©inTRAlinea & Marco Cipolloni (2013).
"“I didn’t expect a kind of Spanish Inquisition”: (ir)responsabilità professionale e fortune parodiche della riformulazione traduttiva dopo il 1968"
inTRAlinea Special Issue: Palabras con aroma a mujer. Scritti in onore di Alessandra Melloni

inTRAlinea [ISSN 1827-000X] is the online translation journal of the Department of Interpreting and Translation (DIT) of the University of Bologna, Italy. This printout was generated directly from the online version of this article and can be freely distributed under Creative Commons License CC BY-NC-ND 4.0.

Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2016

“I didn’t expect a kind of Spanish Inquisition”:

(ir)responsabilità professionale e fortune parodiche della riformulazione traduttiva dopo il 1968

By Marco Cipolloni (University of Modena and Reggio Emilia, Italy)

Abstract & Keywords

English:

The focus of this paper is on the negotiation concerning the notions of responsability and authorship as they have been reframed, about translation, through the evolution of the media and their agenda. A radical and anti-authoritarian perspective is sketched out from a famous lecture of Michel Foucault and the analysis of a contemporary BBC series  of nonsensical humor.

Italian:

La proposta  si concentra sulla negoziazione delle nozioni di responsabilità e autorialità, ridefinite, per quanto riguarda la traduzione, a partire dall'evoluzione dei media e della loro agenda. Una prospettiva di lettura radicale ed antiautoritaria viene abbozzata a partire da una celebre conferenza di Michel Foucault e dall'analisi di una coeva serie di scenette comico-demenziali, trasmesse da BBC.

Keywords: translation, authorship, responsability, power, professional identity, parody, traduzione, autorialità, responsabilità, potere, identità professionale, parodia

Queste riflessioni sulla riformulazione traduttiva e sulle fortunes and misfortunes del suo valore sociale dopo il 1968 provano ad applicare all'autorialità traduttiva e alla figura del traduttore le prospettive sull'autore proposte da Michel Foucault nella sua celebre conferenza. “Qu’est-ce qu’un auteur?”, tenuta alla Societé Française de Philosophie nel 1969. Sulla falsariga dell'impostazione foucaultiana vorrei provare a chiedermi “Qu’est-ce qu’un traducteur?”, affrontando il tema del tradurre e il ruolo dei mediatori linguistici e culturali a partire da un modello di autorialità legato non tanto alla paternità del discorso (le cui implicazioni pèreubuesques interesserebbero molto a Foucault), quanto alla responsabilità sociale sulla sua mediazione, cioè alla storia pubblica dell'autorità e della fortuna dei testi, della loro circolazione e della loro (re)interpretazione e ricezione da parte di e/o per destinatari storici e storicamente concreti.

 

* * *

 

L’intenzione è anche quella di utilizzare questo modello antiautoritario e funzionale di autorialità per evidenziare alcune possibili ragioni della costituzione e della progressiva crisi dei miti di neutralità della traduzione professionale. Tale crisi comincia a diventare evidente, non a caso, proprio con la stagione della controcultura, di cui Foucault è stato una delle più eminenti espressioni accademiche. Negli ultimi decenni, i processi innescati dalla globalizzazione hanno evidenziato asimmetrie (un marxista sessantottino avrebbe detto “contraddizioni”) che hanno messo a dura prova la tenuta del mito neutralista, le cui crepe si sono fatte sempre più evidenti, sia negli studi di traduttologia e storia della traduzione che in alcuni segmenti del mercato professionale della mediazione linguistica (orale e scritta), caratterizzati da una strutturale e poco riducibile (perché funzionale) disparità di potere tra le parti coinvolte. Queste posizioni relative di potere-controllo-sapere tendono a tradursi in vincoli situazionali e contestuali molto specifici e ben caratterizzati (la divulgazione di generi e saperi in contesti interculturali e multilingue, la traduzione musicale, la audio-visual translation, il community interpreting, l’adattamento di testi per l'infanzia, le traduzioni per ICT e videogiochi, l'uso della traduzione come strumento per la formazione di mediatori culturali, sono solo alcuni degli ambiti in cui tutto questo è più evidente).

Lo spunto foucaultiano mi servirà per  commentare una celebre serie di scenette comico-demenziali dei Monty Python, trasmesse dalla BBC (più o meno all'epoca della conferenza di Foucault) e dedicate ad una rappresentazione caricaturale e surreale dell’Inquisizione Spagnola e della sua logica (maschera colorata, “in nice and red”, di quella della paura e della deterrenza, tipica della Guerra Fredda).

Da questo punto di vista, la storia della traduzione, intesa prima come attività e poi come mestiere (cioè come “arte” e come professione), può essere definita come lo studio, accademico e no, delle mutevoli convenzioni che nel tempo hanno definito, in pubblico e in privato, i limiti etico-politici ed estetici che la domanda di mediazione, le logiche di controllo del potere (non di rado ridicole, deliranti e paranoiche, come l'intera produzione di Foucault, ma anche dei Monty Python, ha corrosivamente dimostrato), le esigenze commerciali del mercato culturale e le strutture dei media hanno via via proposto/imposto/ritenuto accettabili per la figura e il lavoro dei traduttori. Limiti che, dal canto loro, i traduttori, sia pure assumendo variabili dosi di rischio e responsabilità personale e collettivo-corporativa, hanno dovuto scegliere se, quanto e come rispettare e/o trasgredire (in tutto o in parte) con le loro pratiche, professionali e non.

Nella maggior parte dei casi tali limiti, sia linguistici che extralinguistici, sono stati circostanzialmente noti e si sono presentati in modo concreto alla coscienza professionale e all'orizzonte negoziale dei traduttori e dei mediatori sotto forma di: a) interdetti e censure (non sempre e/o non del tutto istituzionalizzati); b) scelte non eludibili («I’m gonna make him an offer he can’t refuse», direbbe don Vito Corleone); c) vincoli situazionali; d) margini di manovra predefiniti e prenoti (assimilati come autocensure).

Ciascuna di queste dimensioni è stata di volta in volta affrontata usando (e talvolta abusando) di un ampio ventaglio di modulazioni, di modo e di grado, di tono e di stile, di volume e di accento (si va dalla proibizione pura e semplice alla manipolazione propagandistica, dalla connotazione eufemica a quella disfemica, dalla sordina che neutralizza all'enfasi che amplifica e distorce, dal remake alla compravendita di format, etc.). Il risultato è un lungo index di testi proibiti, di testi espurgati e di testi emendati, cioè di testi di fatto riformulati, con più o meno successo, in funzione di obiettivi specifici, dai meccanismi stessi del loro accesso al circuito, cioè ad uno spazio normato, pubblico o semipubblico, la cui densità variabile unisce e separa i testi stessi dal loro destinatario, programmato e no. Nel passare da un mercato all'altro, questa censura commerciale si intreccia ovviamente con i vari livelli di quella ideologica.

Il mediatore e la sua professione sono stati parte essenziale e attiva di questo percorso di riformulazione e controllo sui testi e la loro circolazione limitata, ma hanno occupato in questo gioco una posizione ambigua e paradossale, debole e cruciale al tempo stesso: rappresentano infatti il nucleo delle istanze che, per definizione e funzionalmente, remano contro, incaricandosi di limitare e neutralizzare la portata delle censure e dei condizionamenti, per fare sì che “almeno qualcosa” (anche se, per forza, “non tutto” e, quasi sempre, insieme a “qualcos’altro”) possa davvero arrivare quasi integro dall'altra parte del fiume. Il meccanismo della censura e della propaganda pone/propone/impone limiti e orientamenti alla circolazione del testo e la professionalità del mediatore, pur rispettandoli formalmente e facendosene garante, prova in realtà ad eluderli, saltarli e compensarli. Se, come spesso accade, gli ostacoli sono talmente alti da risultare nell'immediato del mediare non sormontabili, il mediatore può vedersi costretto a decidere di “lasciar giù” qualcosa di ciò che, di solito in nome e per conto d'altri, aspirava professionalmente a tradere, cioè a trasportare, trasbordare, traslocare e vedere scambiato.

Di solito, i limiti posti/proposti/imposti al traduttore da questo complicato sistema, storico e circostanziale, di inter-dizioni (cioè di voci che, traduttore compreso, si mettono di mezzo e ridicono, frapponendo il filtro facilitatore del loro ridire tra il detto e il detinatario) hanno riguardato la traducibilità, cioè l'asse topico e indicativo (de eso no se habla, ammonisce un proverbio spagnolo cui segue, di solito, un Index Librorum Prohibitorum più o meno lungo ed esplicito). In altre occasioni hanno invece riguardato l'asse tonico e predicativo, limitando ora la circolazione del tradotto, ora la sua fedeltà all'accento dell'originale. In uno scenario come questo, gli equivoci, le brutte sorprese e gli errori di misura sono sempre in agguato.

 

* * *

 

Tutto questo ci viene ricordato in modo geniale dal tormentone che accompagna l'improvvisa comparsa degli inquisitori spagnoli in una popolare serie di siparietti comici del Monty Python's Flying Circus (programma di culto della comicità televisiva surreal-demenziale britannica, trasmesso dalla BBC tra il 1969 e il 1974): «Nobody expects the Spanish Inquisition!» (specie in un paese moderno e protestante che, salvo nei mesi estivi del sol y playa, ama immaginarsi storicamente e culturalmente lontanissimo dal Barocco, dalle passioni travolgenti e dalla Spagna).

La prima scenetta della serie è molto semplice e sembra fatta apposta per aiutarci a riflettere sui molti livelli, i malintesi e le situazionalità che hanno orientato verso protocolli di riformulazione gran parte delle performance offerte da traduttori e censori nel corso della storia della traduzione. Una scritta ci situa nel tempo e nello spazio: siamo a Jarrow, nel Nordest dell'Inghilterra (non lontano dal border con la cattolica Scozia), proprio sul filo della mezzanotte che separa il 31 dicembre del 1911 dal primo gennaio del 1912. Una donna (interpretata da Carol Cleveland) cuce annoiata e distratta in salotto. Un uomo (interpretato da Graham Chapman) entra e, in apparenza per giustificarsi del ritardo, la informa di avere avuto trouble at mill. La donna chiede spiegazioni e l’uomo articola una frase di chiarimento resa opaca, ambigua e oscura sia dalla pronuncia dialettale che dalla presenza di una fraseologia tecnica relativa al (mal)funzionamento dei mulini. La donna chiede ulteriori chiarimenti con crescente insistenza e l'uomo, dopo avere provato a scandire la pronuncia ed a banalizzare il messaggio, perde la pazienza e rivela la propria condizione di attore che interpreta un mediatore e dunque la propria sostanziale e più che giustificata ignoranza in materia di mulini: «I don't know - Mr Wentworth just told me to come in here and say that there was trouble at the mill, that's all - I didn't expect a kind of Spanish Inquisition!». A questo punto, prima ancora che il telespettatore abbia il tempo di domandarsi chi sia Mr Wentworth, succede una cosa davvero inattesa, che rompe del tutto il già precario velo dell’illusione scenica: evocati dalla frase fatta, legata al noto stereotipo sulla Spagna papista, superstiziosa e inquisitoriale, fanno irruzione nel salotto tre cardinali spagnoli del Siglo de Oro (interpretati da Palin, Jones e Gilliam), gridando:

 

Nobody expects the Spanish Inquisition! Our chief weapon is surprise... surprise and fear... fear and surprise.... Our two weapons are fear and surprise... and ruthless efficiency.... Our three weapons are fear, surprise, and ruthless efficiency... and an almost fanatical devotion to the Pope... Our four weapons...

 

Consapevoli di rischiare un elenco infinito, tra l'altro logicamente poco compatibile con la categoria inizialmente proposta di chief weapon, i cardinali rompono nuovamente l'illusione scenica, chiedendo licenza di poter ripetere l'entrata in scena (il che vanifica del tutto, anche di fatto, oltre che linguisticamente, l'efficacia della chief weapon rappresentata dall'effetto sorpresa). La seconda entrata propone un catalogo aperto (weaponry):

 

Nobody expects the Spanish Inquisition! Amongst our weaponry are such diverse elements as: fear, surprise, ruthless efficiency, an almost fanatical devotion to the Pope, and... nice and red uniforms!

 

Seguono, con una furia procedurale punteggiata di equivoci, interrogatorio e tortura. Lo strumento di tortura utilizzato in questo episodio è the rack, che però non è una spaventosa graticola, ma un dish-rack, cioè l'innocuo cestello di uno scolapiatti: ancora una volta l'effetto comico si produce a partire dal rapporto tra parole e contesti. In altri episodi della serie l'accusato sottoposto a tortura è invece un'innocua vecchietta alla quale viene offerta una last chance per dichiararsi colpevole, e poi una seconda last chance, e poi una terza, eccetera, con un meccanismo di proliferazione analogo, anche nel paradosso di una last chancery seriale, a quello che trasforma la chief weapon dell'effetto sorpresa in elemento non più chiave di un assai più articolato e composito armamentario (così lungo che il catalogo, fin dall’inizio, si dichiara aperto e incompleto: «Amongst our weaponry...»).

 

* * *

 

Nella storia della traduzione è spesso accaduto qualcosa di molto simile: il mondo tradotto e l'azione degli apparati di controllo e dei meccanismi di autocontrollo su di esso, sono stati e sono un mondo e un'azione intrinsecamente contraddittori, popolati di riformulazioni, di rotture dell'illusione scenica, di entrate in scena ripetute e di meccanismi seriali, paradossalmente garantiti da un mito di autenticità. Sia dal lato del mediatore che entra in scena per ridire (Graham Chapman, che accetta di ripetere le proprie battute prima per Carol Cleveland e poi per gli inquisitori, che a loro volta vogliono ripetere l’entrata e la loro battuta sull’Inquisizione), sia dal lato del destinatario, che deve ricevere l'informazione e reagire in modo adeguato, per cui può chiedere di farsi più volte ripetere il detto (come fanno la Cleveland e i tre inquisitori), lo spazio del tradurre è un salotto di provincia (una periferia del sistema, un border con una qualche Scozia) dove ci si diverte o ci si annoia (o si finge divertimento o noia) grazie alle notizie che arrivano da fuori ed ai paradossi garantiti da effetti sorpresa che si ripetono, dalla presenza minacciosa di such diverse cheaf weapons e da una serie quasi infinita di last chances per riformulare e fare così ammenda dei propri peccati, il tutto sostenuto dall'impatto sull'immaginario, garantito dalla presenza di “nice and red uniforms”.

Il traduttore, al pari dell’attore Chapman, accetta di mediare una voce non propria, riferendo/ripetendo/cercando di chiarire, in scena e in campo, un messaggio che per definizione viene dal mondo esterno e per la cui ambiguità e opacità semantica viene messo sotto torchio sia dai destinatari che, in modo surreale e istituzionalmente organizzato, dal potere, nel nostro caso incarnato dai tre inquisitori spagnoli, degni della terrorifica fama dell'istituzione che rappresentano soltanto per la loro incapacità, davvero ubuesque, di stabilire un rapporto di efficace corrispondenza tra linguaggio e realtà (cosa che, nello spazio scenico, li accomuna a Chapman, nel segno della ripetizione e della variazione).

Il traduttore, come spesso è accaduto o ha rischiato di accadere nella storia, viene messo sotto controllo per limitare la circolazione di un testo di cui non è lui l'emissore originario e di un linguaggio di cui non è specialista (è per esempio quanto accade nel romanzo Mala índole[1], di Javier Marías, dove una banda di giovinastri messicani, offesa da Elvis Presley durante le riprese del film L'idolo di Acapulco, se la prende con il malcapitato traduttore invece che con il Re del rock).

Nell'Europa occidentale del post-Sessantotto, la moderna industria della coscienza (cioè il composito insieme dell’industria della coscienza e dei media delegati alla produzione e alla distribuzione industriale di cultura, divulgazione e informazione, BBC compresa) aveva ormai dismesso, o almeno travestito da educational, ogni velleità di «almost fanatical devotion to the Pope» (tratto cui solo i telegiornali e gli sceneggiati della RAI sono tuttora fedeli). Aveva però mantenuto in uso tutto il resto dell'armamentario inquisitoriale, cioè la sorpresa, la brutale efficienza, la paura e, più spesso che no, anche l’uso segnaletico e terroristico di spettacolari uniformi colorate (l’abbigliamento degli anchormen che in TV smistano il traffico delle opinioni è spesso surreale e variopinto anche quando è grigio e serioso).

Forse per esorcizzare l'ostinata e imbarazzante presenza degli anacronistici inquisitori, almeno dal punto di vista degli educational e della divulgazione si è spesso ceduto, non di rado anche in sede accademica, a due tentazioni, in apparenza opposte: da un lato si è molto concesso alla tentazione di estendere retrospettivamente a gran parte dei percorsi traduttivi del passato la validità dei più elastici protocolli di pacificazione attualmente in voga (quantomeno sul piano dell'ortodossia retorica), immaginando un passato interculturalmente tollerante, magari popolato di inquisitori di professione, ma privo o quasi di vere istanze inquisitoriali; per contro ci si è invece lasciati sedurre dall'idea, altrettanto falsa e assolutoria, di sopravvalutare le differenze con l'oggi, trasformando la storia della traduzione in una serie di paradigmi successivi, relativamente isolati l'uno dall'altro e in buona misura del tutto alternativi tra loro, con l'evidente obiettivo di allontanare da noi il fantasma degli inquisitori o di renderlo esorcisticamente evocabile solo in un contesto di comicità delirante. A una parte del mondo contemporaneo, per comprensibili ragioni, piace credere che i soli inquisitori rimasti in circolazione siano quelli del Flying Circus dei Monty Python. Pur di crederlo siamo disposti a chiudere più di un occhio su molti inquietanti scenari di crisi, prossimi e remoti, del mondo contemporneo.

In favore di questo genere di semplificazioni hanno pesato e pesano molto anche la retorica promozionale (con corti circuiti continui tra consumismo e populismo, propaganda ideologica e pubblicità commerciale) e le esigenze didattiche del training formativo.

Per compensare queste spinte e queste inerzie è necessario riconsiderare i nostri paradigmi e vederli non solo come storicamente collegati da un continuum evolutivo (il che mi pare un ovvio e più che ragionevole riconoscimento/risarcimento della complessità e della processualità della storia), ma anche come strutture ed orizzonti di aspettativa sopravviventi e in gran parte coesistenti, compresenti e non alternativi, in quanto attualizzabili e utilizzabili come ingredienti, per confezionare il mix traduttivo di volta in volta più adeguato a soddisfare livelli diversi e diversamente articolati e dotati di potere d'acquisto e di negoziazione della domanda complessiva di mediazione linguistica e culturale.

Oggi come oggi, proprio come dicono gli inquisitori, «Nessuno si aspetta più l’Inquisizione Spagnola», ma oggi più che mai non sarebbe del tutto dissennato farlo, dato che, persino negli studi televisivi dell’anglicana, liberata e psichedelica Swinging London, i tre cardinali possono essere in agguato dietro la porta, pronti a fare irruzione da un momento all’altro.

 

* * *

 

Proprio nel 1969, cioè nell’anno in cui il corrosivo Flying Circus dei Monty Python (inquisitori compresi) invade per la prima volta gli schermi della BBC, Foucault pronuncia alla Societé Française de Philosophie la sua celebre conferenza sull’autore (chiedendosi non CHI, ma COSA fosse un autore!). Per Foucault, la nascita della autoría moderna si collega proprio al mondo e ai tempi della vera Spanish Inquisition, cioè alla necessità, giuridico-inquisitoriale e repressiva prima e più che psicologica, di individuare e definire, con sempre più fanatica e burocratica precisione, i limiti della responsabilità sociale su un testo e sul suo contenuto (in termini di paternità e patria potestà da un lato e in termini di proprietà, sia pure letteraria, dall’altro, aprendo tra l’altro la strada alla rivendicazione e al riconoscimento di annessi e connessi diritti, economicamente cedibili e liquidabili, primo tra i quali quello detto, appunto, “d'autore”, non a caso configurato nel mondo anglosassone come diritto di riproduzione e riformulazione, cioè copyright).

Nel vasto mondo della autorialità così intesa propongo oggi di far rientrare, con tutto il sovraccarico di rappresentanza vicaria che ciò comporta, anche le performance di glossa e traduzione, nel mondo della galassia Gutenberg sottoposte ad approvazione censoria, ma per tutta la durata dello Ancien Régime non ancora soggette a vincoli  particolarmente stringenti di proprietà artistico-letteraria (fino al Settecento gli esempi sono numerosissimi: dalle belle infedeli agli adattamenti teatrali, dal librettismo operistico alle applicazioni in campo traduttivo di dottrine neoclassiche come la aemulatio competitiva, che trasforma il testo da tradurre in un modello da superare). Nel tempo delle rivoluzioni (inglese, americana, francese, industriale, etc.), dove e quando i ministri rischiano la testa al posto del re, i traduttori cominciano a curarsi in salute dalla possibilità di rischiarla al posto dell'autore. Il nesso forte tra responsabilità e potere, comparativamente stabilito da un attento analista storico-politico del sistema inglese come Montesquieu, identifica i ministri (nel nostro caso i traduttori) come esponenti di un potere emergente ed i monarchi non più assoluti (nel nostro caso gli autori) come esponenti di un potere in declino. «Comanda il gioco quello che rischia il collo» è la risposta che Montesquieu offre alla celebre domanda che Humpty Dumpty usa come knock-down argument nella sua conversazione con Alice, poco prima di cadere dal muro e di rischiare a sua volta, se lo avesse, il collo:

 

“When I use a word,” Humpty Dumpty said, in rather a scornful tone, “it means just what I choose it to mean- neither more nor less.” “The question is,” said Alice, “whether you can make words mean so many different things.” “The question is,” said Humpty Dumpty, “which is to be master-that’s all.”[2]

 

Il nesso tra responsabilità (rischiare il collo) e potere (‘to be the master’ ed essere consapevoli che tutto si riduce a questo), nel lungo periodo, ha predestinato ministri e traduttori alla conquista del mondo, ma nel breve poteva risultare, come è ovvio, tutt'altro che rassicurante, specie fino a che i fantasmi aurisecolari dell'Antico Regime e dell'Inquisizione (Spagnola e non) sono rimasti in agguato dietro la porta e non molto disposti a diradare le apparizioni delle loro “nice and red uniforms”.

L’invisibilità del traduttore, la letteralità, l'automatismo e la neutralità della traduzione, deontologicamente autoimposti ed elevati al rango di standard di professionalità, sono in questo senso miti funzionali che strategicamente hanno accompagnato la professionalizzazione dei traduttori e del loro lavoro in una fase in cui l'obiettivo prioritario della categoria è stato quello di circoscrivere e limitare e non di estendere la portata delle proprie responsabilità percepibili.

Come le citazioni e lo stile contorto del Seicento disegnavano il labirinto barocco entro cui l'auteur di Foucault cercava di depistare e seminare gli inquisitori del suo tempo, confondendo le tracce della propria responsabilità autoriale e rendendo opachi e poco definiti i limiti della propria potestas sul testo, così il rigore neoclassico e filologico e gli ideali di metriotes, aurea mediocritas e understatement invocati per il proprio sé dai traduttori del Sette e dell'Ottocento assomiglia alla natura artificiale e dosata di un landscape garden, nel senso che esprime una volontà deliberata e  calcolata di non far apparire l'arte e la mano del giardiniere, per tenerlo il più possibile lontano dai guai, disegnando accuratamente le aiuole della sua responsabilità. Professionalizzandosi i traduttori hanno costruito e legittimato il proprio ruolo in senso borghese, attraverso una progressiva rinuncia agli ampi margini di intervento di cui avevano in precedenza goduto (la celebre bella infedele, la dottrina della aemulatio competitiva, ecc.). Il tutto in cambio di un riconoscimento magari modesto, ma anche non troppo pericoloso. Come dice in un film intervista un vecchio doppiatore spagnolo, lo scopo del traduttore è stato per lungo tempo hacerse invisible, dato che «si como espectador piensas en el doblaje, mal asunto. Si en cambio no te das cuenta, es que está bien».

 

* * *

 

Parafrasando Foucault sulla scorta dei Monty Python vale davvero la pena di interrogarci, in termini di storia e attualità, su “Qu’est-ce qu’un traducteur?”, cioè non solo o non tanto su chi sia, ma su cosa sia, oggi come oggi, a quasi cinquant'anni dal Sessantotto, un traduttore e, di conseguenza, su come e perché continui a trovare sorprendenti le ripetute apparizioni degli inquisitori nella sua vita e nel suo lavoro.

Per provare ad abbozzare una risposta provvisoria a queste domande vorrei segnalare a titolo di esempio alcuni dei sempre più numerosi e rilevanti ambiti nei quali i limiti situazionali posti all'attività traduttiva risultano particolarmente cogenti. Nel campo della divulgazione, in quello della mediazione sociale, in quello della audio-visual translation, in quello della traduzione musicale e in quello dei remake cinetelevisivi e del correlato mercato dei format la nozione di autore risulta in effetti sfuggente, poco pertinente, difficilmente applicabile e linguisticamente mal circoscrivibile, perché sfumata, perché composita, perché collegata a più linguaggi e perché costretta a misurarsi con scenari di forte asimmetria nei quali è necessario e necessariamente rischioso scommettere su un grado significativo e non banale di competenza interculturale e di cooperazione interpretativa da parte dell'interlocutore/destinatario. In questi ambiti, segnati da consistenti dislivelli di potere, la crisi di miti professionali consolidati come l’invisibilità, l’equidistanza, l’automatismo e la neutralità del traduttore e della traduzione risultano particolarmente evidenti. Il testo o il turno tradotti vivono infatti di una feconda tensione tra istanze diverse e non possono che documentarla. Nella traduzione delle canzoni, per esempio, confliggono spesso esigenze di resa narrativa, di resa lirica e di resa performativa (anche rispetto alle priorità di scenari di consumo diversi come il disco, il video e il concerto), chiamate a coesistere con uno schema di temi e variazioni che solo in parte coincide con strutture di riferimento come quelle di ritornello e strofa.

Attraverso questi cavalli di Troia, legati alle migrazioni, al plurilinguismo, alla mobilità transnazionale e globale di individui e gruppi e alle esigenze produttive dell'industria della coscienza, tornano insomma a popolare la scena protocolli di riformulazione e  riscrittura ad hoc fino a pochi anni fa considerati del tutto desueti e inopportuni o confinati in nicchie molto specifiche del mercato (come le traduzioni d'autore o i libri, i film e le canzoni per bambini per esempio).

Come nel Flying Circus dei Monty Python, oggi «Nobody expects the Spanish Inquisition» e gli inquisitori, se e quando entrano spettacolarmente in scena, finiscono per suscitare più ilarità e paradossale nostalgia che vera paura. Al posto degli inquisitori e/o alle loro spalle, dietro la porta si affollano ormai altri fantasmi retorici del passato: la aemulatio (competitiva), la riscrittura, la riformulazione divulgativa, le ICT e la programmazione, anche linguistica, del cambio semiautomatico di destinatario. Il teleselettivo e poco umano «Press 1 for English», cioè il cosiddetto ELF, pur diffondendosi su scala planetaria, è sempre meno in grado di risolvere i nostri problemi di mediazione. Non a caso gli ispanici statunitensi lo hanno parodicamente riformulato, proponendo in alternativa il quasi omofono, «Press Juan for Spanish» (che è proprio quel che faceva, con metodi poco umani, the Spanish Inquisition), oppure, come significativo esempio di tertium datur, «Press 3 for Spanglish».



[1] Mala índole, in origine pubblicato a puntate su "El Pais" nell'agosto del 1996 e due anni dopo in volume da  Plaza & Janés, è stato successivamente scelto dall'autore come titolo della più ampia autoantologia disponibile della sua produzione di racconti: Mala índole. Cuentos aceptados y aceptables, Alfaguara, 2012.

[2] La prima edizione di Through the Looking Glass, and what Alice Found There, sequel delle sue avventure nel paese delle meraviglie, risale al 1871. Il testo ha avuto infinite ristampe, la maggior parte delle quali insieme al più celebre primo episodio.

 

©inTRAlinea & Marco Cipolloni (2013).
"“I didn’t expect a kind of Spanish Inquisition”: (ir)responsabilità professionale e fortune parodiche della riformulazione traduttiva dopo il 1968", inTRAlinea Special Issue: Palabras con aroma a mujer. Scritti in onore di Alessandra Melloni.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2016