©inTRAlinea & Flavio Fiorani (2021).
"Buenos Aires/Borges/Buenos Aires: traduzioni e destini sudamericani"
inTRAlinea Special Issue: Space in Translation

inTRAlinea [ISSN 1827-000X] is the online translation journal of the Department of Interpreting and Translation (DIT) of the University of Bologna, Italy. This printout was generated directly from the online version of this article and can be freely distributed under Creative Commons License CC BY-NC-ND 4.0.

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Buenos Aires/Borges/Buenos Aires: traduzioni e destini sudamericani

By Flavio Fiorani (Università di Modena e Reggio Emilia, Italy )

Abstract & Keywords

English:

Borges dedicated special attention to translation. As a writer and cultural organizer he asserts a new reading strategy which proposes the use of creative infidelity of translation in order to read literature from an unconventional position and thereby break the normal distinction between truth and fiction. His originality as an Argentine and cosmopolitan writer lies in this displacement: from the margins of Buenos Aires, an iconic metropolis of modernity, he reinvents a cultural tradition for Argentina and states his idea of reading and translation as an irreverent gesture towards all texts.

Italian:

Borges ha dedicato speciale attenzione alla traduzione. Scrittore e organizzatore culturale, sostiene una nuova strategia di lettura imperniata sull’infedeltà creativa della traduzione che consente di leggere la letteratura da una posizione marginale, rompendo così la convenzionale distinzione tra realtà e finzione. La sua originalità di scrittore argentino e cosmopolita deriva dalla posizione dislocata da cui pratica la propria attività di scrittore: dai margini di Buenos Aires, una metropoli icona della modernità del XX secolo, reinventa una tradizione culturale per l’Argentina e afferma che leggere e tradurre sono pratiche irriverenti verso ogni tipo di testo.

Keywords: Jorge Luis Borges, Argentinian culture, fictions, displacement, cultura argentina, finzioni, dislocazione

Scrittore cosmpolita e argentino

È più che scontato dire che, tra gli scrittori del Novecento, Jorge Luis Borges ha forse più di ogni altro attribuito al testo una condizione errante e ha problematizzato l’orizzonte del leggibile. Del binomio lettura-letteratura ha fatto l’architrave della sua poetica, elevando il primo termine (nella doppia accezione di spazio della traduzione e di luogo di traduzione) a gesto fondatore previo alla letteratura stessa, perché la lettura investe la complessa relazione tra un testo originario e la possibilità di riscriverlo in modo diverso, secondo le attese di chi lo legge.

Nelle sue riflessioni critiche e nelle sue finzioni, Borges ha assegnato un ruolo centrale alla traduzione al punto da sostenere che essa non è inferiore all’originale. Di qui che la concezione borgesiana del carattere impersonale della letteratura abbia non soltanto rovesciato la logica dell’identità, ma abbia stabilito, dalla periferia dell’Occidente, un’idea della letteratura argentina in dialogo con la letteratura universale e un’idea della lettura come gesto irriverente verso qualsiasi genere di testo.

Nella percezione comune Borges è uno scrittore che ha perso la sua nazionalità di origine. Lo si apprezza (attraverso le citazioni erudite, le mitologie nordiche, il rapporto con Dante e i classici) in inscindibile rapporto con la letteratura europea. Questo mito biografico è confermato dal modo in cui “lo scrittore ai margini” (Sarlo 1995) si è appropriato della letteratura: il Chisciotte letto in inglese quando era bambino, la traduzione de Il principe felice di Oscar Wilde a nove anni, quelle di Virginia Woolf, Kafka, Faulkner, Melville… Così, però, si oscura la tensione che percorre la sua opera e non si vede come l’importanza che Borges attribuisce alla traduzione sia funzionale a un programma culturale in cui il recupero della dimensione rioplatense e della tradizione argentina serve – scrive Beatriz Sarlo – proprio a scalzare “la letteratura occidentale da una centralità incontrastata” (Sarlo 1995: 14) In particolare la traduzione è da un lato una sfida culturale, un sovvertimento di stereotipi e figure dell’immaginario nazionale condotto dai margini di Buenos Aires e, dall’altro, un originale progetto di integrazione dell’Argentina nel mondo a partire dalla modernità periferica della sua capitale. È questa tensione a mostrare quanto Borges – intellettuale cosmopolita e argentino – spazzi via gerarchie estetiche, geografiche e culturali e consideri la lettura e la traduzione come i veri gesti fondatori della letteratura argentina.

Leggere e tradurre il libro europeo

Lettura e traduzione sono i capisaldi con cui reinventare una tradizione culturale per un paese eccentrico come l’Argentina e al contempo leggere e tradurre le letterature europee a partire dalla distanza, dal margine da cui Borges raccomandava di leggere i suoi testi. Dunque, tornando alla lettura e alla traduzione, far interagire lo spazio della traduzione con il luogo della tradizione, mettendo in circolazione lingue, testi e immaginari perché, da scrittore e organizzatore di cultura, Borges vuole assemblare forme eterogenee che mai si sono incontrate e destabilizzarne l’identità, farle entrare in collisione, dare vita a una letteratura argentina e cosmopolita, decentrata, desincronizzata, con un tempo e un divenire propri.

Una lettura possibile del progetto borgesiano è quella di una “reinvenzione della tradizione” tale da riscrivere e re-inscrivere la letteratura argentina nel mondo con uno spostamento di contesto. Non è un’idea nuova. È in perfetta linea di continuità con quella degli intellettuali liberali che un secolo prima avevano identificato nel binomio traduzione-indipendenza politica e culturale l’indispensabile strumento di affermazione identitaria per una nazione che non riconosceva la Spagna come madrepatria culturale. Per i liberali argentini fondare una letteratura nazionale con i modelli europei (filosofia politica francese e romanticismo) significava una cosa sola: leggere il libro europeo per adattarlo al contesto americano. Lettura e traduzione sono operazioni complementari perché tradurre significa leggere in modo differente. Tradurre non è soltanto importare i testi dell’archivio europeo, ma implica una decontestualizzazione necessaria a creare una scena di lettura e un pubblico di cittadini istruiti per una letteratura nuova che sarà il risultato di riscritture, appropriazioni, prestiti, citazioni…

In una nazione giovane in cui si teorizza perfino la necessità di contaminare lo spagnolo peninsulare e argentinizzarlo attraverso il contatto con le lingue europee, tradurre è veicolo e sinonimo di civilizzazione. Cultura è inscrivere (riscrivere, trapiantare) il libro europeo nel contesto americano. Tradurre non è solo un trasferimento di contesto, è soprattutto autopercezione identitaria. Così può realizzarsi l’operazione di ingegneria culturale che sta all’origine dell’irriverenza letteraria degli argentini: è l’appropriazione linguistica a generare nuovi e inediti significati nel contesto di un paese periferico. Leggere (e tradurre) significa che l’Argentina esiste attraverso il testo europeo, e dunque può essere altro da ciò che è.

In una letteratura nascente l’ibridazione di generi – il Facundo di Domingo F. Sarmiento è un esempio perfetto di non-fiction, una finzione scritta come se fosse la biografia del caudillo Facundo Quiroga – si salda alla rivendicazione dell’infedeltà creativa della traduzione. Nel libro che Sarmiento pubblica quando è in esilio in Cile nel 1845, dove l’Argentina è la scena del conflitto fra “civiltà europea” e “barbarie indigena”, l’attribuzione deliberatamente fasificata dell’esergo (la frase di Diderot “On ne tue point les idées” è erroneamente attribuita a Hyppolite Fortoul e mistradotta in spagnolo “A los hombres se degüella, a las ideas, no”[1]; Sarmiento 1955: 5) e la sua ricontestualizzazione geografica apriranno la strada a un profluvio di citazioni apocrife, cioè a uno dei tratti distintivi della letteratura argentina fino a Borges e oltre[2].

Ciò che dunque configura la cultura della periferia è la riscrittura che il lettore-traduttore Sarmiento realizza con uno spostamento di contesto che dà al libro europeo la possibilità di venir letto e riscritto ai margini della modernità occidentale. Intesa come un modo di leggere ciò che si scrive altrove, la letteratura argentina nasce come tensione fra la dimensione locale e quella universale, fra traduzione interlinguistica di letterature europee e traduzione intralinguistica delle culture locali. L’appropriazione testuale del libro europeo configura il contesto di lettura e instaura una fertile relazione con il contesto di partenza.

Inscrivere la letteratura argentina in uno spazio liminale

Tornato dall’Europa nel 1923, Borges sarà l’originale interprete di una nuova e dirompente idea della letteratura argentina (e dello scrittore periferico) come zona di incroci fra la tradizione locale (la gauchesca) e le letterature europee. Con un programma artistico fondato sulla traduzione intesa come violazione della letterarietà di un testo originale, come capacità di “sradicarne i significati ricollocandoli in un nuovo orizzonte spazio-temporale” (Pauls 2016: 114–115) e con l’idea che la letteratura ha senso soltanto se si muove, mette a rischio la sua stessa identità ed estrapola dal suo contesto una finzione per inserirla in un altro contesto, Borges si fa carico della seduzione della barbarie nella cultura argentina (che Sarmiento aveva denunciato nel Facundo) e mette al centro della sua poetica quel “destino sudamericano” (Borges 2002b: 38) che sarà materia di più di un artificio letterario.

Operazione, questa, inscindibile – nella sua poesia e nei testi critici – dalla messa in scena di un io frammentato che nella metropoli sul Río de la Plata si rappresenta come un transeúnte, un “passante” il quale, assunta la marginalità come un punto di vista, sconfina nei sobborghi della città e scrive testi che sono veri e propri luoghi di transito tra originali e copie. Quasi a voler replicare, da una prospettiva obliqua, quell’operazione di riscrittura della geografia fisica e sociale dell’Argentina che, un secolo prima, Sarmiento aveva realizzato con un testo ibrido e un deliberato gesto di mistraduzione della cultura europea, Borges legge e cammina (sono operazioni complementari), e con percorsi soggettivi e arbitari traccia sulla mappa della città reale una personale e nostalgica scoperta di un luogo che sta svanendo.

Non si tratta però di una scoperta di Buenos Aires (Borges ci torna dopo nove anni di soggiorno in Europa) nel senso che egli la vede per la prima volta. Città e libro (testo originario) sono apparentati da un singolare elemento: camminare ai margini della città, in zone di transizione tra il passato e il futuro, significa leggere ciò che si vede come un ritorno, una seconda scoperta che permette di ri-vedere, di ri-pensare, di ri-leggere, come nell’atto traduttivo, un testo (la città) nel suo sdoppiamento e annullare così il privilegio di ogni condizione inaugurale liquidando ogni ambizione di originalità. Della tradizione e della traduzione bisogna violare la letterarietà, destabilizzarla, per adattarle alle attese di chi legge. Perché la traduzione più che una semplice spia di problemi artistici è per Borges “la macchina che li produce e, insieme, il modello che serve per pensarli” (Pauls 2016: 115).

È il margine il luogo in cui posizionarsi per leggere in maniera eterodossa la letteratura argentina e creare una mitologia[3]. Con la spregiudicatezza di chi conosce sei lingue, il Borges scrittore e organizzatore culturale compie la sua personale selezione della letteratura straniera configurando un pensiero enciclopedico aperto alla contaminazione: la “biblioteca infinita” organizzata secondo un sistema di vasi comunicanti fra la mistica persiana e la letteratura scandinava, le mitologie nordiche e la filosofia di Schopenauer, la gauchesca e il racconto poliziesco… In un luogo eccentrico come l’Argentina, un paese che si sente europeo ma lo è solo in parte, lo scrittore dà corpo alla sua idea di letteratura all’insegna del cosmopolitismo, rovesciando il significato convenzionale di “classico”: non un libro che contenga una verità intrinseca, ma un testo in cui l’eclisse dell’io ne assicura la circolazione illimitata, capace di dispiegare verità fuori di esso e a cui sono le mutevoli strategie di lettura ad assegnare un valore.

Rovescia dunque i termini della questione: la forza di un modello letterario sta nel rapporto con i contesti e le condizioni di ricezione che ne abilitano la trasformazione. La sua forza non sta nell’attualità ma nell’anacronismo, nella lettura fuori contesto compiuta dalla periferia. Leggere tutta la letteratura del mondo a Buenos Aires – e inscrivere la letteratura argentina in uno spazio liminale, in una zona di contatto aperta all’appropriazione del testo europeo –, è un’esperienza che va oltre la critica e muove in direzione dell’universo letterario in quanto tale, ne definisce le frontiere proprio in quanto la lettura è una pratica anteriore alla critica stessa, costituisce il suo prerequisito (Piglia 2014: 143–145).

Con l’idea che a definire il testo siano le attese di lettura, Borges legge fuori contesto anche la letteratura argentina e crea un passato e una mitologia che riscattano i valori e lo spazio della pampa e dei sobborghi della capitale. Dalla modernità periferica la macchina letteraria borgesiana reinventa l’epica gauchesca (la letteratura dell’Argentina rurale dell’Ottocento) con una libertà poetica che rifugge dai segni esteriori del colore locale. Abbandona la convenzionale rappresentazione del gaucho come simbolo di un’essenza nazionale minacciata dall’alluvione immigratoria e riscrive la tradizione criolla con trame inedite, sganciandola dalla condizione residuale della letteratura di costume, di mito antimoderno, di emblema del paesaggio rurale, di un passato cui aggrapparsi.

In polemica con chi assegna al passato la forza di un mito capace di scongiurare la frattura di un’immaginaria coesione sociale, negli scritti sul modo di leggere i classici lo scrittore argentino e cosmopolita svolge le sue riflessioni sulla traduzione come un contrappunto critico della sua produzione narrativa[4]. È l’esordio di una personale strategia della lettura nel contesto periferico che mette in discussione i giudizi di valore della critica, perché un classico è tale soltanto a partire dalla prospettiva di chi lo legge. Con il binomio lettura-letteratura (inteso, lo si è detto, come spazio della traduzione e luogo di traduzione), nel quale al primo termine si attribuisce la capacità, dalla periferia dell’Occidente, di fondare un’idea della letteratura svincolata dal linguaggio, Borges va decisamente controcorrente: a dispetto di chi considera il Martín Fierro un esempio ineguagliato di epica nazionale, Borges ritiene che la grandezza del libro non sta nel genere ma nella sua capacità di essere letto, commentato e riscritto come l’Odissea e la Bibbia… Messo giù dal piedistallo, il vertice dell’epica nazionale è posizionato in un fertile dialogo intertestuale e offre un ampio spettro di possibilità creative e di interpretazioni[5].

La traduzione come strategia di lettura fuori contesto

Ma torniamo ai classici. È nel saggio L’etica superstiziosa del lettore (Borges 2002a: 48-52) che Borges prende posizione senza peli sulla lingua: deplora lo stile inteso come un valore, stigmatizza l’enfasi e bacchetta chi apprezza la sintassi e non l’efficacia di una pagina, e conclude che la pagina perfetta è quella che più facilmente si logora. Al contrario di quel che sostiene la critica spagnola, il Don Chisciotte resiste a tutti gli artifici verbali inventati per tradurlo e vive nella cultura tedesca o scandinava ben oltre la bellezza della perfezione formale.

La riflessione sul modo in cui leggere i classici è un attacco alla sacralità immobile del testo da parte di uno scrittore che non vuole essere classificato come un ingegnoso artefice che cerca la perfezione letteraria e vive solo nella letteratura (anche se, lo sappiamo, non bisogna credere che quel che afferma polemicamente sia vero rispetto a quel che scrive). Quella di Borges è una posizione militante che viene dall’idea che la letteratura è di tutti e che anche gli scrittori mediocri hanno qualità letterarie, e si accompagna all’affermazione che, al di là del giudizio contingente, la grande letteratura in fondo è anonima. È un’idea eterodossa di letteratura che Borges pratica con la rottura dei convenzionali spazi di differenziazione tra verità e invenzione quando scrive testi di carattere autobiografico in cui mescola il linguaggio della critica alla finzione. Per il Borges lettore, scrittore e organizzatore di cultura che affida alla critica una funzione pedagogica e programmatica, che adotta un originale punto di osservazione dei classici e del ruolo della traduzione, una nuova strategia di lettura significa principalmente leggere fuori contesto, sostenere che il testo resiste all’idea di una lettura chiusa.

In questo dislocamento sta l’irriverenza borgesiana con cui affronta la questione della traduzione e rovescia la gerarchia tra testo di partenza e testo d’arrivo nel saggio Le due maniere di tradurre (1926), più tardi ampliato nel celebre Le versioni omeriche e pubblicato sul quotidiano La Prensa l’8 maggio del 1932. Qui Borges si prende gioco della “superstizione dell’inferiorità della traduzione” spiegando che la “ricchezza eterogenea e persino contraddittoria” (Borges 2002a: 102) delle versioni in lingua inglese dei poemi omerici deve attribuirsi ai diversi contesti da cui si leggono traduzioni dell’Iliade che altro non sono “se non prospettive diverse di un fatto mobile, se non un lungo sorteggio sperimentale di omissioni e di enfasi?” (Borges 2002a: 100). Non esiste dunque un testo definitivo perché questo viene sempre ri-letto. È il lettore a cogliere la ricchezza delle versioni omeriche. La non conoscenza della lingua originale è trasformata in un vantaggio (le molte lingue di arrivo). Tale idea diacronica della lettura apre lo spazio e la tensione necessari affinché la traduzione possa irradiare il suo dinamismo nel tempo e nello spazio in cui il testo arriva nelle mani del lettore. Non c’è alcuna perdita nel passaggio dall’originale alla traduzione proprio in quanto ciò che si privilegia è il valore della differenza e della condizione di complementarietà tra un primo testo e un secondo (Waisman 2014: 73).

L’idea dell’originale come un “fatto mobile”, come un testo che viene sempre ri-letto con “le ripercussioni incalcolabili dell’elemento verbale” (Borges 2002a: 100), apre alla possibilità di pensare alla riscrittura come limes, come un confine da cui il testo è sempre pensabile in un altro modo. Se guardiamo allo scambio tra culture che sta all’origine della letteratura argentina e alla traduzione come ciò che è al contempo più e meno di una riscrittura, ne deriva che quest’ultima posiziona il lettore in quel confine tra le lingue che ci fa leggere fuori contesto. Non è soltanto una questione di ordine geografico: Borges sceglie la lateralità, il limes tra lingue, generi, forme letterarie per scrivere su Buenos Aires e rivendicare il valore della marginalità per tutta la letteratura ispanoamericana. O meglio: per tutta la letteratura laterale perché, come gli ebrei e gli irlandesi, gli ispanoamericani stanno dentro la cultura occidentale senza sentirsi legati ad essa da una speciale devozione. Dirà nella conferenza del 1951 Lo scrittore argentino e la tradizione: “Credo che noi argentini, noi sudamericani (…) possiamo trattare tutti i temi europei, trattarli senza superstizioni, con un’irriverenza che può avere, e ha già avuto, conseguenze felici” (Borges 2002a: 151). È la rivendicazione della marginalità rispetto a un “centro”, un modo per definirsi scrittore argentino allontanandosi da esso per vederlo meglio (e, da lettore, destabilizzarlo con ironia). È un modo per sostenere il carattere dinamico della traduzione in quanto essa amplia il mondo che sta dentro un testo uscendo dal recinto del linguaggio (Balderston 1993: 67)[6].

La pratica letteraria come incessante riscrittura

In un contesto periferico traduzione, critica, lettura sono anche altro: sono modi per infischiarsene della canonizzazione dei generi e smontare ogni pretesa di autenticità. La lettura può e deve essere costruzione di relazioni inattese, l’appropriazione testuale di una traduzione va ben oltre la mera tecnicalità letteraria, il compito della critica non è commentare ma riscrivere, non è parlare del testo ma nel testo. Dunque adottare un punto di vista eccentrico per leggere la filosofia come se fosse letteratura fantastica, il Bartleby di Melville come effetto del kafkiano, il Chisciotte come un testo contemporaneo il cui autore è Pierre Menard. Riflessione sulla lettura come “tecnica dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee” (Borges 2003: 45), il celebre racconto pubblicato nella rivista Sur nel 1939 è divenuto una citazione obbligata nelle riflessioni sull’aspetto paradossale di ogni riscrittura. Si può leggere in chiave autobiografica (la tristezza di Menard nel constatare che tutto è già stato scritto e che non resti altro che “vedere nel Don Chisciotte «finale» una specie di palinsesto”; Borges 2003: 44), o si può interpretare a partire dalla tensione che innerva ogni testo scritto. Il proposito di Menard è infatti quello di scrivere un testo sintatticamente identico al Chisciotte ma prodotto dal suo ingegno: tra quello di Cervantes e quello di Pierre Menard c’è una distanza (anche temporale) la cui indeterminazione potenzia sia la scrittura (o la lettura) del testo di partenza sia la nuova scrittura (o lettura) del testo di arrivo (Molloy 1979: 133).

È il segno paradossale della riscrittura come “anacronismo deliberato” per cui il testo è situato in un nuovo spazio-tempo a renderlo proprio ed estraneo a Cervantes e a Menard. Tale indeterminazione è il luogo da cui la finzione borgesiana avverte che allo scrittore contemporaneo rimane soltanto la possibilità della ripetizione, ma è anche occasione di riscatto dal destino subalterno che colpisce Menard: il paradosso messo in scena dal racconto sta nel fatto che anacronismo e riscrittura determinano un “juego fundado en la contextualización temporal diferente de una escrittura idéntica” (Melis 2006: 133) che fa sì che Menard consapevolmente scriva il Chisciotte e inconsapevolmente scriva un altro libro. Confrontare i testi di Cervantes e Menard significa prendere atto dell’inevitabile imperfezione di una traduzione perfetta: con ironia Borges ci dice che sono vani gli sforzi di aggiornare un testo nell’illusione di aumentarne la resistenza nel tempo. Perché l’errore più grande è credere che possiamo ricostruire il mondo dell’autore e così definire il significato vero del testo.

La conseguenza di questa celebre riflessione metaletteraria è che per Borges lettura, traduzione e critica determinano uno spostamento di contesto che consiste nel leggere tutto come se fosse letteratura, come se fosse fuori posto, e la negazione di ogni pretesa di originalità porta con sé che non c’è alcun ordine gerarchico che lo scrittore periferico e la letteratura argentina debbano rispettare. L’idea borgesiana della pratica letteraria come palinsesto è esemplificata dal saggio Kafka e i suoi precursori (1951) in cui Borges riconosce la voce e i procedimenti dello scrittore praghese “in testi di diverse letterature ed epoche” (Borges 1963: 106). Cosa vuole dirci? La risposta non sta soltanto nella celebre affermazione che “ogni scrittore crea i suoi precursori” (Borges 1963: 108) perché i significati di un testo si ricombinano senza alcun ordine gerarchico, e sono soprattutto le condizioni di ricezione di uno scrittore a mettere in circolazione testi che viaggiano e si moltiplicano. Leggere in modo diverso e tradurre inteso come un’alterazione dell’ordine dei testi (traspapelar) è il modo in cui lo scrittore sudamericano si affranca da un destino subalterno e dal suo contesto periferico può appropriarsi di ogni traduzione. Alla riscrittura affida il compito di attivare il dialogo intertestuale e di agire in modo (auto)critico all’interno di un testo, ma anche di compiere una rottura rispetto al genere e alla ricezione. Perché la traduzione, oltre che luogo dove si modellano le lingue, è un atto trasformativo che consente di “scoprire significati che non ci sono” (Fabbri 2000: 190).

Scrivere nel luogo della modernità senza radici

Per chi guarda all’Europa come un modello da rielaborare, con appropriazioni e dislocamenti, da un paese senza tradizioni indigene paragonabili a quelle del mondo andino o dell’America centro-settentrionale, meta della multietnica immigrazione transoceanica e in una metropoli come Buenos Aires che nel 1910 è la più grande città dell’America latina (passa dai circa 660.000 abitanti del 1895 a quasi 3 milioni del 1914), scegliere come e cosa tradurre investe il senso più ampio della cultura e dell’alfabetizzazione. Borges rivendica la libertà creativa della lettura dalla periferia e concepisce la letteratura come uno spazio di autoriconoscimento, scrive su riviste di larga diffusione e come recensore e autore di prefazioni a testi della letteratura europea lavora sulle intersezioni tra cultura alta e bassa[7]. Da questa posizione eccentrica scrive manuali e testi di divulgazione per il grande pubblico, e sulla Revista Multicolor de los Sábados (inserto settimanale del quotidiano Crítica) propone una biblioteca dell’erudizione culturale a una metropoli multilingue dove lo spagnolo si parla con intonazione yiddish, tedesca, italiana, araba, galiziana, inglese, e dove è il mercato a determinare la circolazione della letteratura europea.

Nella città come spazio di produzione mitologica e luogo della modernità senza radici, dove l’alfabetizzazione delle masse non compete solo alla scuola ma alle case editrici, alla radio, al cinema, al teatro, al varietà, ai giornali, alle riviste letterarie, ai rotocalchi a larga diffusione, al teatro popolare, al tango, alle società di mutuo soccorso e alle forme della sociabilità, dove i processi di diffusione della cultura si estendono orizzontalmente, e il riconoscimento di opere e scrittori dipende sempre meno dal giudizio dei grandi intellettuali e sempre di più da giornali, riviste, case editrici anche legate a partiti popolari di sinistra, Borges può essere scrittore decisamente argentino nella nostalgia per i sobborghi di Buenos Aires (quelli del tango e della malavita) e al contempo liberare l’Argentina da ogni colore locale aprendo la lingua spagnola alla contaminazione del dialetto popolare e delle lingue degli immigrati. Così facendo configura uno dei paradigmi della letteratura argentina che sorge dall’incrocio tra la cultura europea e l’inflessione ripoplatense del castigliano (Sarlo 1995: 19) e si prende la libertà di riscrivere le grandi tradizioni occidentali in chiave locale rifuggendo dal determinismo spaziale e sociologico.

Contestualmente all’operazione con cui legge i classici rovesciando la gerarchia tra testo di partenza e testo d’arrivo e con il punto di vista eccentrico che consente di leggere la filosofia come se fosse letteratura fantastica, nelle sue finzioni Borges mette in scena il “destino sudamericano” (il termine sta nel Poema conjetural del 1943, poi confluito in El otro, el mismo, 1964) (Borges 2002b: 36-39) e fa del gergo della periferia la pietra angolare di una mitologia nazionale. In Uomini lottarono (uno dei due scritti di carattere narrativo della raccolta L’idioma degli argentini del 1928), una voce scandisce le fasi di un combattimento all’arma bianca in quella “zona di povertà ai margini che non era il centro, era la periferia: parola connotata più in senso dispregiativo che topografico” (Borges 2016: 111) e, strappandolo dalla seduzione della barbarie, riscatta il duello come un significante fondatore di un paese attraversato dal conflitto tra tradizioni culturali.

In stretto rapporto con la tensione tra periferia americana e tradizione occidentale e con i temi dell’eterodosso sistema borgesiano (il Sud del mondo come luogo privilegiato della produzione di letteratura, la traduzione e il contesto di lettura, lo spazio decentrato da cui leggere e riscrivere il libro europeo), è il racconto Il Sud del 1953 (Borges 2003: 154-162) che mette in scena il conflitto tra mondo americano e cultura occidentale. Il protagonista Juan Dahlman, incarna nel suo nome la duplice origine argentina ed europea di Borges. Bibliotecario e bibliofilo che legge le Mille e una notte in traduzione tedesca, Dahlman va a morire nella pampa attratto dal tragico destino del nonno materno ucciso nelle guerre contro gli indios. È nel Sud che il bibliotecario apre per l’ultima volta il libro in lingua straniera e compie un dislocamento dell’oggetto culturale per resistere alle provocazioni dei gauchos in un’osteria della pampa. La lettura fuori contesto delle Mille e una notte è l’esatto risvolto dell’anacronismo del suo gesto, una fine violenta opposta a una vita di topo di biblioteca. È un modo per dire che con l’atto della lettura Dahlman rilegge il passato per comprenderlo e dare un senso a una vita anonima nello spazio decentrato e marginale della pianura argentina. Il racconto può interpretarsi come un sogno – quello del bibliotecario nell’ospedale in cui è operato per una ferita alla testa – o come un resoconto realistico del protagonista che, dimesso dall’ospedale, viaggia nella pampa ed è ucciso in un duello. Entrambe le interpretazioni sono legittime e lasciano il lettore nell’incertezza. Sta in questo doppio destino la condizione eccentrica da cui Borges ha inventato un paradigma della lettura e della traduzione e ha lavorato la tensione della doppia origine della cultura argentina.

Dalla condizione di lateralità di Buenos Aires, luogo della modernità senza radici, limes tra le lingue del mondo, Borges sovverte le figure dell’immaginario argentino con la modalità dell’anacronismo e della lettura fuori contesto. Può farlo perché l’extraterritorialità della sua poetica poggia su un intreccio di idiomi e prestiti differenti che “fittamente intrecciati […] formano il tracciato di una mappa, un paesaggio di segni di riconoscimento unici a Borges ma anche, in un certo senso, familiari come il sonno” (Steiner 2004: 100). La sua rilettura della tradizione nazionale scaturisce dall’idea della traduzione come trasgressione di un testo originario, consolidato, come lavoro di decentramento condotto dalla periferia. A Buenos Aires – città della pluralità delle lingue e della circolazione incessante tra le lingue di una biblioteca infinita – la scrittura borgesiana si muove tra la differenza e la ripetizione con un movimento rizomatico, una tensione meticcia che mescola periferia e centro senza confonderli, e rifugge dalla semplificazione identitaria come dall’universalismo astratto. La sua idea del lettore come personaggio che attiva e destabilizza significati e interpretazioni di un testo, ci dice che non c’è ordine gerarchico che lo scrittore periferico debba rispettare e apre al valore impersonale della letteratura che, come il genere umano, è transculturale e universale.

 

Bibliografia

Opere di Jorge Luis Borges

— (1963) Altre Inquisizioni, trans. F. Tentori Montalto, Milano, Feltrinelli.

— (1971) Il manoscritto di Brodie, trans. L. Bacchi Wilcock, Milano, Rizzoli

— (1997a) Storia dell’eternità, trans. G. Guadalupi, Milano, Adelphi.

— (1997b) Storia universale dell’infamia, a cura di A. Morino, trans. V. Martinetto, Milano, Adelphi.

— (1999) Il manoscritto di Brodie, a cura di A. Melis, trans. L. Lorenzini, Milano, Adelphi.

— (2002a) Discussione, a cura di A. Melis, trans. L. Lorenzini, Milano, Adelphi.

— (2002b) L’altro, lo stesso, a cura di T. Scarano, Milano, Adelphi.

— (2003) Finzioni, a cura di A. Melis, Milano, Adelphi.

— (2016) L’idioma degli argentini a cura di A. Melis, trans. L. Lorenzini, Milano, Adelphi.

Saggi critici

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Note

[1] “Si possono sgozzare gli uomini, non le idee”.

[2] Per Sarmiento leggere è “traducir el espíritu europeo al espíritu americano, con los cambios que el diverso teatro requería” (Molloy 2001: 38–39). Per il teorico del liberalismo argentino che coltiva l’autopercezione di sé come un uomo che esiste in funzione dei libri che legge in francese e in inglese, la traduzione non riproduce l’originale ma, obbligatoriamente, se ne allontana per adattarsi al contesto di arrivo.

[3] Nelle orillas (margine, limite, bordo, limes) Borges costruisce uno spazio immaginario che è lo specchio infedele della città moderna. Negli anni Venti del Novecento il termine designa gli ultimi lembi di una trama urbana che si sfilaccia nella pianura.

[4] Senza dimenticare che se saggi, recensioni, prefazioni, interviste, finzioni critiche sono colmi di illuminanti considerazioni sulla traduzione, si tratta sempre di un pensiero che rifugge dalla sistematicità e non vuole proporsi come una teoria della traduzione. Borges va in direzione opposta a quella di una convenzionale teoria della traduzione: le traduzioni sono il punto di partenza per le sue riflessioni sulla letteratura, l’autore, la lettura, la critica.

[5] Le molteplici rielaborazioni della figura di Martín Fierro culminano nella morte in duello del più famoso personaggio della letteratura argentina (cfr. il racconto La fine, in Borges 2003: 146–149). Così Borges entra da par suo nel palinsesto della letteratura gauchesca e reinscrive i significati simbolici e archetipici di Fierro nel sistema letterario nazionale.

[6] Scrive Enrico Terrinoni in Oltre abita il silenzio. Tradurre la letteratura che la traduzione è un trasportare “quanto pensato e detto da altri, al di qua, nella nostra mente, per poi riproporlo con nuove parole, nello spazio virtualmente infinito che si estende da essa alle menti altrui” (Terrinoni 2019: 61).

[7] Un diffuso stereotipo ha appiattito la figura di Borges su quella della rivista Sur (e viceversa), mentre in realtà Borges scrive sui più diversi mezzi di informazione e collabora a riviste culturali di larga diffusione.

©inTRAlinea & Flavio Fiorani (2021).
"Buenos Aires/Borges/Buenos Aires: traduzioni e destini sudamericani", inTRAlinea Special Issue: Space in Translation.
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