio) verso lingua ufficiale, sul versante letterario interessanti questioni traduttologiche ha sollevato Schreiber [2006], e teoricamente molto produttivi risultano essere gli studi di Englund Dimitrova, dimostrandosi molto convincente, in particolare, il modello da lei sviluppato, alternativo al concetto di continuum, per inquadrare le tendenze osservabili nella traduzione di opere letterarie con parti in substandard [2004: 134]. Nella direzione dal minore riconosciuto ad altro minore formalizzato importanti considerazioni si devono a Venuti [1998] e Cronin [2003], che parzialmente potrebbero essere estese alla traduzione, avvenuta in particolare in passato in Italia, di testi da certi dialetti teatralmente più blasonati (si pensi ad esempio alla grande tradizione del teatro veneziano, napoletano e siciliano) a dialetti di altre aree. Meno studiate sono, non a caso vista la materia abbastanza scivolosa e sfuggente, le implicazioni connesse con la direzione opposta del movimento traduttivo, cioè dalla lingua verso il codice minoritario formalizzato [Cronin 2003], mentre assolutamente non studiate risultano essere le implicazioni concernenti il tradurre in un minore sconfitto.

Eppure ancora oggi ci troviamo di fronte – per restare al nostro Paese – nonostante la pericolosamente “scemante diglossia” citata all’inizio, a fenomeni curiosi, che qualcuno vorrebbe catalogare come assolutamente “superflui”, “ridondanti”, perché “anacronistici”, mero gioco intellettuale, linguisticamente e culturalmente a-funzionale: opere di Plauto trasposte in siciliano [cfr La Paglia 2002: online], romanesco trasteverino [cfr. La Paglia 2001: online] e ora in romagnolo [cfr. Savini 2006][22]; poeti classici e contemporanei di lingue diverse antologizzati e tradotti nel friulano della koiné da Giorgio Faggin [1999], come pure grande narrativa neerlandese mai tradotta prima nemmeno in italiano [1993]; famose ballate di Villon godibilissime nel milanese di oggi di Claudio Recalcati e Edoardo Zuccato [2005]; il grande William Shakespeare selezionato e “ridotto” in Romagna da Franco Mescolini, come era avvenuto in passato (e ancora avviene) in tante altre regioni anche per Molière, fino ai teatri e alle trasmissioni della radio pubblica in dialetto della Svizzera italiana; un classico del teatro irlandese di lingua inglese come John Millington Synge trasposto in romagnolo [cfr. Leech; Suprani 2006], senza dimenticare la grande messe di testi teatrali scritti nella lingua nazionale (il “maggiore locale”) riversati nei vari dialetti, anche questa un’interessante operazione di traduzione tra Kultursysteme[23] all’interno di una “sovra-cultura” comune, e molto altro ancora. Fenomeni simili, in alcuni casi di ancora più vasta portata, si riscontrano in altre regioni europee: sia citata esemplificativamente la costante opera di traduzione in svariati dialetti tedeschi di testi drammaturgici contemporanei e, nel caso della produzione di Hörspiele [radio-drammi], un genere letterario da sempre molto frequentato in Germania, la trasposizione e l’adattamento in una sorta di koiné radiofonica basso-tedesca [plattdeutsch, l’insieme dei dialetti del Nord della Germania] di copioni inglesi, e scandinavi, un procedimento all’ordine del giorno anche in altri macrodialetti come il “bavarese”. E come dimenticare la creazione dei tanti siti web dedicati al “minore”, la cui terminologia di superficie, di navigazione insomma, viene localizzata, cioè tradotta e adattata direttamente dal principale gergo di cui si serve oggi the language of the capital?

Questo vasto e diversificato operare traduttivo non cade, del resto, in un vuoto, bensì si inserisce in un “naturale” e stratificato sommovimento minoritario[24], che, non datando certo da oggi, come una sorta di sciame sismico culturale, a ondate successive più o meno intense, ha attraversato e attraversa un po’ ovunque in Europa con sfaccettature diverse gli ultimi decenni [cfr. Nadiani 2006b], la cosiddetta seconda modernità secondo la definizione coniata da Ulrich Beck per la sua collana di studi sociali edita dall’editore tedesco Suhrkamp [1997].

Nel nostro Paese, ad esempio, si è assistito negli ultimi anni, oltre alla continua fioritura della poesia “neodialettale” [si vedano, in particolare, Santi 2001; Bagnoli 2001; Zuccato 2003; Zinelli 2005], significativa per le intere lettere nazionali nonostante alcune giustificate posizioni critiche [cfr. Villalta 1997], e a quella del teatro dialettale amatoriale diffuso in gradi diversi praticamente in ogni regione, spesso di basso profilo letterario ma con un suo vasto e fedele pubblico, a una decisa affermazione di notevoli esperienze teatrali a base dialettale (anche in parlate senza una forte tradizione in questo campo) di compagnie e gruppi di ricerca tra i più importanti, risultate spesso “esportabili” con successo nelle lingue maggiori e in festival e teatri prestigiosi[25]. A cui si aggiungono altre forme teatrali-performative, che assieme alla parola e alla scena coinvolgono diversi linguaggi musicali , per tacere del successo ottenuto da gruppi musicali[26], in particolare del Sud, frequentanti generi nuovi, spesso innestati su quelli tradizionali rimodellati. Fenomeni simili sono riscontrabili in diverse aeree linguistiche europee, dalla lontana Finlandia [cfr. Helin-Piispa 2004] al variegato universo tedesco passando per le isole britanniche, per arrivare alla Slovenia [cfr. Zorko 2004] o all’Ungheria [Koloman 2004]. È in questo sommovimento, in questo sciame sismico che si trova carsicamente a “fluire” il lavoro, anzi il compito del traduttore minore nel senso di operatore dal minore[27] e verso il minore nell’accezione di Venuti.

3. 1. Il compito del traduttore minore

Già in passato si è avuta l’occasione di creare la definizione di traduttore minore riferendosi all’importanza che può avere per il minore la sua opera di traduzione nel/col maggiore. Nel giusto tentativo di estendere tale concetto anche all’operazione inversa, quella dibattuta in queste pagine, che, ovviamente, ha implicazioni diverse seppure rientranti nella stessa problematica (principalmente, anche se non solo, l’acquisizione di prestigio del minore e il temporaneo rallentamento del suo processo di patoisement), sia concessa una lunga autocitazione per favorire la ripresa dell’argomentazione.

Non si tratta di riterritorializzare il minore in un altro minore, ma di instaurare dall’interno un esercizio minore d’una lingua maggiore, di affrontare il problema di come strappare a questa lingua una “letteratura minore”, nel senso positivo e alternativo di Deleuze-Guattari, capace di scavare il linguaggio e di farlo filare lungo una sobria linea rivoluzionaria, di come diventare il nomade, l’immigrato e lo zingaro della propria lingua [1996: 35]. […]  Il “compito” del traduttore dal minore consisterà non tanto nel tentativo di “redimere” imperialisticamente questo nel maggiore con l’obiettivo di assegnargli chissà quale dignità,  bensì nello sforzo di far risuonare nel maggiore la memoria (le stimmate) di un diverso minore, il suo “dialetto” nell’originaria accezione etimologica del termine, di dialégein, di “parlare attraverso”. Attraverso la ferita stratificata, fascicolata, comune a tutte le lingue, anche se in gradazioni significativamente diverse[28]. Ciò comporta, come afferma lo scrittore creolo, Édouard Glissant, che si abbandoni il monolinguismo, l’altro grande feticcio del maggiore, che si parli e scriva in presenza di tutte le lingue del mondo. Scrivere in presenza di tutte le lingue del mondo non vuol dire, ovviamente, conoscere tutte le lingue. Vuol dire che, nel contesto attuale delle letterature e del rapporto fra la poetica e il caos-mondo, non si può più scrivere in maniera monolingue. Significa dirottare e sovvertire la lingua maggiore non operando attraverso sintesi, ma attraverso aperture linguistiche, che permettano di pensare i rapporti delle lingue fra loro, oggi, sulla terra: rapporti di dominazione, di connivenza, d’assorbimento, d’erosione, di tangenza, eccetera – come il prodotto di un immenso dramma, di un’immensa tragedia a cui la lingua dello scrittore non può sottrarsi [Glissant 1998: 33]. Si tratta di pensare all’interno del proprio habitat di significato [cfr. Hannerz 2001], del proprio immaginario la totalità delle lingue e di realizzarla attraverso la pratica della lingua d’espressione maggiore, aprendo il luogo, senza annullarlo o diluirlo, “traducendo” la ferita, il dramma (che in un’operazione di traduzione include la trasformazione della lingua, la sua irriconoscibilità) mediante una poetica della Relazione [Glissant 1998: 25] nell’imprevedibile, in cui arrivare a sperimentare la debolezza, la mitezza, la fortezza e la violenza dell’alterità, di altri mondi, lingue e identità, e in essi finalmente scoprire che il nostro stare è sostentato da incontri, dialoghi e conflitti con altre storie, altri posti, altre persone [Chambers 1996: 9]. Il traduttore “minore”, colui che ricrea il minore nel maggiore, cerca di fare di quest’ultimo un uso minore o intensivo, opporre il carattere oppresso di questa lingua al suo carattere oppressivo, trovare i punti di non-cultura e di sottosviluppo, le zone linguistiche di terzo mondo attraverso le quali una lingua sfugge, un animale si inserisce, un concatenamento si innesta, facendo il sogno contrario, rivoluzionario, alternativo ai veri rapporti di forza: creare un divenir-minore [cfr. Deleuze-Guattari 1996: 49]. [Nadiani 2004c: 391]

Chiaramente, per il traduttore minore ora si tratterà di trovare una strategia con lo stesso fine di creare un divenir-minore e un divenire per il minore andando nella direzione inversa: aprire il sipario minore sul maggiore affinché questo venga inglobato dal minore.

Lo studioso irlandese Michael Cronin è uno dei pochi ad aver puntualizzato l’importanza dell’opera di traduzione per le lingue di minoranza. Riferendosi in particolare a situazioni simili a quelle sperimentate dalla sua madrelingua gaelica che, pur dovendo far fronte all’attuale lingua imperiale per antonomasia e ridotta al lumicino nel numero degli ancora-parlanti effettivi (poche decine di migliaia), per certi versi gode di invidiabili condizioni di favore, essendo la prima lingua ufficiale dello stato, che le permettono di continuare a stringere coi denti il boccaglio della bombola dell’ossigeno (mantenere in vita una lingua presuppone sempre un consistente sforzo economico), egli scrive:

[…] for minority languages themselves it is crucial to understand the operation of translation process itself as the continued existence of the language, and the self-perception and self-confidence of its speakers are intimately bound up with translation effects[29] . [Cronin 2003: 146].

Pur consapevole delle difficoltà e dei pericoli insiti nell’operare traduttivo in una lingua minore in situazione di diglossia per questa stessa lingua (diventare sempre meno riconoscibile come entità linguistica autonoma capace di sviluppo futuro limitandosi a essere in “traduttorese” una pallida imitazione della lingua di partenza), giustamente egli si fa paladino di una politica traduttiva “offensiva”, che non disdegni nessun campo del sapere, in particolare quello scientifico e tecnologico, cioè di un tradurre con funzioni pragmatiche che non si limiti a funzioni estetiche, pur correndo il rischio dell’interferenza e del “forestierismo” per non soccombere alla stasi dovuta al totale “addomesticamento” (in questo caso, infatti, la traduzione non funzionerebbe più come agente rinnovatore della lingua d’arrivo) [cfr. Cronin 2003: 147]. Ovviamente, una posizione simile, contemplante una traduzione a tutto campo del maggiore, in particolare della sua modernità, è comprensibile soltanto tenendo presenti le condizioni di lingue in qualche modo “garantite”[30] e non “abbandonate a se stesse” come quelle sconfitte, pur dandosi encomiabili tentativi in questo senso in diverse parti d’Europa[31]. Realisticamente, il traduttore minore potrà al massimo concentrarsi sulle funzioni estetiche della traduzione, in quanto egli è perfettamente cosciente della sconfitta, del fatto che le sorti non potranno più essere ribaltate. Il suo compito, non dandosi le condizioni politiche, sociali e economiche in cui si trova a operare il collega del minore “garantito” occidentale, non dandosi più (se mai si è data) una comunità di riferimento compatta nel senso di Wa Thiong’o, rinvenibile forse ad altre latitudini, polverizzata nell’atmosfera accelerata dell’epoca in insiemi di singoli con orbite individuali, sarà molto più limitato, ma non per questo meno importante.

Al pari e più di ogni altro intellettuale e operatore culturale (scrittore, poeta, commediografo, musicista, regista teatrale o cinematografico[32] ecc.) minore, egli pur limitandosi, come già detto, alle funzioni estetiche della traduzione di prodotti della modernità o dell’antichità, può contribuire a dilatare le potenzialità espressive del suo codice immettendovi il maggiore considerato elevato e di prestigio, secondo strategie e modalità dipendenti da ogni singola testualità nonché dalle sue capacità. Così facendo e in presenza di traduzioni di valore di determinate opere, cioè commisurabili – in base al genere, alle sue caratteristiche intrinseche, alle storie letterarie, maggiore e minore, di quel dato paese ecc. – ad altre opere simili, in grado altresì di costituire un’apertura verso l’alterità, un dialogo con esso spingendo la lingua d’accoglienza a registrare l’estraneità del testo straniero [cfr. Berman 1992: 4], egli favorirà il superamento dello snobistico scetticismo da parte di chi ha abbandonato quel codice perché considerato “zotico” e, d’altra parte, potrà incuriosire i membri delle generazioni successive ai quali esso, per mancanza di prestigio e di “utilità”, non è stato trasmesso, a confrontarsi minimamente con quel “fantasma” che continua ad aggirarsi nella contemporaneità a nome Minore.
Restando in ambito estetico, quanto più vasto sarà il suo operare traduttivo, tanto maggiormente egli contribuirà allo stratificarsi del polisistema letterario nella sua lingua, nonché al modellamento del centro di tale polisistema[33]  – dato il livello quasi sempre molto elevato delle imprese traduttive, connotate dunque da forze innovative o primarie – [cfr. Even-Zohar 1998-110-111], con influenze dirette su altri sistemi culturali, che a nostro avviso, stante la restrizione geografica della lingua-cultura in questione, possono rivelarsi di fondamentale importanza per la produzione-promozione estetica in quella lingua sconfitta.

Con la sua piccola opera, egli non bloccherà di certo il processo di patoisement: di fronte si trova il rullo compressore economico-mediatico del maggiore schiacciadiversità, o meglio, risemiotizzante a sua immagine le peculiarità: quella language of the capital, neanche più da identificarsi con una lingua specifica stanti le forti pressioni provenienti da molte aree geopolitiche, bensì proprio col sistema economico vincente senza più vincoli morali e frontiere:

Nel corso degli anni Ottanta e Novanta […] le tecnologie di comunicazione istantanea hanno prodotto una circolazione estremamente rapida e pervasiva dei flussi immaginari che modellano la psiche sociale. L’integrazione economica si è accompagnata a un processo di omologazione dei modelli di consumo […]. Ma questo non significa che nel mediascape globale l’omologazione prevalga[34]. Il capitalismo non funziona essenzialmente come omologazione, ma funziona come potenza di sovradeterminazione semiotica […]. Il capitalismo realizza il suo dominio non solo omologando i bisogni e le attese di consumo, ma soprattutto attraverso la risemiotizzazione delle forme culturali identitarie” [Berardi 2000: 151-152].

Questa risemiotizzazione, seguendo il pensiero di Arjun Appadurai, fa sì che le nascenti culture glocali (vedi nota 34) non siano più legate a filo doppio né ai luoghi né al tempo, sono prive di contesto, una miscela delle più disparate componenti create dal sistema della comunicazione globale. È dunque, di nuovo e sempre, l’immaginario veicolato dal maggiore linguistico-economico-mediatico ad assumere un potere fortissimo nella nostra quotidianità. La prassi del nuovo potere delle industrie mondiali dell’immaginario prevede che forme di vita locale vengano scompaginate e reimpaginate secondo immagini-modello provenienti da chissà dove [cfr. Appadurai 1997]. Il traduttore minore, pur non potendo assolutamente fermare il processo di patoisement, può momentaneamente (forse per lo spazio di una generazione o due) rallentarlo, inserendosi strategicamente in tale risemiotizzazione movimentata dalla Globalkultur, da una Referenzkultur, cioè da un sistema mondiale a cui sempre più persone oggigiorno fanno riferimento attingendo a un crescente numero di categorie universali, concetti e standard, nonché a merci e a storie disponibili un po’ ovunque [Breidenbach-Zukrigl 2000: 207] su cui è impressa la ferrea impronta del maggiore, trafugando quest’ultimo nel minore. Il tradurre contribuirebbe a quell’“invenzione del discorso letterario locale”, in realtà dotato di una ben grande tradizione, all’“auto-riconoscimento, cioè al riconoscimento delle norme e delle risorse culturali locali che costituiscono il sé, che lo definiscono come soggetto locale” [Venuti 1998b: 76-77], a inventare, a partire dalla propria carne attraversata dal maggiore, assieme agli altri operatori culturali, il presente minore, a inventare il linguaggio per dire questo presente minore, poiché ancora si è questo linguaggio, rifiutando di rinchiudersi nella stasi linguistica privatistica, nel silenzio. In definitiva:

Can the garment ever be made of a piece again, and if so will it be merely a costume on some museum mannequin, a hollow reminder of what we once were, of what we might have become. […] The writer has to resist this process of stultification, because by definition the living subtlety of language is his lifeblood. One of the dangers facing the writer whose language no longer retains a currency is that the literary language may become a private language[35]  [O’ Muirthile 1991: 82-83]

Il traduttore minore sarà uno dei protagonisti non tanto nel resistere, ma nel desistere, nell’accettare di mettere in gioco la propria minorità [Cfr. Casagrande 2003: 82] in un’apertura e non in una chiusura, per poter così perseverare a pronunciare la continua ferita della risemiotizzazione in una prospettiva down-to-top con la flebile voce del vecchio idioma della montagna [cfr. Pinter 1988] trasformato, trasfigurato, del minore-dialetto, spremendo creativamente da esso tutto l’insospettabile TP1 [Translational Potential] di cui è dotato, allargandone i limiti linguistico-culturali.

Insomma, si è propensi a pensare che un arresto temporaneo, o perlomeno una decelerazione del patoisement, una sopravvivenza del minore sconfitto, una limitata rinascenza non tradizionalistica, non pseudofolklorica del minore locale, possa avvenire solo ricollocando globalmente le particolarità locali rinnovandole conflittualmente [Beck 1996: 97], e per l’appunto l’operazione del tradurre il maggiore nel/col minore è naturalmente un conflitto sotto tutti i punti di vista[36], ma questo è – nei rapporti di forza sproporzionati – il prezzo da pagarsi per potersi ricol-locare un poco oltre, ancora per un poco.

Corollario di quest’ultima strategia alternativa alla stasi, al retrocedere della chiusura a riccio dei falsi movimenti revanchisti delle identità, delle lingue e delle tradizioni inventate di sana pianta, figlie della nostalgia per una Heimat idealizzata e della paura di una Verfremdung alla porta di casa (quale casa?), dovuti proprio a un rinnegamento di una parte di sé, a una mancanza di riconoscimento di un sé[37]  preso in un continuo mutamento, il lavorio del traduttore minore assolutamente non etnocentrico (vedere se stessi come misura di tutte le cose e adeguarle al proprio centro) in quanto perfettamente consapevole dell’inesistenza di un centro-Heimat-comunità, frammentato, polverizzato dalla modernità maggiore, inglobato in essa, procura ai suoi potenziali ancora-interlocutori il labile legame con gli unici, sfilacciati, contaminati, “veri” valori-puzzle identitari e comunitari possibili, certo, anche questi “costruiti”, perché sempre in divenire, valori comunque necessari per una minima “autoidentificazione” [cfr. Bauman 20053: 98], di cui l’uomo per sentirsi tale non può fare a meno,  costituiti dal minore-dialetto[38].

Last but not least l’atto di tradurre da parte del “minore sconfitto” potrà testimoniare/insegnare, finché a esso sarà dato esistere, al “maggiore locale” con cui coabita, seppure ai piani sotterranei, la capacità di accogliere l’alterità-stranierità[39], per quanto forte essa sia, e altresì che i rapporti tra le differenti lingue e culture saranno sempre rapporti di forza asimmetrici, che un giorno potranno interessare da vicino anche lo stesso maggiore locale. E chissà che quest’ultimo, in un’ormai impossibile opzione plurilinguistica, non impari a essere più rispettoso del minore che si trova in casa [cfr. Zuccato 2004b: 188], vittima e testimone della sopraffazione e dell’ingiustizia, del fatto che sul palcoscenico del mondo le parole, scritte e orali, sono sempre definitive, perché condannate alla morte. A meno che non le si rimetta in scena con la traduzione.

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Note

[1]Queste note sono scaturite a margine della lettura della commedia di T. Maccio Plauto Mostellaria nella versione in romagnolo di Marcello Savini dal titolo U s’i sênt (2006, in corso di stampa). In alcuni punti esse riprendono e rielaborano concetti in precedenza già espressi altrove [cfr. Nadiani 2002 e 2004c].
Per “lingue sconfitte” s’intendono qui tutte quelle lingue, a forte valenza orale pur con significativi monumenti scritti,  prive di uno status culturale e funzionale riconosciuto e riconoscibile da parte dei potenziali parlanti o presunti tali, anche in presenza di uno status “politico” ufficiale, in preda dal punto di vista socio-linguistico a un definitivo processo di patoisement (in una situazione di lingue in contatto i parlanti una data lingua assumono e accettano mentalmente e praticamente la svalutazione ufficiale del loro codice, visto come meno prestigioso e incapace di rinnovamento con il conseguente abbandono dello stesso [cfr. Lafont 1976]).

[2]“Gli intellettuali delle lingue, che noi al Centro Internazionale di Scrittura e Traduzione dell’Università della California a Irvine, chiamiamo emarginate – si badi bene emarginate ma non marginali – devono rendersi conto che il loro primo pubblico è quello delle lingue e delle comunità che gliele hanno date. Soltanto essi sono in grado di produrre la conoscenza nelle loro lingue per quel dato pubblico definito dal suo accesso a quella data lingua, e poi, attraverso la traduzione, l’autotraduzione, oppure per mezzo di un’altra persona, aprire le opere a tanti tipi di pubblico al di fuori della loro comunità linguistica originale”. [Traduzione mia. Lo stesso dicasi per le citazioni successive quando non diversamente indicato].

[3]Per questo concetto si vedano, sia pure da angolature diverse, Ashcroft, Griffiths, Tiffin 1989; Hardt, Negri 2000.

[4]Si vedano, ad esempio, i nomi(gnoli) in lingua italiana di alcuni personaggi della citata versione in romagnolo di Marcello Savini dell’opera plautina, che comunque potrebbero costituire parte di una strategia traduttiva per far fronte allo stratificatissimo stile del grande classico latino [cfr. Blänsdorf 2004: 200]; oppure le indicazioni di regia, sempre rigorosamente in lingua italiana. Accorgimento, quest’ultimo, che troviamo anche nel più scalcagnato copione della infima compagnia amatoriale, probabilmente per “calco”, per abitudine alla lettura/scrittura di copioni in italiano. Si tratta, comunque, di un fenomeno curioso, quasi che chi scrive, da un lato, dubitasse della capacità descrittivo-informativa del dialetto, buono solo sul piano dialogico-espressivo, e dall’altro volesse ammiccare al regista, agli attori ecc. facendo loro capire che sì, il copione è dialettale, ma l’autore è persona di cultura, che padroneggia la lingua di cultura: tutte operazioni che sembrano sottolineare un’inferiorità del codice locale.
 
[5]Questo problema è stato affrontato in modo dettagliato dal traduttore scozzese Bill Findlay [2000] a proposito della resa in Scots dell’opera Enfantillages dello scrittore contemporaneo Raymond Cousse scritta in francese standard. Questa traduzione apparentemente “asimmetrica” solleva questioni concernenti l’integrità sia del testo di partenza sia di quello d’arrivo, particolarmente a livello diastratico e del rapporto tra dialetto e performance.

[6] Per questa complessa problematica si veda Tanner 2004.

[7]“L’estetica non si sviluppa in un vacuum sociale. La concezione estetica della vita è un prodotto della vita stessa che questa poi riflette. Un fiore, tanto bello, è il prodotto di tutto l’albero. Ma un fiore è anche un importante contrassegno dell’identità di un particolare gruppo di piante come pure di una particolare singola pianta. Il fiore, tanto delicato, contiene in sé pure la semenza per la continuità di quella pianta. Un prodotto del passato di quella pianta diventa dunque il futuro della pianta stessa”.

[8]Secondo quanto riportato dall’Atlante delle lingue minacciate pubblicato dall’Unesco, alla fine di questo secolo potrebbero essere scomparse 3.000 lingue locali minori, cioè quesi la metà di tutte le lingue esistenti [cfr. Stagliano 2005: 22].

[9]Si pensi, esemplarmente, a quanto accaduto a partire dalla metà degli anni Cinquanta in Italia alla poesia in molti dialetti italiani, in particolare in quello romagnolo, e alle continue fortune di un teatro, anche internazionale, che ha fatto del dialetto la sua bandiera espressiva.

[10]“Poiché – come sostiene il poeta-traduttore Gianni D’Elia parafrasando in qualche modo Foucault – più che poter godere di cosa esistente, si cerca e si insegue qualcosa che ci seduce attraverso la lingua; da un’altra lingua. Non si è neppure convinti che in questo modo si sia lì a tradurre un testo o soltanto il testo; proprio perché il libro che si cercava era un autore, quell’autore, più che la cosa scritta di un autore; insomma un’anima, più che un manufatto di essa” [D’Elia, 1990: 59-60].

[11]Queste diverse impostazioni possono, in realtà, costituire le diverse fasi a cui è sottoposto lo stesso testo in vista dell’obiettivo finale [targeting] della messa in scena. L’ultima fase prevede la totale riscrittura del testo originale da parte di un drammaturgo della lingua d’arrivo, allontanandosi totalmente dal lavoro dei traduttori ovvero dal testo di partenza. Riferendosi a questa drastica pratica in vigore nel teatro britannico, in particolare nel caso di testi moderni e contemporanei, Aaltonen sostiene che “targeting a particolar audience as a part of a specific theatre praxis decides the way this dramatic or theatrical is conveyed in translation” [l’operazione di mirare a un pubblico particolare, come elemento di una specifica prassi teatrale, determina il modo in cui l’elemento drammatico o teatrale è trasmesso” [Aaltonen 2005: online].

[12]Queste sono due macrotipologie di un fenomeno riscontrato negli ultimi decenni in Romagna e in altre regioni italiane e nordeuropee, in cui a tutti gli effetti si inserisce la traduzione dell’opera di Plauto di Savini.

[13]“Come testi concepiti per una potenziale messa in scena teatrale, come sistemi di segni a dominanza verbale che regolano e integrano tutte le altre strutture segniche teatrali”.

[14]A questo proposito Pfister [1994] ha proposto un repertorio dettagliato di codici e canali; mentre Fischer-Lichte [1994] ha esplorato l’interazione di multipli segni sistemici teatrali nella “performance come testo”.

[15]TP può essere considerato come la capacità di un testo teatrale di generare e coinvolgere segni teatrali differenti in modo da veicolare un senso al momento della messa in scena. Il concetto di TP intende chiarire come le diverse caratteristiche strutturali di un testo teatrale sollecitino e regolamentino l’integrazione di segni teatrali al fine di creare strutture intersemiotiche significanti; dal momento che, dopo tutto, è soltanto il testo teatrale scritto a fornire la comunicazione letteraria e a permettere la creazione di tutti i significati diversi che possono essere prodotti attraverso i segni teatrali. […] Per la traduzione intesa come trasformazione interlinguistica del testo teatrale, il problema è di come creare strutture tali nella lingua d’arrivo in grado di fornire e evocare nella messa in scena un’integrazione di segni teatrali non verbali”.

[16]Ci si riferisce, in particolare, a quanto elaborato dal gruppo di ricerca viennese di Snell-Hornby su concetti fondamentali quali: Spielbarkeit [rappresentabilità/performabilità]; Sprechbarkeit [recitabilità]; Atembarkeit [respirabilità] e, per il teatro musicale, Singbarkeit [cantabilità] [cfr. Snell-Hornby 1996: 33].

[17]Pur concedendo che nella realtà dei fatti a teatro avviene di tutto (potenza dei registi!), questo aspetto sembra passare troppo spesso in secondo piano nel lavoro di molti traduttori/adattatori che, pur nel tentativo di adeguarsi alla consegna pirandelliana citata sulla lingua dei personaggi, ripiegati completamente in modo funzionalistico sul loro pubblico fanno scomparire del tutto la lingua – e quindi ciò che essa veicola non solo a livello del contenuto – dietro i personaggi e l’azione, come ben riassume la posizione di un noto traduttore anglosassone: “The language has to get out of the way. In a perfect translation […] the audience would not be listening to the language as such; the audience would be experiencing the response of the character, and the language would be merely a fully transparent means to that end”. [La lingua deve togliersi di mezzo. In una traduzione perfetta (sic!) […] il pubblico non ascolterà la lingua in quanto tale; esso farà esperienza della reazione del personaggio, e la lingua sarà soltanto il mezzo del tutto trasparente per questo scopo] [ Bethune 2004: online]. Vi sono, tuttavia, anche altre posizioni di valenti traduttori che hanno adottato strategie traduttive funzionali al loro pubblico e, ad un tempo, rispettose della letterarietà d’arrivo, come il famoso statunitense Paul Schmidt e colleghi canadesi [cfr. Veltman 1998; Lavoie 2000].

[18]Ci sia concessa la messa in campo per analogia di questa definizione.

[19]Secondo Totzeva “a concept of translation in which the translator tries to render and create within the structures of the target language all meanings realized in the dramatic text leads to a reduction of TP. […] A further reason for the reduction or loss of TP in translation is frequently a narrow concept of textuality, where text is understood not as a complex of communicative signals, but only as a complex of verbal signs” [1999: 89]. [Una concezione della traduzione in cui il traduttore tenti di riprodurre e creare dentro le strutture della lingua d’arrivo tutti i significati realizzati nel testo teatrale porta a una riduzione del TP. Un’ulteriore causa di riduzione o di perdita di TP nella traduzione spesso è da imputarsi a una concezione ristretta di testualità, intendendo il testo non come un complesso di segni comunicativi, bensì soltanto come un complesso di segni verbali].

[20]Lo scrivente, ovviamente, non sostiene alcuna posizione “puristica” della lingua, tantomeno di quella locale eminentemente orale, vedendo le lingue piuttosto come qualcosa di dinamico, in perenne contatto tra loro e frutto di meticciamento continuo, e nemmeno una posizione passatista o rinunciataria. Egli “sente” la lingua come qualcosa di dinamico, che contempla la possibilità da parte del codice sub-alterno di assumere prestiti lessicali, di creare calchi e adattamenti morfologici e fonologici dal codice maggiore o da quelli “imperiali”. Pur essendo cosciente che ciò può contribuire a una forte diluizione della sua lingua, rendendola un’imitazione della maggiore, egli ritiene che questa estrema ratio possa avere una funzione, da un lato, nel rallentare un poco il citato processo di patoisement e, dall’altro, nel “cogliere metaforicamente” la continua trasformazione in cui il suo mondo ed egli stesso sono coinvolti. Da ciò deriva il suo atteggiamento critico nei confronti di studiosi (in particolare di letterature dialettali) che per decenni hanno tacciato ogni tentativo di spostamento/sfondamento dei limiti linguistico-letterari, per esempio, dei dialetti italiani, di mero sperimentalismo fine a se stesso [cfr. ad es. Brevini 1996: 238; Civitareale 2005: 105-121], concependo in fondo grettamente l’uso degli stessi in modo esclusivamente regressivo e rivolto a un mondo finito. La realtà è ben più complessa, variegata e, appunto, dinamica.

[21]Il termine “minore” qui si ricollega al concetto di “lingua sconfitta” e lo si intende nell’accezione data da Venuti di “minority”, che, ovviamente, ingloba anche i concetti di “dialetto” e “dialettale”:  “I understand ‘minority’ to mean a cultural or political position that is subordinate, whether the social context that so defines it is local, national or global. This position is occupied by languages and literatures that lack prestige or authority, the non-standard and the non-canonical, what is not spoken or read much by a hegemonic culture. Yet minorities also include the nations and social groups that are affiliated with these languages and literatures, the politically weak or underrepresented, the colonized and the disenfranchised, the exploited and the stigmatized” (1998a: 135). [Intendo “minorità” per significare una posizione culturale o politica subordinata, a prescindere dal fatto che il contesto sociale che la determina sia locale, nazionale o globale. Tale posizione è assunta da lingue e letterature prive di prestigio o di autorità, dal non-standard e dal non-canonico, che non è molto parlato o scritto da una cultura egemonica. Inoltre rientrano nelle minorità le nazioni e i gruppi sociali correlati con tali lingue e letterature, il politicamente debole o sottorappresentato, il colonizzato e il non affrancato, lo sfruttato e lo stigmatizzato].

[22]Di altre precedenti e illustri trasposizioni in romagnolo di commedie plautine (in parte pubblicate) ad opera di Aldo Spallicci, Rina Macrelli e Walter Galli si ha notizia, ma al momento mancano a chi scrive i relativi riferimenti bibliografici.

[23]Uso impropriamente questo concetto derivato da Mudersbach [2002]. Per un approccio applicativo al suo modello di Kultur si veda Nadiani 2006.

[24]Tale sommovimento minoritario, solo in alcuni casi storicamente motivati (ad es. in Scozia o Irlanda) fa effettivamente il pari con quello identitario. Nella maggioranza dei casi si tratta di un insieme di fenomeni che, per il loro spessore qualitativo e la coscienza interculturale degli attori, non rientrano nel localismo becero e mitizzante, da tradizione inventata, constatabile in alcune regioni europee e, in particolare, dell’Italia del Nord [cfr. Nadiani 2004b].

[25]Si pensi solo alle esperienze di artisti come Spiro Scimone e Enzo Moscato e, per restare alla Romagna, al Teatro delle Albe di Ravenna di Franco Martinelli e Luigi Dadina con testi propri o con quelli di Nevio Spadoni, il quale ha scritto pure copioni commissionati da Ravenna Festival; al cesenate Teatro Valdoca di Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi; al fulèsta [narratore] Sergio Diotti della compagnia Arrivano dal mare! di Cervia; al pressoché “inspiegabile” fenomeno del teatro e della poesia a vocazione teatrale di Raffaello Baldini [1998; 2000; 2003], il cui maggiore interprete, il ben noto attore del cinema e della televisione Ivano Marescotti, da ormai tre lustri continua a esibirsi davanti a un pubblico “da stadio”, seguito a ruota dall’altro grande interprete Giuseppe Bellosi.

[26]In Romagna si contano, tra le altre, le produzioni di spettacoli poetico-musicali dell’attrice e cantante Daniela Piccari su testi di Raffaello Baldini e Nino Pedretti; di musical e cabaret musicale del musicista-attore-autore Paolo Parmiani; di reading di jazz-poetry e di monologhi e dialoghi in musica di chi scrive col gruppo Faxtet.

[27]Non si dimentichino, ad esempio, i tantissimi e continui esempi di trasposizione anche nelle grandi lingue di “cultura” (il maggiore) dei nostri autori dialettali del passato e del presente: l’elenco sarebbe lunghissimo.

[28]Su questo argomento vedi anche Nadiani 2002.

[29]“[…] per le lingue di minoranza è cruciale intendere il processo traduttivo in sé come prolungamento dell’esistenza della lingua, e l’auto-percezione e l’autostima dei parlanti sono strettamente collegate con gli effetti della traduzione”. 

[30]Oltre allo specifico caso della lingua irlandese, si pensa in particolare a tutte quelle lingue, che dotate di una lobby politica (cioè di parlanti-elettori autocoscienti in grado di far pressione sui loro rappresentanti) sono riuscite a farsi accogliere nella Charta delle lingue minoritarie e regionali, con tutti i vantaggi del caso, consultabile al sito: [url=http://www.coe.int/T/E/Legal_Affairs/Local_and_regional_Democracy/Regional_or_Minority_languages/]http://www.coe.int[/url]
 
[31]Si pensi, ad esempio, al lavoro dei teologi luterani basso-tedeschi che da decenni portano avanti la loro riflessione, fatta anche di numerose traduzioni da diverse lingue, in plattdeutsch, oppure, restando sempre in quest’area linguistica, alla redazione quotidiana dei notiziari radiofonici delle emittenti pubbliche del Nord della Germania che, di necessità, deve trovare il modo di “tradurre” di continuo la modernità, l’attualità del maggiore nella citata pseudo-koiné radiofonica del minore.

[32]Anche in questo settore, particolarmente esoso dal punto di vista della produzione, si sono avute importanti esperienze negli ultimi anni anche nel nostro Paese, seppure di valore estetico diverso, segnatamente in Friuli, nelle Puglie, in Romagna e altrove.

[33]“To say that translated literature maintains a central position in the literary polysystem means that it partecipates actively in shaping the centre of the polysystem” [Even-Zohar 1998: 111]. [Dire che la letteratura tradotta mantiene una posizione centrale nel polisistema letterario, significa che essa partecipa in modo attivo all’operazione di modellamento del centro del polisistema].

[34]Robertson a questo proposito ha coniato il termine glocalizzazione (globale nel locale e viceversa). Globalizzazione significa anche la compressione, l’incontro/scontro di culture locali che, di conseguenza, devono ridefinirsi [Robertson 1995: 45].
La cultura glocale non deve essere vista in modo statico (come ad esempio quando si usa il concetto di Mcdonaldizzazione, cioè tutti uguali), bensì come processo contingente e dialettico, e niente affatto solo economicistico. Secondo il modello della glocalizzazione si tratta di cogliere e decifrare nella loro unitarietà elementi fortemente contraddittori.

[35]„Si potrà mai rifare un vestito da un frammento, e se sì, sarà forse semplicemente un costume da museo, un vano ricordo di quel che fummo un tempo, o di quello che avremmo potuto diventare? […] Lo scrittore deve resistere a questo processo di ridicolizzazione, perché per definizione la finezza di una lingua gli è vitale. Uno dei pericoli che corre lo scrittore la cui lingua non ha più diffusione è quello di fare della lingua letteraria una lingua privata” [Traduzione di Mario Giosa].

[36]“Die Globalkultur ist kein machtfreier Raum, in dem jeder höflich um seine Meinung gebeten wird. Jede Differenz muss ausgehandelt, die eigene Position verteidigt werden, und wer nicht laut genug schreit, geht unter. Globalkultur ist nicht unter gleicher Partizipation aller Kulturen entstanden und fördert auch nicht automatisch die Entwicklung hin zu einer fairen Welt.” La Globalkultur non è uno spazio privo di rapporti di forza in cui ognuno viene invitato gentilmente a esprimere la propria opinione. Ogni differenza dovrà essere contrattata e la propria posizione difesa, e chi non urla abbastanza forte, soccombe. La cultura globale non è sorta con la partecipazione equanime di tutte le culture e perciò non promuove automaticamente lo sviluppo di un mondo più leale” [Breidenbach-Zukrigl 2000: 207].

[37]“Care for others, understanding of them, are only possible if one can adequately distinguish oneself from others. If I see myself as ‘undistinct’ from you, or you as not having your own being that is not merged with mine, then I cannot preserve a real sense of your own well-being as opposed to mine. Care and understanding require the sort of distance that is needed in order not to see the other as projection of self, or self as a continuation of other” [Grimshaw 1986: 182-3]. (Interessarsi agli altri, comprenderli, sono azioni possibili soltanto a partire da un’adeguata distinzione di sé dagli altri. Se io vedo me stesso come ‘indistinto’ da te, oppure ti vedo privo del tuo proprio essere che non è unito al mio, allora non sono in grado di mantenere un senso reale per il tuo ben-essere opposto al mio. L’interessamento e la comprensione necessitano quel tipo di distanza in grado di far percepire gli altri non come proiezioni di sé, oppure se stessi come una continuazione dell’altro). 
 
[url=#ref38][38][/url]Anche nel dibattito “progressista” sulle identità culturali sembra predominare ancora una concezione di identità granitica, dai confini circoscrivibili [cfr. Snell-Hornby 1999: 105-106], e non mobile e stratificata, fascicolata, “narrativa” [cfr. Giesen 1999; Assman, Friese 1998].

[url=#ref39][39][/url]“Dal momento che la diversità culturale è sempre di più il destino del mondo moderno, e l’assolutismo etnico una caratteristica regressiva della tarda modernità, il pericolo maggiore nasce da forme di identità nazionale e culturale – nuove e vecchie – che tentano di assicurare la loro identità adottando versioni chiuse di cultura o comunità o rifiutando di impegnarsi […] con i difficili problemi che sorgono dal cercare di convivere con la differenza” [Hall 1993: 360].

About the author(s)

Giovanni Nadiani (✝2016) completed a PhD in Translation Science at the University of Bologna and was a tenured researcher & lecturer in German Translation at the Department of Interpreting and Translation of the University of Bologna. Giovanni was also a prolific poet, playwright and author, and was widely viewed as one of the best dialect poets in Italy. His reputation was such that his works were translated into German, Flemish and Catalan (among others) and he was awarded a number of literary prizes both in Italy and abroad. Giovanni was also a founding member of Intralinea and acted as coordinating editor for a number of years.

©inTRAlinea & Giovanni Nadiani (2006).
"Spostare la scena Sul tentativo di aprire il sipario minore sul maggiore: traduzione teatrale e lingue sconfitte", inTRAlinea Vol. 8.

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