©inTRAlinea & Caterina Briguglia (2009).
"Riflessioni intorno alla traduzione del dialetto in letteratura Interpretare e rendere le funzioni del linguaggio di Andrea Camilleri in spagnolo ed in catalano"
inTRAlinea Special Issue: The Translation of Dialects in Multimedia

inTRAlinea [ISSN 1827-000X] is the online translation journal of the Department of Interpreting and Translation (DIT) of the University of Bologna, Italy. This printout was generated directly from the online version of this article and can be freely distributed under Creative Commons License CC BY-NC-ND 4.0.

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Riflessioni intorno alla traduzione del dialetto in letteratura

Interpretare e rendere le funzioni del linguaggio di Andrea Camilleri in spagnolo ed in catalano

By Caterina Briguglia (Barcelona)

Abstract

ENG: We will focus on the translations into Spanish and Catalan of the novel Il birraio di Preston, by Andrea Camilleri. The Sicilian author has been chosen due to his most peculiar language, consisting of a colourful mixture of linguistic varieties. This novel is the representation of the complex linguistic situation in Italy. It expresses itself through a large set of linguistic codes: standard Italian, Sicilian regional Italian, dialects from Sicily, Florence, Milan, and Turin. This varied fusion of languages performs a double function. First of all, it intends to provide every character with a different voice, as proof of the pluralism of reality. Firmly convinced of the idea that language is the instrument through which we can build and reveal our vision of the world, Camilleri faithfully uses this concept as his poetics’ pillar. According to him, dialect is the language of the soul, which is the ability to express genuine feelings and to reflect the various nuances of human experience. On the other hand, this linguistic puzzle aims to be the voice of a particular social and cultural reality, similar to the one existing in Italy just after the unification. At that time, people lived in the paradox of political unity struggling with a heterogeneous linguistic situation that paralysed communication between fellow countrymen.
The translator as an intercultural agent who has to mediate between two different worlds, has to consider both formal and communicative aspects of the text. When we deal with the translation of dialects, detecting their accomplished functions in the original text is essential; we can then determine the importance of each of the mentioned functions and choose those we aim to reproduce in the target text.
The comparative analysis of Spanish and Catalan translations shows that the translators put into practice two opposite strategies: the Spanish translator prefers a standard language, which changes the original multiplicity into an homogenous linguistic text; on the contrary, the Catalan translator opts for the creation of a new linguistic puzzle, in which we find Catalan dialects substituting Italian dialects. This could seem a daring strategy: A number of research papers in Translation Studies refuse the choice of translating dialect to dialect.
The functionalist approach suggests a different way to consider the issue. Translation means, first of all, interpreting the text, and every interpretation is taking a risk. Research in this thorny field of Translation Studies suggests the following question: does fidelity mean the respect of the reference to the exterior world portrayed in the text –as in this case, Sicily in the context of the unification of Italy-, or the defence of plurilinguism as a medium for artistic expression and representation of a multifaceted reality?

ITA: Oggetto d’analisi sarà la traduzione in spagnolo ed in catalano del romanzo Il birraio di Preston di Andrea Camilleri. La scelta di questo romanzo dello scrittore siciliano è giustificata dal suo linguaggio sperimentale, un colorito connubio di dialetti e varietà linguistiche che ben rappresentano la complessa questione della lingua italiana. Nel romanzo sono presenti le seguenti varietà: italiano standard, italiano regionale di Sicilia, siciliano, romano, fiorentino, milanese e torinese. Questo tessuto variopinto svolge una doppia funzione. Da una parte, risponde alla volontà di caratterizzare ogni personaggio con una voce diversa, come testimonianza della molteplicità del reale. Convinto sostenitore dell’idea che la lingua sia lo strumento che ci permette di costruire e di esprimere la nostra visione del mondo, Camilleri usa fedelmente questo concetto come asse portante della propria poetica. In particolare, il dialetto è per lo scrittore la lingua dell’anima, capace di esprimere i sentimenti piú sinceri e di riflettere le varie sfumature del sentire umano. D’altra parte, il puzzle linguistico vuole anche essere la voce di una particolare realtà sociale e culturale, quella dell’Italia postunitaria, che viveva nel paradosso di un’unità politica in conflitto con un’eccezionale diversificazione linguistica, ostacolo alla comunicazione tra gli stessi connazionali.
Il traduttore, in quanto agente interculturale che deve mediare tra due universi diversi, ha il compito di valutare aspetti testuali di carattere tanto formale quanto comunicativo. Quando si parla della traduzione della variazione linguistica è fondamentale riconoscere la funzione, o le funzioni, da essa svolte nel testo originale, per stabilire, di conseguenza, a quale di esse dare la priorità in quello meta.
Lo studio comparativo delle traduzioni in spagnolo ed in catalano dimostra la scelta di due strategie opposte adottate dai rispettivi traduttori: la traduzione spagnola predilige una lingua standard, che converte la molteplicità dell’originale in un tessuto linguistico omogeneo; la traduzione catalana opta per la creazione di un nuovo puzzle linguistico, in cui ai dialetti italiani corrispondono altrettanti dialetti del catalano. E’ forse una scelta azzardata? I Translation Studies sono ben provvisti di saggi e ricerche che respingono la possibilità di poter tradurre dialetto per dialetto.
L’approccio funzionalista suggerisce, tuttavia, un modo diverso di esaminare la questione. La traduzione implica, in primo luogo, un’interpretazione del testo e della sua ragion d’essere, ed ogni interpretazione è una scommessa. La ricerca per questi sentieri spinosi dei Translation studies propone, dunque, la seguente riflessione: la fedeltà consiste nel rispetto del riferimento al mondo esterno a cui rimanda il testo –in questo caso la Sicilia nel contesto dell’Italia post unitaria-, o nella difesa del plurilinguismo in quanto mezzo di espressione artistica e di rappresentazione di una realtà caleidoscopica?

Keywords/Parole chiave

ENG: Literary translation, Andrea Camilleri, functionalist theory, linguistic variation, dialect’s function
ITA: Traduzione letteraria, Andrea Camilleri, teoria funzionalista, variazione linguistica, funzione del dialetto

1. Introduzione

Nell’affrontare il complesso e spinoso argomento della traduzione della variazione linguistica in letteratura sono possibili diversi approcci, che rimandano alle differenti scuole della teoria della traduzione che se ne sono occupate. Tra le tante proposte avanzate recentemente dai teorici della traduzione, in questo lavoro priviligeremo quella della scuola funzionalista tedesca. Autori come Reiss, Vermeer e Nord, a partire dagli anni ’70, si sono dedicati all’analisi della funzione del testo di arrivo nel contesto sociale e culturale in cui si ascrive. Secondo Reiss e Vermeer (1991), il principio basilare di ogni teoria della traduzione è quello dello skopos, vale a dire, della finalità del testo meta, dalla quale dipende la strategia di traduzione. Afferma Vermeer che un testo non ha un significato determinato a priori, ma che ogni aprroccio ad esso, anche quello del traduttore, è individuale ed in parte soggettivo, soprattutto quando si decide di tradurre un’opera il cui autore non esiste più o non è mai stato noto. A questo punto, continua Vermeer, il traduttore è libero di interpretare il messaggio (così come il direttore d’orchestra è libero di interpretare una sinfonia a suo piacimento) e non gli resta che decidere quale strategia adottare, a seconda dello skopos che si è prefisso. La traduzione deve essere, secondo Vermeer, non equivalente al testo originale, ma adequata allo skopos del testo d’arrivo. Nord (1991 e 1997) accoglie questa proposta e l’arricchisce con il concetto di “lealtà”, che mette in risalto la doppia responsabilità del traduttore rispetto ai participanti del processo, l’emissore ed il destinatario del testo e, quindi, la sua funzione di mediatore che deve rispettare le aspettative di entrambi. In questo modo, restituisce importanza al testo originale e alle funzioni da esso svolte. Secondo Nord, che segue la distinzione di Reiss, l’autore ed il destinatario possono attribuire al testo tre tipi di funzioni: referenziale –quando vuole informare o dare indicazioni su un oggetto o un fenomeno che è parte della realtà o di una particolare realtà, anche fittizia-, espressiva –quando indica l’atteggiamento dell’emissore rispetto a un oggetto o ad un fenomeno-, e appellativa –quando si dirige alla sensibilità del ricettore e vuole provocare una sua determinata reazione. Queste tre grandi categorie contengono ovviamente molti sottogeneri e un testo può svolgere più funzioni con diverse sfumature. La lealtà e la fiducia reciproca tra autore e traduttore dovrebbero portare alla coincidenza tra l’intenzione del testo originale e quella del testo meta, coincidenza fattibile e auspicabile soprattutto quando è possibile intervistare l’autore originale e conoscere direttamente le sue intenzioni.

L’approccio funzionalista risulta particolarmente utile nello studio della traduzione della variazione linguistica, un campo in cui tuttora i teorici della traduzione discutono e si dibattono senza riuscire ad arrivare ad un punto di incontro. Vogliamo qui applicare la proposta dei funzionalisti tedeschi all’analisi sia della traduzione spagnola sia di quella catalana del complicato pastiche linguistico creato dallo scrittore Andrea Camilleri. Alla luce dell’approccio funzionalista, e considerando che Camilleri ha ripetutamente parlato del significato e della finalità del proprio linguaggio, il primo passo consisterà nello studio della funzione, o delle funzioni, che esso svolge nella sua produzione letteraria. 

2. L’inevitabilità del dialetto in Camilleri

Per lo scrittore siciliano, la lingua è il riflesso di una diversa forma mentis, e per questo, ogni personaggio ha bisogno di esprimersi e di presentarsi usando un proprio codice personale. Camilleri sottolinea in più occasioni la differenza tra chi si esprime con la lingua standard e chi lo fa in dialetto. In particolare, il dialetto acquista per lo scrittore un’importanza fondamentale, come espressione autentica dell’anima di una persona. Adotta l’impostazione pirandelliana che distingue la lingua dal dialetto: la prima è l’espressione della realtà di cui si parla, mentre il dialetto esprime il sentimento, la realtà degli affetti. Sottolinea, a sua volta, anche la differenza tra i diversi dialetti italiani. Afferma in La testa ci fa dire,  un’intervista di Marcello Sorgi, che

ogni personaggio nasce dalle parole che deve dire, la sua lingua è il suo pensiero..si scoprono delle differenze fortissime tra una lingua, un dialetto, e un altro. Il veneto, per esempio, è una lingua naturalmente teatrale: pensa a Goldoni. E’ la ragione per cui , tra i registi, si suol dire che chiunque può fare ‘Arlecchino, servitore di due padroni’. Lo stesso si può dire del milanese, ed infatti nei miei libri tu trovi figure di funzionari lombardi che parlano e ragionano con la forza e l’intensità di un siciliano. Prendi, invece, il genovese. E’ un’altra cosa. I genovesi sono castissimi: se studi la loro letteratura, per dire, un grande poeta come Edoardo Firpo è un lirico puro. Nei suoi scritti trovi solo cose raffinate. Allora, come è successo a me di recente, puoi trovarti in difficoltà a far nascere un personaggio sanguigno, terrestre, come sono spesso i miei personaggi, e a farlo parlare in genovese
(in Sorgi, 2000: 121)

La conseguenza di questa riflessione è la sua scelta di scrivere con un codice plurilingue. E infatti, nel romanzo che prenderemo in questione, Il birraio di Preston, ritroviamo, oltre all’italiano standard e all’italiano regionale di Sicilia, cinque dialetti diversi: il siciliano, il milanese, il torinese, il romano ed il fiorentino. 

La prima funzione del linguaggio dei romanzi di Andrea Camilleri è, pertanto, quella di caratterizzare i personaggi in rapporto agli altri partecipanti dell’universo narrato, tutti portavoce di un proprio mondo. Simona Demontis, in un brillante compendio sul mondo letterario di Andrea Camilleri, suggerisce che l’autore plasma il proprio possibilismo ideologico tanto in ambito narrativo quanto in quello linguistico. Afferma l’autrice che

il linguaggio non può essere univoco dal momento che la verità non è mai univoca, ma ha molteplici sfaccettature che ne rendono ardua l’interpretazione: dare allora il nome definitivo a ogni cosa, un nome perfettamente decifrabile e riconoscibile, sarebbe come ammettere che la realtà è una e una sola e che in quanto tale è anch’essa affatto comprensibile e verificabile
(2001: 61)

L’esperimento linguistico, che arriva come abbiamo visto al plurilinguismo, risponde anche alla necessità di trovare un codice espressivo personale che si contrapponga alla lingua standard, livellatrice e priva di emozione. Come ogni scrittore, Camilleri cerca il suo stile e lo trova nelle varietà del siciliano e nei diversi dialetti dell’italiano. 

L’uso del dialetto rappresenta anche un omaggio alla Sicilia e alla sua identità. E’ un modo per tornare alle radici, al mondo lasciato dallo scrittore per seguire la sua carriera a Roma e che adesso riincontra con nuove prospettive. Il suo dialetto vuole restituire una terra ed un’identità a tutti quei siciliani che nell’ultimo secolo si sono sentiti strappati alle loro radici, per disillusione o per necessità. I romanzi storici tornano, dunque, al passato e recuperano il dialetto dei contadini, e si convertono così in testimonianze della situazione siciliana ed italiana posteriore all’unità d’Italia. In particolare, ne Il birraio di Preston, la realtà narrata è quella paradossale dell’italia postunitaria, in cui abitanti dello stessa nazione parlavano lingue diverse e faticavano a comunicare e ad intendersi. 

E’ evidente, dunque, che la varietà linguistica compie nel romanzo in questione numerose funzioni che sono il frutto di un’indagine pensata e ben strutturata. La loro analisi è fondamentale per passare allo studio della loro traduzione in un’altra lingua.

3. Le traduzioni di Camilleri in Spagna ed in Catalogna

Diamo un’occhiata, innanzi tutto, all’accoglienza ricevuta dallo scrittore in Spagna. Dal 1999 al 2007, in questo paese sono stati pubblicati ben 26 romanzi di Andrea Camilleri. L’ingente quantità di titoli è un dato che rivela come questo paese rappresenti il terzo luogo di accoglienza dello scrittore, dopo la Francia e la Germania. La maggior parte dei romanzi sono stati pubblicati sia in spagnolo che in catalano e il notevole numero di riedizioni fa da testimone della simpatia che il pubblico prova per l’autore siciliano. Il birraio di Preston (1995) è stato pubblicato in spagnolo con il titolo [i[La opera de Vigàta da Ediciones Destino nel 1999, e poi ripubblicato nel 2000 e nel 2005; ed in catalano, con il titolo L’òpera de Vigàta, nel 2004 da Edicions 62. I traduttori sono rispettivamente Juan Carlos Gentile Vitale, argentino di origine italiana, e Pau Vidal, scrittore catalano. 

L’analisi comparata delle traduzioni e delle soluzioni adottate per restituire quest’opera dalla forte presenza polidialettale dà risultati significativi. Travasare e mantenere questa pluralità in un’altra lingua è un’impresa ardua. Coscienti dell’enorme difficoltà che comporta, cercheremo di analizzare il lavoro dei traduttori non per giudicarlo, bensì per osservare le soluzioni possibili e indicare dei cammini utili per chi voglia affrontare la traduzione di quello che viene comunemente definito un romanzo intraducibile.

La traduzione spagnola presenta una lingua standard, senza tratti dialettali, nè registri differenti. Il personaggio fiorentino costituisce l’unica eccezione perché si esprime in spagnolo con un linguaggio sui generis, non standard. Il traduttore ricorre al fenomeno linguistico chiamato “ceceo”, che consiste nella pronuncia della “z” al posto della “s” e della “x”. E’ un fenomeno caratteristico di alcune zone del sud della Spagna e costituisce anche un particolare difetto di pronuncia. Si tratta di un tratto linguistico che normalmente è limitato all’uso orale della lingua e sono, dunque, molto scarsi gli esempi di “ceceo” a livello scritto, e soprattutto letterario. Questa varietà non ha solo una connotazione geografica, anche se molto generica, bensì anche sociale e culturale: in effetti, i parlanti con “ceceo” sono considerati, generalmente, gente poco colta o contadini e, di fatto, i nativi delle zone in cui si nota un’alta frequenza del fenomeno cercano di evitarlo e di correggerlo per dimostrare la propria cultura. Non esiste una corrispondenza geografica tra fiorentino e zone con “ceceo”, nè di tipo sociale, dal momento che, nel romanzo, il personaggio fiorentino è un prefetto, e dunque una persona presumibilmente colta e raffinata. Esiste, invece, un’equivalenza di tipo funzionale rispetto all’originale: l’opzione del “ceceo” sembra rispondere al tentativo di usare una variante conosciuta e perfettamente intellegibile da qualsiasi ispano-parlante e che, in più, produce comicità. La presenza esplosiva delle “zeta” al posto delle “esse”, come difetto di pronuncia ben evidente, contribuisce a caratterizzare il prefetto come un personaggio pasticcione e poco serio, come effettivamente si va delineando lungo la narrazione. La varietà risulta, pertanto, adeguata alla situazione perché rispetta l’intenzione dell’autore di dare al personaggio gli attributi dell’antieroe, in questo caso un poliziotto goffo e inadatto al suo ruolo istituzionale. Guardiamo solo un esempio di questo fenomeno.



Eccezion fatta di questa varietà. il traduttore opta per una lingua standard che non rende nè il pastiche nè alcuna altra deviazione dai canoni linguistici, così alterati nell’originale che la normatività si converte in eccezione.

Ben diversa è la strategia adottata dal traduttore catalano. Mentre la voce narrante si esprime attraverso la lingua standard, nei dialoghi, che in quest’opera svolgono un ruolo predominante, si ritrovano le diverse origini dialettali dei parlanti. Le seguenti corrispondenze rendono manifesto il tentativo di riprodurre una simile provenienza geografica: al siciliano corrisponde il mallorquino e, quindi, il dialetto di un’altra isola; al fiorentino il leridano, cioè la variante di una città, Lleida, piccola e interna come Firenze; al dialetto romano corrisponde quello della capitale, Barcellona; al milanese, quello di Girona, città del nord della Catalogna; ed, infine, il torinese viene sostituito dal dialetto del Rossellò, una regione al confine con la Francia e, dunque, caratterizzata da una lingua che, come nell’originale, è fortemente influenzata da gallicismi.



Vidal, nella nota del traduttore, avverte i nuovi lettori del cambiamento realizzato rispetto all’originale e comunica le motivazioni che l’hanno spinto alla scelta di questa strategia che, secondo molti teorici della traduzione, è azzardata e incoerente. Appella all’importanza della funzione del linguaggio e, concretamente, della variazione linguistica nell’opera originale. Riportiamo qui le parole del traduttore:

I lettori delle opere precedenti di Andrea Camilleri già sanno che l’elemento che differenzia i romanzi di questo autore dagli altri del giallo tradizionale è l’uso argomentativo del linguaggio, che va dalla ricreazione di diversi registri del siciliano all’invenzione di idioletti che caratterizzano alcuni personaggi. Nel caso de Il birraio di Preston, l’importanza del fattore linguistico arriva al punto che non solamente interviene nel corso delle cose, ma viene usato anche per definire i personaggi ed i rapporti che mantengono. E’ per questo che al momento di tradurlo ho pensato che valesse la pena cercare di avvicinare il lettore catalano alla ricca varietà dialettale italiana, ricorrendo alle risorse che offre la mappa dialettale catalana, in un compromesso a metà strada tra il rispetto per la lingua standard ed il colore storico e locale custodito dalle varianti dialettali
(2004: 123)

Il traduttore si sbaglia nel pensare che il lettore catalano possa così conoscere la ricchezza dialettale italiana; si sorprenderà piuttosto nell’assaporare quella della propria lingua. Non si può ignorare la contropartita che comporta tale strategia: ogni dialetto catalano rimanda ad un preciso contesto sociale, con tutto il bagaglio culturale che lo sostiene. Pertanto, il risultato è un testo meta che perde alcuni riferimenti fondamentali e che acquisisce nuove connotazioni, evidentemente estranee al testo originale, e che creano un effetto di incoerenza e mancanza di verosimilitudine rispetto al microcosmo culturale e sociale rappresentato nell’opera. Ed è proprio questo uno degli argomenti di forza di coloro che sostengono l’inaccettabilità della traduzione del dialetto per dialetto.
Un breve ripasso bibliografico rivela come la maggior parte degli studiosi della traduzione si mostrano contrari all’uso del dialetto nel testo di arrivo e appellano soprattutto al problema delle nuove connotazioni che il testo acquisisce (per citarne solo alcuni, Slobodník 1970; House 1973; Newmark 1998; Rabadán 1991; Carbonell 1999; Hatim e Mason 1990 e 1997). E propongono altre soluzioni, quali quella di lasciare delle parole in lingua originale o di aggiungere note esplicative sulla peculiarità del testo di partenza o precisazioni del tipo “detto in dialetto” o “aggiunse in dialetto”; o di creare una lingua artificiale non standard o che, comunque, modifichi quest’ultima, ma senza rimandare ad un preciso contesto geografico. Si tratta di quella che viene comunemente definita opzione interdialettale, che nella pratica traduttrice è attualmente la più usata. (questa strategia, tra gli altri, la suggeriscono Hatim e Mason, 1997; e Newmark, 1998). Altri autori (Hurtado Albir 2001 e Marco 2002), dopo un’analisi attenta di tutte le proposte e dei fattori che determinano la complessità di questo problema di traduzione, adottano una posizione possibilista che non scarta a priori la strategia di tradurre dialetto per dialetto, qualora vengano prese in considerazione le conseguenze nella lettura e nella ricezione del testo d’arrivo.
Pur coscienti di tutte le difficoltà e delle implicazioni che derivano dalla scelta di utilizzare i dialetti della lingua d’arrivo per tradurre il mosaico linguistico del romanzo di Camilleri, crediamo che l’operazione non sia poi così azzardata. Ritornando all’approccio funzionalista, il traduttore catalano realizza un lavoro che è perfettamente adeguato al suo skopos: in effetti, il lettore percepirà lo stile plurilingue dell’originale con i suoi diversi codici espressivi che si oppongono fermamente alla linearità della lingua standard.
Inoltre, tutte le soluzioni proposte dai teorici sono applicabili nel momento in cui affrontiamo un testo monodialettale, o comunque con una o due varianti linguistiche. Ma è possibile, per esempio, inventare cinque differenti lingue artificiali?

4. Conclusioni

Umberto Eco, in Dire quasi la stessa cosa, si pone la seguente domanda: “si può avere una traduzione che preserva il senso del testo cambiando il suo riferimento, visto che il riferimento a mondi è una delle caratteristiche del testo narrativo?” (2003: 153). L’approccio funzionalista può aiutarci a risolvere il rompicapo o, per lo meno, ad impostarlo in modo più chiaro. La teoria della traduzione si è domandata spesso se il concetto di lealtà dovesse fare riferimento principalmente alla forma, al contenuto o alla funzione del testo originale. Gli autori funzionalisti rispondono che la scelta dipende dallo skopos della traduzione. Abbiamo visto che, nel nostro caso, la varietà linguistica svolge una funzione tanto referenziale quanto espressiva: da una parte, abbiamo riconosciuto il suo valore nella caratterizzazione dei personaggi e, di conseguenza, il suo uso fondamentale per la creazione di un linguaggio artistico e di uno stile personale di scrittura. Ma non bisogna dimenticare che questa forma di espressione vuole anche essere lo specchio di una particolare realtà sociale e culturale, in questo caso il mondo siciliano e la Sicilia nel contesto dell’Italia postunitaria. A questo punto, la domanda che ci poniamo è la seguente: la “fedeltà” in traduzione consiste nel rispetto del riferimento al mondo esterno a cui rimanda il testo o nel mantenimento del plurilinguismo in quanto mezzo di espressione artistica e di rappresentazione di una realtà caleidoscopica? La traslazione di entrambe le funzioni risulta impossibile. Al traduttore non resta altra via d’uscita che decidere quale sia lo skopos del proprio lavoro e come poterlo realizzare in un’altra lingua. Se il traduttore decide che lo skopos è quello di restituire al nuovo lettore il tessuto polidialettale dell’originale, allora sarà valida anche la tanto stigmatizzata strategia di tradurre dialetto per dialetto. Nel caso della traduzione dei testi di Andrea Camilleri godiamo di un vantaggio considerevole, la testimonanza dell’autore, che potrebbe essere decisiva per il nostro studio. Lo scrittore è in contatto con diversi traduttori delle sue opere e gode del privilegio di potere sorvegliare, come un padre attento, alcune versioni straniere dei propri romanzi. In più occasioni, è intervenuto per commentare la traduzioni dei suoi libri, lamentandosi spesso del fatto che la maggior parte dei suoi traduttori non si sforzano per trovare un equivalente del dialetto nella propria lingua. E si ritiene, per esempio, molto fortunato per la traduzione, da lui definita “splendida”, che gli viene fatta in Francia che, lo ricordiamo, è anche, e forse non è solo una coincidenza, uno dei paesi in cui i suoi libri riscuotono maggior successo. I traduttori francesi, alla luce di una riflessione di carattere tanto linguistico quanto culturale e sociale, risolvono il puzzle linguistico ricorrendo alla lingua provenzale e al lionese.

La traduzione di un romanzo polidialettale offre dunque molteplici possibilità, tutte controverse, ma nessuna di esse giudicabile a priori: tutte presentano pro e contro, a seconda del punto di vista adottato e della funzione alla quale decidiamo di dare la priorità. Le parole di Umberto Eco vengono nuovamente in nostro aiuto: lo studioso, a conclusione del suo saggio, afferma che la fedeltà è “la tendenza a credere che la traduzione sia sempre possibile se il testo fonte è stato interpretato con appassionata complicità, è l’impegno a identificare quello che per noi è il senso profondo del testo, e la capacità di negoziare a ogni istante la soluzione che ci pare più giusta” (2003: 364).

Per potere descrivere il tipo di “negoziazione” realizzato dal traduttore è, dunque, fondamentale capire le ragioni che l’hanno portato alla scelta di una strategia piuttosto che un’altra. Nel nostro caso, è difficile capire le ragioni della traduzione in castigliano. Mentre quella catalana deriva, in parte, da una riflessione di tipo funzionalista. E se diciamo “in parte” è perché indubbiamente le due strategie dipendono anche dai due differenti contesti culturali e linguistici in cui sono state messe in atto. Un passo ulteriore consisterebbe, dunque, nell’analisi dei due diversi polisistemi d’arrivo: quello catalano, minoritario e con una tradizione letteraria da molti definita “debole e interrotta”, e che, per questo motivo, ricorre spesso alla traduzione come strumento per salvare la propria parola e per riflettere sulla propria lingua; e quello spagnolo, caratterizzato, al contrario, da un sistema letterario forte e da una lingua e demografia maggioritarie e che, per questa ragione, non ha bisogno di autodifendersi. La cultura di cui si nutrono è fonte di identità, deriva dall’esperienza storica e influenza tutte le forme espressive, e pertanto, anche la letteratura e le norme di traduzione accettate e messe in pratica dalla comunità.

 

 

Riferimenti bibliografici

CAMILLERI, Andrea (1995). Il birraio di Preston. Palermo: Sellerio Editore.

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HOUSE, Juliane (1973). “Of the Limits of Translatability”. Babel 19 (4). 166-167. 

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RABADÁN, Rosa (1991). Equivalencia y traducción, Problemática de la equivalencia translémica inglés-español. Zamora: Universidad de León.

REISS, K. e VERMEER, H. J. (1991). Grundlegung einer allgemeinen Translationswissenschaft. Tubinga: Niemeyer.

SLOBODNÍK, Duŝan (1970). “Remarques sur la traduction des dialects”. In HOLMES, J. (ed.): The Nature of Translation. Essays on the Theory and Practice of Literary Translation. Mouton/The Hague/París: Publishing House of the Slovak Academy of Sciences of Bratislava. 139-143.

SORGI, Marcello (2000). La testa ci fa dire. Dialogo con Andrea Camilleri. Palermo: Sellerio Editore.

 

 

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