Relatività linguistica e traduzione

L'inutile polemica col relativismo

By Gabriele Pallotti (Università di Cagliari, Italy)

Abstract & Keywords

English:

Linguistic relativity, or the Sapir-Whorf hypothesis, is often seen in opposition to translation. This article attempts to analyze the complex relationship between linguistic relativity and translation from a historical, philosophical and theoretical point of view, avoiding a simplistic opposition. The author concludes that, both from a historical and a contemporary perspective the principle of linguistic relativity and empirically verifiable hypotheses which can be formulated from it can be considered an integral part of a theory of translation. A thorough analysis of such principles and hypotheses is in itself a critique to the limits and possibilities of translation, as well as a step towards better translation practices.

Italian:

La relatività linguistica, o ipotesi Sapir-Whorf, viene spesso vista in contrapposizione con l’idea stessa del tradurre. Questo articolo si propone di analizzare il complesso e sofferto rapporto tra relatività linguistica e traduzione dal punto di vista storico, filosofico e teorico, nel tentativo di evitare una semplice contrapposizione polemica. L’autore conclude che, sia dal punto di vista storico che da quello del dibattito contemporaneo il principio di relatività linguistica e le ipotesi empiricamente verificabili che si possono formulare a partire da esso possono essere considerati parte integrale di una teoria della traduzione. Un’indagine approfondita di tali principio ed ipotesi costituisce una vera e propria critica delle possibilità e limiti della traduzione, oltre che un importante passo per migliorare le pratiche traduttorie.

Keywords: sapir-whorf hypothesis, lingustic relativity, translation practice, relatività linguistica, pratiche traduttorie

©inTRAlinea & Gabriele Pallotti (1998).
"Relatività linguistica e traduzione L'inutile polemica col relativismo", inTRAlinea Vol. 1.

This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/archive/article/1620

1. Introduzione

La relatività linguistica, o ipotesi Sapir-Whorf, viene spesso vista in contrapposizione con l’idea stessa del tradurre. Il seguente passo, tratto dalla voce Traduzione della Encyclopedia of semiotics, è rappresentativo di una simile concezione:

Secondo Whorf (1956) e Sapir (1921), ogni lingua rappresenta una visione del mondo unica, incompatibile con ogni altro modo di percepire la realtà esterna. I parlanti sono prigionieri della loro lingua materna, incapaci di liberarsi dalle categorie e divisioni che la struttura della loro lingua impone sulle percezioni ed i pensieri. L’Ipotesi Sapir-Whorf esclude la possibilità di successo della traduzione [excludes the possibility of successful translation]… (Schogt 1986:1108)

In questo articolo vogliamo innanzitutto rendere un po’ più complicato questo quadro che appare fin troppo semplicistico. Il rapporto tra relatività linguistica e traduzione, sotto qualunque punto di vista lo si consideri - storico, filosofico o teorico - è complesso, sofferto e soprattutto irriducibile a una semplice contrapposizione polemica.

Per dare una definizione preliminare, si potrebbe dire che la (teoria, idea, ipotesi della) relatività linguistica tenta di rendere conto di due fatti: 1) le lingue umane sono diverse tra loro; 2) le lingue costituiscono un sistema di riferimento per il pensiero e il comportamento umani (questi ultimi, in altri termini, sarebbero influenzati dalle lingue che gli individui parlano). Si noti che il secondo punto asserisce l’influenza delle lingue, e non del linguaggio. Il linguaggio, come facoltà di cui tutti gli esseri umani normali sono dotati, ha certo un’influenza su come si sviluppano e funzionano le capacità cognitive umane; tuttavia, la relatività linguistica cerca di dare conto di come le lingue - in quanto realizzazioni storicamente individuate di tale capacità e diverse tra loro (almeno se si accetta la premessa 1) - possano costituire, nella loro diversità, degli schemi di riferimento che contribuiscono a costituire la ‘visione del mondo’, ma anche la ‘azione-nel-mondo’, dei loro parlanti. Come si vedrà anche in seguito, la relatività linguistica ha palesi affinità - perlomeno storiche - con la relatività einsteiniana: come questa prevede che gli osservatori che si trovano in sistemi di riferimento diversi per localizzazione, velocità e direzione del moto giungano a diverse osservazioni e misurazioni degli stessi fenomeni, così la relatività linguistica whorfiana prevede un simile effetto dei sistemi di riferimento linguistici sulle osservazioni di parlanti lingue diverse.

Volendo sintetizzare al massimo, con una formula certo vaga ma che rende giustizia alla complessità della questione, si potrebbe dire che la relatività linguistica è data dagli ‘effetti del linguaggio su qualcos’altro’, o, meglio, dagli effetti della diversità delle lingue sulle attività umane. Le relazioni tra questa nozione ed i problemi della traduzione sono evidenti. Nella traduzione si presuppone che esista qualcosa in comune tra il testo di partenza ed il testo di arrivo, che essi, in qualche modo, dicano la stessa cosa [1]. Ora, la relatività linguistica solleva il problema dell’identità e diversità delle ‘visioni del mondo’ e delle ‘azioni-nel-mondo’, insomma di quel ‘qualcosa’ che dovrebbe rappresentare la stessa cosa che i due testi, tradotto e traducente, esprimono. Se la diversità delle lingue conduce gli individui ad avere diversi sistemi di riferimento per il loro pensiero e comportamento, come potranno essi dire che due frasi, o due testi, in due lingue diverse esprimono la stessa idea o servono per fare la stessa cosa? La conclusione, effettivamente scoraggiante, potrebbe essere che non si può tradurre, che non ci si può capire se non si condivide il sistema di riferimento linguistico. Ma si potrebbe anche concludere che, siccome le traduzioni esistono, deve essere errata l’ipotesi relativistica, almeno nella sua parte cosiddetta deterministica (il fatto 2): le lingue non condizionerebbero le attività non linguistiche dei parlanti, che possono così tradurre delle ‘cose’ che rimangono invariate translinguisticamente (su queste ‘cose’ torneremo nelle conclusioni).

E’ di simili questioni che intendiamo parlare in questo articolo, assumendo una prospettiva essenzialmente storica. Cercheremo cioè di mostrare come gli autori che vengono solitamente definiti dei ‘relativisti linguistici’ abbiano trattato il problema della traduzione, sperando di mostrare che il rapporto tra le due nozioni non è di semplice contrapposizione polemica, ma esprime una tensione molto più complessa. La ricostruzione storica avrà come punto di arrivo e di riferimento Benjamin Lee Whorf, “il più celebrato relativista di questo secolo” (Lakoff, 1987: 304), unanimemente riconosciuto come figura centrale nel dibattito sulla relatività linguistica. Si tracceranno due percorsi storici che dalla prima metà dell’Ottocento conducono a Whorf: quello, più di frequente evocato, che da Herder e Humboldt passa, via Steinthal, a Boas e Sapir; un altro che tiene invece conto del ruolo di Fabre d’Olivet e della teosofia nella formazione delle idee di Whorf. Si esporranno poi le opinioni di quest’ultimo sulla relatività linguistica e sulla traduzione. Infine, si vedrà come esse siano state raccolte da alcuni teorici contemporanei e che ruolo possano avere per gli studi sulla traduzione.

2. Relatività linguistica e Romanticismo

L’elaborata discussione di Kant sulla natura dell’intelletto umano ignorava quasi completamente il ruolo del linguaggio, “come se la ricerca della dimensione del trascendentale, del fondativo, dell’universalmente umano garantisse di per sé l’influenza del linguaggio, o se l’assoluto andasse interpretato anche secondo la sua radice etimologica di ciò che è sciolto da ogni condizionamento” (Volli 1993:252). Ma già alcuni dei suoi contemporanei misero in discussione questa presunta alinguisticità dell’a-priori. Johann Georg Hamann, ad esempio, scrisse una Metacritica sul purismo della ragione (1784), in cui si criticava il disconoscimento kantiano di tutto ciò che è tradizione, sensualità, fede e del ruolo del linguaggio nel costituire tali aspetti fondamentali della natura umana. Questa linea di pensiero proseguirà con Herder, che pure scrisse una Metacritica alla critica della ragion pura (1798). Le argomentazioni di Hamann, spesso inclini al misticismo, in Herder diventano riflessioni di antropologia linguistica. La tesi di fondo è che il linguaggio costituisca “non solo uno strumento abituale della ragione, ma anche uno strumento indispensabile. Attraverso il linguaggio abbiamo imparato a pensare, per mezzo di esso separiamo le idee o le colleghiamo” (cit. in Brown 1967:64): il linguaggio, insomma, costituirebbe un a-priori importante sottovalutato da Kant.

Oltre a queste riflessioni sul ruolo del linguaggio nel pensiero umano, emerge in Herder il tema, tipicamente romantico, del legame tra lingua e ‘genio’ di un popolo o di una nazione [2]. In Herder la molteplicità e intraducibilità dei ‘geni linguistici’ non viene ridotta ad una mera constatazione, e tanto meno ad una gerarchia tra lingue migliori e peggiori, ma difesa come una delle più grandi ricchezze dell’umanità: “ogni libro è un’aiuola di fiori e frutti, ogni lingua uno sterminato giardino di piante e alberi, velenosi e salutari, succosi o aridi per l’occhio, l’olfatto e il gusto, alti o bassi, provenienti da ogni continente e dai mille colori, di molteplici specie e varietà: davvero un panorama degno di essere contemplato!” (Herder 1766-67; tr. it.:245). Non esiste una ‘lingua del pensiero’ pura, universale, a cui aspirare ed a partire dalla quale si possano criticare le manchevolezze delle lingue storico-naturali, ma ciascuno deve aderire fedelmente alla propria lingua nazionale, che ha formato il suo spirito individuale e che costituisce, per quel particolare individuo, l’unica e vera ‘lingua perfetta’: “siamo dunque tedeschi! Non perché la tedesca sia superiore a tutte le altre nazionalità, ma perché siamo tedeschi e non possiamo essere proprio nient’altro e possiamo contribuire all’umanità intera solo essendo tedeschi” (cit. in Fishman 1982: 12). Sono note le pagine dei Frammenti sulla letteratura tedesca più recente, in cui Herder traccia il ritratto dell’"autore nazionale”, che per essere veramente grande deve esprimersi necessariamente nella propria lingua materna: la polemica contro l’egemonia culturale del francese è evidente.

Herder, come molti suoi contemporanei romantici, rivendica quindi tutto il valore dell’individuale, del particolare, della diversità, compiendo in pratica un elogio di Babele: la diversità delle lingue ha portato ad una diversità delle visioni del mondo, e ciò è un bene. Sembrerebbe quindi avvalorare i due ‘fatti’ constatati dall’ipotesi della relatività linguistica: 1) le lingue sono molto diverse tra loro; 2) esse non sono dei semplici strumenti che si equivalgono, ma degli strumenti che condizionano le attività in cui sono coinvolti e le persone che li usano. Ma se da queste due premesse discende l’impossibilità della traduzione, Herder sarebbe da considerare un fautore dell’intraducibilità? Sempre nei Frammenti sulla letteratura tedesca più recente troviamo dei passi che sostengono sia l’intraducibilità che il contrario, addirittura la possibilità di una scienza universale dei segni. In un primo passo, Herder constata il rapporto tra lingua e genio del popolo, giungendo ad una sorta di rigido determinismo linguistico: se non parli una lingua poetica, non tentare di fare il poeta, se non parli una lingua filosofica, lascia perdere la filosofia.

Se il linguaggio è lo strumento delle scienze, allora è assurdo presumere che esista un popolo il quale senza una lingua poetica abbia avuto grandi poeti, senza una lingua esatta grandi filosofi. Provate a confutare la mia affermazione e a tradurre Omero in olandese senza tradirlo, o il lubrico Crébillon in lappone e Aristotele in una delle lingua primitive che non possiedono concetti astratti. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che in ogni campo delle scienze esistano pensieri e segni scritti del tutto intraducibili in questa o quell’altra lingua.” (Herder 1766-67; tr. it.:244)

Si noti che l’intraducibilità di certi “pensieri” riguarda le lingue: Herder dice che non si possono esprimere in una lingua certi pensieri espressi da un’altra, ma non sostiene che sia impossibile per un parlante apprendere una lingua diversa dalla propria, e con essa la relativa Weltanschauung, per uscire dalle ristrettezze in cui il suo idioma lo costringe [3]. Inoltre, Herder non afferma che tutti i pensieri e i segni siano intraducibili: poche pagine più avanti, nello stesso scritto, arriva anzi a parlare addirittura di una scienza universale dell’animo umano e del suo manifestarsi attraverso il linguaggio.

Esiste una simbolica che è comune a tutti gli uomini, una sorta di forziere in cui sono custodite le conoscenze che appartengono all’intero genere umano. Il vero filosofo del linguaggio, che io però ancora non conosco, possiede la chiave di questo oscuro forziere; quando giungerà il tempo della sua venuta, egli lo dissigillerà, lo illuminerà e ci mostrerà i tesori contenutivi. Una chiave siffatta sarebbe la semiotica, di cui finora, negli indici delle nostre enciclopedie filosofiche, troviamo registrato soltanto il mero nome: ovvero sarebbe l’arte di decifrare l’animo umano tramite il linguaggio. (Herder 1766-67; tr. it.:246)

Dunque per Herder sotto la grande - e benefica - diversità delle lingue esiste un sostrato comune, che resta tuttavia ancora sconosciuto. Il vero filosofo del linguaggio, usando come chiave una semiotica esistente al momento solo programmaticamente, potrà accedere anche a quest’altro tesoro, oltre a quello della diversità linguistica regalataci da Babele. Si nota dunque in Herder un’inversione di tendenza rispetto ad una concezione come quella kantiana o, per quanto riguarda il linguaggio, portorealista: ciò che è particolare, individuale, viene messo al centro, analizzato ed enfatizzato; ciò che è universale rimane sullo sfondo, evocato come qualcosa di oscuro”.

Un’altra grande figura del Romanticismo linguistico è quella di Wilhelm von Humboldt. Anche nel suo lavoro di filosofo del linguaggio la diversità delle lingue costituisce un tema centrale: la sua principale opera teorica, l’introduzione ad un monumentale lavoro sulla lingua kawi che può però essere considerata anche un saggio autonomo di linguistica, ha appunto come titolo La diversità di struttura delle lingue umane ed il suo influsso sullo sviluppo spirituale dell’umanità (Humboldt 1836). Comune ad Herder, ed alla tematica della relatività linguistica, è anche la constatazione che le lingue non sono semplici involucri per impacchettare pensieri preformati, ma l’elemento principale di strutturazione del pensiero stesso. Questo non è che uno tra i tanti passi indicativi di tale concezione. La reciproca dipendenza di pensiero e parola mostra chiaramente che le lingue non sono mezzi per la presentazione di una verità già nota, ma piuttosto per scoprire una verità in precedenza ignota. La loro diversità non è solo di suoni e di segni, ma una diversità di visioni del mondo. (Humboldt 1820; cit. in Stam 1980:245)

Anche Humboldt accetta dunque il secondo fatto su cui si basa l’ipotesi della relatività linguistica: le lingue sono dei veri e propri sistemi di riferimento per le “visioni del mondo” dei loro parlanti. E, si badi, è lo stesso Humboldt a dire che sono le lingue, non solo il linguaggio, ad esercitare questa influenza: il pensiero “non dipende solo dal linguaggio ma, fino a un certo grado, anche da ogni singola lingua” (Humboldt 1820; cit. in Di Cesare 1991:XLI). Viene approfondita da Humboldt anche la tematica herderiana della ‘benedizione di Babele’:

Le lingue rassomigliano nel loro insieme ad un prisma di cui ogni faccia mostra l’universo sotto un colore diversamente sfumato. (Humboldt 1812; cit. in Di Cesare 1991:XLII)
Poiché lo spirito che si rivela nel mondo non può essere conosciuto esaurientemente mediante una quantità data di prospettive, scoprendo ogni nuova prospettiva sempre alcunché di nuovo, così sarebbe meglio addirittura moltiplicare le diverse lingue tanto quanto lo consente il numero degli uomini che abitano la terra. (Humboldt 1806; cit. in Di Cesare 1991:XLII)

Questa immagine delle lingue come prismi riflettenti la realtà in modi diversi potrebbe condurre all’affermazione dell’impossibilità del tradurre: per quanto ci si sforzi di trovare delle immagini equivalenti, esse saranno comunque sempre diverse, essendo filtrate diversamente dai prismi delle due lingue. Humboldt lascia intendere qualcosa del genere quando afferma che

astraendo dalle espressioni designanti semplicemente oggetti fisici, nessuna parola di Una lingua è completamente uguale a una di un’altra lingua. Diverse lingue sono, sotto quest’aspetto, solo altrettante sinonimie: ognuna esprime il concetto un po’ diversamente, con questa o quella determinazione secondaria, un gradino più alto o più basso sulla scala delle sensazioni (Humboldt 1816, tr. it.:134).

Ma il passo continua con un’interessante professione di fede nella comparazione linguistica: se le lingue sono insiemi di sinonimi, simili ma mai identici, perché non tentarne una raccolta e sistematizzazione?

Una tale sinonimica delle lingue principali, pur limitata al greco, latino e tedesco (e proprio ciò sarebbe oltremodo gradito) non è stata ancora tentata, anche se in molti scrittori si trovano degli avvii, ma una trattazione intelligente ne farebbe un’opera quanto mai avvincente (ibid.).

L’impossibilità di una sovrapposizione ‘punto-per-punto’ delle parole e degli enunciati di due lingue non rende cioè vano il tentativo di un loro accostamento, di un dialogo interlinguistico. E’ infatti Humboldt a sottolineare l’aspetto di energheia, processo dialogico, del linguaggio, che passa in primo piano rispetto a quello di ergon, prodotto, sistema. Lo studio della lingua in quanto organo formatore del pensiero deve sempre partire dalla considerazione che il linguaggio nasce nel dialogo, nella prassi in cui due esseri umani vengono ad interagire (Humboldt 1836; tr. it.:43).

Questo aspetto di dialogicità viene ribadito da Humboldt quando suggerisce alcune vie di uscita alla possibile chiusura nei diversi “a-priori linguistici” (Gipper 1982). Una di esse consiste nel confronto con una lingua straniera.

Ogni lingua traccia intorno al popolo cui appartiene un cerchio da cui è possibile uscire solo passando, nel medesimo istante, nel cerchio di un’altra lingua. L’apprendimento di una lingua straniera dovrebbe essere pertanto l’acquisizione di una nuova prospettiva nella visione del mondo fino allora vigente … Solo perché in una lingua straniera si trasporta sempre, in misura maggiore o minore, la propria visione del mondo, anzi la visione della propria lingua, si ha la sensazione di non aver raggiunto un risultato pieno e assoluto. (Humboldt 1836; tr. it.:47)

Anche le traduzioni possono contribuire a far passare in altri ‘cerchi linguistici’, a far vedere la realtà attraverso altre lenti. L’opinione di Humboldt al riguardo è infatti che una traduzione debba produrre degli effetti di “straniamento” nei lettori: “La traduzione ha raggiunto i suoi alti fini se … fa sentire l’estraneo. … Si distrugge la funzione del tradurre ed ogni sua utilità per la lingua e la nazione se, per avverso timore dell’inconsueto, si arriva ad evitare anche l’estraneo” (Humboldt 1816, tr. it.:137) [4].

Come quella di Herder, tutta l’opera di Humboldt ruota, in volute talvolta liriche, talaltra convulse e sofferte, attorno a questo rapporto tra individuale, idiosincratico, incomunicabile, da una parte, e universale, comune e condivisibile dall’altra. Lo Spirito del linguaggio è uno, eppure esso si manifesta e può essere colto solo attraverso un processo di Entfremdung, di allontanamento, di moltiplicazione delle prospettive linguistiche. Ogni essere umano partecipa, attraverso la propria lingua, al Linguaggio nella sua universalità, ma se vuole avvicinarsi all’"essenza” del Linguaggio deve partecipare anche della sua natura multiforme, seguirlo nella sua differenziazione in molteplici idiomi. Allo stesso modo, avverte Humboldt, se il fatto di possedere tutti un’identica facoltà di linguaggio è ciò che permette la comunicazione interlinguistica, non bisogna nemmeno sottovalutare l’infinita diversità delle Weltansichten linguistiche. Come sintetizza De Mauro (1982:158), per Humboldt, “possedendo una lingua, si possiede una chiave per intendere tutte le altre, per attingere esperienze che scavalcano la diversità delle lingue”. La propria lingua madre sarebbe cioè il punto di accesso alla Lingua - al linguaggio - e la condivisione di questa facoltà universalmente umana (wittgensteinianamente, di questa “forma di vita") sarebbe ciò che permette agli uomini di comprendersi al di là delle differenze linguistiche.

Sia in Herder che in Humboldt si osserva così tanto un’appassionata difesa dell’individuale, della diversità, quanto una tensione verso ciò che è universale, l’"essenza” della lingua. Questo universale viene detto essere interno, profondo, ignoto, conoscibile con atti intuitivi olistici e non mediante un’analisi minuziosa. La formula Humboldtiana “infinita è la varietà di modi in cui l’identico può assumere forme diverse” condensa, nella sua natura paradossale, questa ineffabilità dell’universale, sempre indicato e mai descritto, vera e propria utopia linguistica.

Le idee di Herder e Humboldt furono ben presenti a tutti i linguisti tedeschi dell’Ottocento, anche se le ricerche comparativistiche e storiche suscitate dalla scoperta dell’indoeuropeo orientarono la discussione su un piano piuttosto diverso. Attraverso Steinthal (il curatore delle opere Humboldtiane), tali idee furono conosciute da Franz Boas, un tedesco poi emigrato negli Stati Uniti, e dal suo allievo Sapir, anch’egli di origine tedesca. Come dice Steiner (1992, tr. it.: 118), “si può riassumere questa storia [il passaggio Humboldt, Boas, Sapir] come un tentativo di fornire alle intuizioni di Humboldt una solida base di dati semantici e antropologici”. Il passaggio da Sapir a Whorf, poi, è più che noto. Ma prima di passare ad un esame delle idee Whorfiane in merito ai problemi della traduzione sarà opportuno considerare un altro elemento della vicenda: Antoine Fabre d’Olivet. Carroll (1956), nella sua biografia di Whorf, narra come Fabre d’Olivet abbia rappresentato il suo primo incontro con lo studio delle lingue e Whorf stesso, in alcuni suoi scritti (Whorf 1956; tr. it.:60-62), non manca di riconoscere il suo debito intellettuale verso Fabre; pare invece che né Herder, né Humboldt figurino tra le sue letture (Mounin 1963, tr. it.:89). Tuttavia, i resoconti storici dell’ipotesi della relatività linguistica (ad es. Miller 1968; Stam 1980; Schlesinger 1991) menzionano sempre gli autori tedeschi del Sette - Ottocento ma mai, se non di passaggio, Fabre d’Olivet. Per comprendere Whorf, e la sua discussione sulla relatività e traducibilità delle lingue, però, è indispensabile presentare almeno di sfuggita questo suo predecessore ed ispiratore.

3. Fabre d’Olivet

Antoine Fabre d’Olivet (1767 - 1825) nacque lo stesso anno di Wilhelm von Humboldt [5]. Dopo avere composto alcune raccolte di poesie e melodrammi, decise di dedicarsi esclusivamente allo studio della storia, ma con un approccio sostanzialmente mistico-teosofico: la sua idea di fondo era che tutta l’evoluzione dell’umanità fosse la manifestazione di un principio unitario, una sorta di Spirito tipicamente romantico ("presentii allora l’esistenza di una grande Unità, fonte eterna da cui tutto proviene”; Fabre d’Olivet 1824; cit. in Cellier 1953:122).

Nel 1805 inizia a comporre quella che considerò sempre la sua opera principale: La langue Hebraïque Restituée (1815), un volume di quasi mille pagine diviso in tre parti. Nella prima, vengono esposti i principi generali della nuova “scienza del segno” proposta da Fabre: si tratta di una versione del fonosimbolismo, che assegna ad ogni “carattere” un significato. Nella seconda parte, munito di questa tavola dei significati dei caratteri ebraici, Fabre compila un vero e proprio dizionario ebraico: le radici delle parole, quasi tutte bisillabe, vengono ‘spiegate’ una ad una mediante l’applicazione dei principi fonosimbolici. Nella terza parte, infine, Fabre applica il suo vocabolario ai primi dieci capitoli della Genesi, dandone la vera e “spirituale” interpretazione-traduzione.

La langue Hebraïque Restituée rappresenta una delle più grandi utopie nel campo della traduzione: l’idea che con una manciata di primitivi, allo stesso tempo semantici e fonetici, si possa esprimere qualunque significato. Certo, occorre qualche qualificazione. I significati, innanzitutto, non possono essere ‘prosaici’: perché le ‘traduzioni’ dal suono al senso diano i risultati desiderati è necessario non pretendere una versione troppo letterale. E’ ciò che fa Fabre nella sua traduzione della Genesi: se i ‘significati’ dei caratteri ebraici, applicati alle parole del testo biblico, avessero prodotto una versione letterale, si sarebbe avuta una normale traduzione come già ne esistevano. Ma per Fabre occorre “restituire”, “svelare” il senso della Genesi, con una traduzione che produca qualcosa di assai più “spirituale” del testo che tutti conosciamo. Un esempio sarà sufficiente per capire in che modo procedesse Fabre d’Olivet.

La Genesi inizia con due frasi, che la Conferenza Episcopale Italiana ha così tradotto:

In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. (Gen 1, 1-2)

Fabre, applicando ai caratteri ebraici che compongono queste frasi il suo metodo, produce una traduzione come la seguente.

Premièrement-en-principe, il-créa, Aelohim (il détermina en existence potentielle, lui-les-Dieux, l’Etre-des-êtres), l’ipséité-des-cieux et-l’ipséité-de-la-terre. Et-la-terre existait puissance-contingente-d’être: et l’obscurité (force compressive et durcissante)-était sur-la-face de-l’abîme (puissance universelle et contingente d’être); et-le-souffle de-lui-les Dieux (force expansive et dilatante) était-générativement-mouvant sur-la-face des-eaux (passivité universelle).

Traduzione-commento, come si vede, che Fabre però non riconosce come tale: per lui si tratta della pura e semplice “restituzione” del significato “profondo” della Cosmogonia di Mosè, quale era stata originariamente concepita dal teosofo ebreo allevato alla corte del faraone ed iniziato a tutti i misteri dei sacerdoti di Iside.

Il metodo di Fabre potrebbe fare pensare alla Cabala: produrre significati mistici dalla combinazione delle lettere della Bibbia. In realtà, le intenzioni di Fabre erano piuttosto diverse: da erudito, savant settecentesco in ritardo, egli si proponeva un metodo scientifico di studio e traduzione delle lingue, che unisse le teorie fonosimbolistiche (e le fantasiose pratiche etimologiche) di un Court de Gébelin o un De Brosses ad una nascente attenzione alle peculiarità delle lingue non indoeuropee, attenzione che portava ad un abbandono della grammatica del latino come paradigma unico della descrizione linguistica. Fabre applicò infatti il suo “metodo” anche alla lingua d’oc, di cui era parlante nativo e studioso, e, in modo sporadico ed esemplificativo, al francese.

E’ proprio nelle applicazioni al francese che si nota un secondo aspetto importante della pratica ermeneutica di Fabre: non sempre i fonemi che compongono una parola sono quelli che esprimono il suo significato, ma possono essere intervenute nei secoli delle modificazioni che hanno portato la parola originaria, perfetta nel suo esprimere un significato con i suoni ‘giusti’, a modificarsi o fondersi con altre [6]. Con le sue analisi Fabre vuole mostrare che ogni parola significa ciò che significa perché la sua forma fonica (quella originaria, opportunamente ricostruita con un po’ di etimologie) è la somma di determinate figure dell’espressione / figure del contenuto. Queste figure minime, primitive, dell’espressione e del contenuto insieme, sono dette da Fabre “segni” e non sono in numero maggiore delle lettere di un alfabeto. Esse sono dotate di una particolare “potenza”, e si capisce anche perché: munito di esse, chiunque potrebbe decifrare qualunque lingua sconosciuta, almeno traducendone i significati “profondi” e “spirituali”, che sono comunque ciò che più interessa ad un teosofo come Fabre. Questi “segni” sono la manifestazione originaria del “principio della Parola”, da cui rampollano tutte le lingue umane. Fabre ha già abbandonato le speculazioni settecentesche sulla presunta lingua primitiva, e partecipa invece delle idee ottocentesche sullo Spirito, l’Essenza, il Principio del linguaggio, che abbiamo già incontrato in Humboldt: l’ebraico non è la lingua primitiva, ma solo una lingua molto antica e vicina al “principio della Parola”, in cui la forma fonica delle parole indica quasi sempre anche la loro costituzione in “segni”, e cioè il loro significato. Il lavoro del filologo consiste quindi nel trovare nelle lingue, al di sotto della loro diversità apparente, i germi del “principio della Parola”, i significati profondi ed universali.

E’ incontrando questa teoria della traduzione e interpretazione delle lingue che Whorf inizia a vedere una soluzione ai problemi che gli si erano posti sino ad allora, e in particolare a quello che più gli stava a cuore: come conciliare scienza e religione [7]. Scienza e religione si esprimono attraverso il linguaggio: se il linguaggio ha un’unità profonda di significati, al di sotto dell’apparente eterogeneità dei diversi codici, dovrebbe essere possibile trovare, sempre ad un livello profondo, un’identità di vedute tra il linguaggio scientifico e quello teologico. Per il teosofo, non dimentichiamolo, la Verità è una, e la religione e la scienza non sono che due vie per avvicinarla: lo studio delle lingue, della loro interpretazione e del loro ruolo nella nostra visione del mondo, da secoli un interesse comune di filosofi della scienza e della religione, promette di essere un luogo importante in cui scoprire questa unitarietà profonda.

4. Benjamin Lee Whorf

I primi approcci di Whorf allo studio del linguaggio, dunque, sono costituiti dalla lettura di un testo sulla traduzione della Bibbia, che promette di rivelarne il “vero” significato [8]. Anche il primo tentativo da parte di Whorf di ricevere una sovvenzione per condurre degli studi linguistici, nel 1929, fu un progetto in cui si sentivano ancora forti gli echi di Fabre d’Olivet:

Con l’ausilio di questa borsa di ricerca, se possibile ho in progetto di compiere e pubblicare lavori sulla linguistica messicana sufficienti a rendere il principio dell’oligosintesi un argomento di attualità e ad interessare altri ricercatori al sostrato linguistico fondamentale di cui fa parte.
Il passo successivo consisterà nell’usare questi princìpi per sviluppare il fondamento primitivo sottostante a tutto il comportamento linguistico. … E con lo sviluppo ultimo di queste ricerche diverrà manifesto il più profondo significato psicologico, simbolico e filosofico contenuto nella cosmologia della Bibbia, che costituisce il punto di partenza e l’ispirazione originaria di questi studi. …
L’oligosintesi è il nome di quel tipo di struttura linguistica in cui tutto o quasi tutto il vocabolario può essere ridotto ad un numero esiguo di radici o elementi significanti … Quasi tutto e probabilmente tutto il vocabolario nahuatl attualmente conosciuto deriva dalla diversa combinazione e dal diverso sviluppo semantico di non più di trentacinque radici, per le quali chi scrive preferisce il termini “elementi”, ciascuno dei quali elementi indica una determinata idea generale, compreso qualcosa del circostante campo di idee affini in cui questa idea centrale sfuma insensibilmente. (Whorf 1956; tr. it.:6-7)

Whorf, non diversamente da Fabre d’Olivet, è alla ricerca di un Principio della Parola, ed è convinto che esso si manifesti in un numero ristretto di primitivi fonico-semantici. Nel suo ultimo articolo pubblicato - non a caso su una rivista chiamata The Theosophist - Whorf mostra di non avere mai abbandonato la ricerca del “fondamento primitivo sottostante a tutto il comportamento linguistico” e di ogni altro comportamento umano.

Uno dei futuri passi importanti della scienza occidentale è il riesame del retroterra linguistico del suo pensiero e addirittura di tutto il pensiero. … Questa idea è troppo drastica per poter essere rinchiusa in una formula e la lascerò piuttosto indeterminata. E’ l’idea che tutte le scienze saranno unificate da un mondo noumenico, da un iperspazio di più alte dimensioni, che attende di essere scoperto sotto il primo aspetto di regno di relazioni strutturate, inconcepibilmente molteplice, eppure dotato di una riconoscibile affinità con la ricca e sistematica organizzazione del linguaggio. (Whorf 1956; tr. it.: 207; primo corsivo aggiunto).

Queste affermazioni paiono molto strane sulle labbra del “più celebrato relativista del secolo” (Lakoff 1987). Esse però non rappresentano una svista, o una concessione retorica, ma sono in linea con tutta una serie di altri passi Whorfiani, passi che quasi mai sono stati collegati per mostrare quali fossero i motivi che ispirarono Whorf a formulare il suo “principio di relatività linguistica” [9]. Per illustrare meglio questo punto prenderemo ora in esame un articolo di Whorf in cui egli espone anche, a grandi linee ma nel modo più completo che sia rinvenibile nei suoi scritti, un programma di teoria della traduzione. Si tratta di “Gestalt techniques of stem composition in Shawnee”, composto nel 1939 e apparso nel 1940 [10].

Lo scopo del lavoro è di mostrare come sia possibile descrivere la grammatica di una lingua ‘esotica’ come lo shawnee. Per Whorf, i linguisti hanno studiato le lingue indoeuropee così a lungo da avere “generalizzato le loro sequenze più tipiche e gli effetti semantici che ne conseguono in formule generali quali soggetto e predicato, attore, azione, scopo, attributo e testa” (Whorf 1956:160). Queste categorie analitiche si dimostrano però inefficaci, se non addirittura fuorvianti, quando vengono applicate a lingue non indoeuropee. In questi casi occorre trovare un modo di descrizione che non sia legato ad alcuna lingua particolare e che possa allo stesso tempo permettere di rendere le costruzioni di un dato idioma comprensibili anche ai parlanti di altre lingue: secondo Whorf, quindi,

il nostro problema è determinare come lingue diverse isolino diversi elementi essenziali a partire dalla stessa situazione … Per confrontare i modi in cui lingue diverse ‘segmentano’ diversamente la stessa situazione o esperienza, è desiderabile essere in grado di analizzare o ‘segmentare’ preliminarmente l’esperienza in un modo indipendente da qualsiasi lingua o repertorio linguistico, un modo che sia lo stesso per tutti gli osservatori” (Whorf, 1956: 162)

Whorf scarta, come possibili candidati per un simile metalinguaggio descrittivo, le categorie della grammatica tradizionale latina (come già avevano fatto Boas e, prima di lui, Humboldt e Fabre d’Olivet) e “termini familiari che vanno dal senso comune al semi-scientifico, che cerchino di suddividere la situazione in ‘cose, oggetti, azioni, sostanze, entità, eventi’” (ibid.). Per l’elaborazione di un metalinguaggio neutro Whorf si rivolge alla psicologia, e in particolare a quella della Gestalt:

Una scoperta fatta dalla moderna psicologia configurativa o della Gestalt ci offre un canone di riferimento per tutti gli osservatori, indipendentemente dalle loro lingue o gerghi scientifici … Questa è la scoperta che la percezione visiva è sostanzialmente la stessa per tutte le persone normali dopo l’infanzia ed è conforme a delle leggi definite, molte delle quali sono abbastanza ben conosciute. (Whorf 1956: 163)

Tra queste leggi, Whorf discute in modo più approfondito la distinzione figura-sfondo: secondo lui, “c’è una cosa su cui concorderanno tutti gli osservatori dell’apparizione di un ragazzo che corre”, ed è che la situazione è divisibile in una figura in movimento contro uno sfondo fisso. Un’altra distinzione fondamentale ed universale è per Whorf quella tra “campo esterno” e “campo egoico”: il primo riguarda la percezione visiva, il secondo quella non visiva. Anche “il campo egoico ha le sue leggi Gestaltiche di qualità sensoriale, ritmo ecc. che sono universali” (Whorf 1956:164).

Certo, sembrerebbe un punto di partenza solido ma anche un po’ troppo generale/generico per la ricerca di universali percettivi (e di conseguenza metalinguistici). Eppure, armato di queste poche categorie, Whorf tenta di dare una descrizione delle regole sintattiche che governano l’ordine delle parole in shawnee. In questa lingua, esisterebbe una regola generalissima per cui “la figura precede lo sfondo esterno, il più figurale precede il meno figurale, ma il campo egoico precede generalmente tutte queste categorie” (Whorf 1956:166), con una sola eccezione, rappresentata da “una radice speciale di figura vaga” la quale precede tutte le altre classi di radici.

Per i nostri scopi poco importa sapere se questa descrizione della sintassi shawnee sia corretta o meno: ciò che importa, per comprendere il presunto ‘padre di tutti i relativisti’, è il suo tentativo di fornire un “principio di classificazione dei referenti non-linguistico e non-semantico nel senso ordinario di semantico” (Whorf 1956:164). Infatti, spiega Whorf, “un isolato di esperienza [an isolate of experience] nel campo esterno o in quello egoico, cioè una forma o un rumore, non è un significato” (ibid.). Whorf è dunque convinto di avere rotto il cerchio linguistico in cui, secondo Humboldt, siamo tutti prigionieri: il nostro destino non è quindi solo quello di passare da un cerchio linguistico ad un altro, ma possiamo anche tentare di “classificare i referenti” in modo indipendente dal linguaggio, seguendo quelle leggi percettive “universali” che i Gestaltisti hanno messo in luce.

In questo quadro di ricerca di universali non linguistici per la descrizione e traduzione delle lingue sembra difficile trovare il posto per un principio di relatività. Tuttavia Whorf, come Herder e Humboldt, manifesta una tensione tra la ricerca di ciò che è comune e l’enfasi verso ciò che è particolare, che appare nella stessa formulazione del “principio di relatività linguistica”. E’ esaminando l’articolo in cui tale principio viene enunciato che cercheremo di vedere come ricerca di universali e principio di relatività possano coesistere nel pensiero di uno stesso autore. L’articolo verrà visto nel suo complesso, seguendone da vicino i passaggi: troppo spesso, infatti, Whorf viene citato a brevi frasi che rappresentano come degli slogan decontestualizzati. Il saggio che discuteremo è comunque proprio quello da cui provengono molti di questi brani ‘classici’: si tratta di “Scienza e linguistica”, scritto e pubblicato nel 1940 sulla Technology Review del M.I.T. e destinato quindi ad un pubblico generale di non linguisti.

Whorf inizia con un’esposizione ironica di quella che l’uomo comune chiama “logica naturale”, una sorta di senso comune. Secondo la logica naturale, “il parlare, o l’uso del linguaggio, ‘esprime’ soltanto ciò che è già essenzialmente formulato in maniera non linguistica. La formulazione è un processo indipendente, chiamato pensiero o pensare, ritenuto in larga misura indipendente dalla natura delle lingue particolari” (Whorf 1956; tr. it.:163). Sempre secondo la “logica naturale”, “lingue diverse sono essenzialmente metodi paralleli per esprimere questa unica e identica razionalità del pensiero e, quindi, esse differiscono solo per particolari secondari” (Whorf 1956; tr. it.:164). Secondo Whorf, tutto ciò appariva plausibile fintanto che tali idee venivano formulate tra parlanti della stessa lingua, o di lingue appartenenti comunque allo stesso ceppo indo-europeo: in qualche modo, afferma Whorf, si riusciva sempre a “raggiungere un accordo”. Whorf fa a questo punto un esempio dal sapore wittgensteiniano: immaginiamo un popolo che, per qualche “difetto fisiologico”, possa vedere soltanto il blu [11]. Queste persone “non sarebbe[ro] in grado di formulare la regola che essi vedono solo il blu” (Whorf 1956; tr. it.:165). Le loro espressioni denotanti diversi tipi di blu servirebbero a tradurre i nostri ‘chiaro’, ‘scuro’, ‘bianco’, ‘nero’, ma non i termini cromatici. Insomma, dice Whorf,

non avendo mai sperimentato nulla in contrasto con [la regola], non possiamo isolarla e formularla come regola, fintanto che non allarghiamo la nostra esperienza e la nostra base di confronto tanto da incontrare un’interruzione della sua regolarità. (Whorf 1956; tr. it.:165).

Quando i linguisti hanno avuto a che fare con lingue radicalmente diverse da quelle indoeuropee, così prosegue la storia, “hanno avuto esperienza della interruzione di fenomeni fino allora ritenuti universali, e un nuovo ordine di significati è venuto alla loro portata” (Whorf 1956; tr. it.:169). Si sono così resi conto che il linguaggio non costituisce solo un mezzo di espressione per pensieri preformati, ma che

esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida dell’attività mentale dell’individuo … Il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti, il che vuol dire che deve essere organizzato in larga misura dal sistema linguistico delle nostre menti. Sezioniamo la natura, la organizziamo in concetti e le diamo determinati significati, in larga misura perché siamo partecipi di un accordo per organizzarla in questo modo, un accordo che vige in tutta la nostra comunità linguistica ed è codificato nelle configurazioni della nostra lingua. L’accordo è naturalmente implicito e non formulato, ma i suoi termini sono assolutamente tassativi; non possiamo parlare affatto se non accettiamo l’organizzazione e la classificazione dei dati che questo accordo stipula.
Questo fatto è molto importante per la scienza moderna, perché significa che nessun individuo è libero di descrivere la natura con assoluta imparzialità, ma è costretto a certi modi di interpretazione, anche quando si ritiene completamente libero. La persona più libera [most nearly free] da questo punto di vista sarebbe un linguista che avesse familiarità con moltissimi sistemi linguistici assai differenti. Ma ancora nessun linguista è in questa posizione. Siamo così indotti a un nuovo principio di relatività, secondo cui diversi osservatori non sono condotti degli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, o non possano essere in qualche modo tarati” (Whorf 1956; tr. it.: 169-170)

Il passo è stato riportato integralmente perché ci sembra importante rendere nel loro contesto le numerose frasi che da esso sono state più volte estratte separatamente. Se prese nel loro insieme, infatti, queste frasi mostrano tutta la tensione Whorfiana tra relatività linguistica e aspirazione all’universale, tra intraducibilità e suo superamento. Il brano inizia con l’enunciazione del determinismo linguistico, l’idea che ciò che chiamiamo ‘pensiero’ sia condizionato dal linguaggio. Questo determinismo tuttavia non è assoluto: il “flusso di sensazioni” viene organizzato “in larga misura” dal sistema linguistico mentale; restano ad esempio, al di fuori di tale “misura”, le generalissime leggi della Gestalt di cui si è parlato [12]. Ma si noti un parallelo: anche nell’esposizione della “logica naturale”, all’inizio dell’articolo, Whorf usa il qualificatore “in larga misura”, quando dice che, secondo tale logica, il pensiero è “ritenuto in larga misura indipendente dalla natura delle lingue particolari” (Whorf 1956; tr. it.:163). La differenza tra la posizione Whorfiana e quella del suo ipotetico antagonista non è di tipo assoluto, sì/no, ma una questione di grado: per uno il pensiero è in larga misura condizionato dal linguaggio, per l’altro ne è in larga misura libero [13]. In questi termini, l’opposizione è tra determinismo linguistico forte o debole, non tra determinismo e anti-determinismo; tuttavia, dire che Whorf era un sostenitore del ‘determinismo linguistico forte’ non corrisponde ancora a nulla di concreto, ma può essere solo la constatazione del suo uso di qualche espressione un po’ enfatica, specie in articoli divulgativi come quello che stiamo esaminando. Whorf insomma, come Herder o Humboldt, si distinguerebbe da altri per l’insistenza, l’enfasi particolare che impiega nel farci notare il ruolo del linguaggio nel costituire la nostra “visione del mondo”.

Si è notato che Humboldt sosteneva non solo l’influenza del linguaggio, in generale, ma anche delle singole lingue sullo “sviluppo spirituale dell’umanità”. Il “principio di relatività” Whorfiano cerca di dare conto, in termini più moderni, di questo stesso problema, del modo in cui lingue diverse possono condizionare la visione del mondo dei parlanti. Whorf solleva il problema e lo porta all’attenzione dei lettori che sarebbero inclinati invece a sottovalutarlo, ma non lo dichiara insolubile. Anzi, assieme alla formulazione del “principio”, Whorf presenta anche delle possibili vie di uscita alla relatività degli a-priori linguistici. Si noti infatti dove viene collocata l’enunciazione del “principio” nel contesto della discussione: viene dapprima affermato che “nessun individuo è libero di descrivere la natura con assoluta imparzialità” (un’affermazione che difficilmente verrebbe negata anche da un anti-relativista o seguace della “logica naturale"); si indica poi chi potrebbe essere “più” libero o “quasi” libero [most nearly free] da questa parzialità di vedute - il linguista poliglotta; e solo a questo punto viene enunciato il “principio di relatività”, con le indicazioni che ne chiariscono i limiti e ne indicano le possibilità di superamento: le immagini dell’universo sono diverse solo nei casi in cui i retroterra linguistici degli osservatori non siano “simili” o non possano essere “in qualche modo tarati”.

Nella stessa formulazione del principio di relatività linguistica è quindi insito anche tutto un programma per il suo superamento: la ricerca di similitudini translinguistiche e l’elaborazione di strategie per la taratura dei sistemi linguistici in modo da renderli mutualmente accessibili; in breve, un programma di ricerca in linguistica comparata e teoria della traduzione. Che Whorf credesse realmente nella possibilità di un simile programma appare evidente dai suoi primi progetti di ricerca sugli universali linguistici, dall’articolo sulla traduzione delle radici shawnee, dai suoi tentativi di stendere uno “schema e bozza di sistematizzazione” per la raccolta ed il confronto dei dati di qualsiasi lingua (Whorf 1956; tr. it.:233-243), dalla prefazione ad uno dei suoi ultimi progetti di ricerca, in cui sostiene che “nel descrivere le differenze tra [le lingue] … dobbiamo avere un modo di descrivere i fenomeni secondo standard nonlinguistici, e con termini che si riferiscano all’esperienza quale deve essere per tutti gli esseri umani, indipendentemente dalle loro lingue e filosofie” (Whorf, “Report on Linguistic Research in the Department of Anthropology of Yale University”, 1938, cit. in Lucy 1985:79) [14]. Solo la sua morte prematura gli ha impedito di proseguire questo programma di ricerca.

Nella conclusione dell’articolo esaminato si capisce anche perché un ricercatore di universali, un sostenitore della possibilità e del dovere di tradurre ed imparare le lingue straniere, sia giunto a formulare il principio di relatività linguistica.

Un contributo importante che potrebbe derivare alla scienza dal punto di vista linguistico potrebbe essere il maggiore sviluppo del nostro senso della prospettiva. Non saremmo più capaci di considerare pochi recenti dialetti della famiglia indoeuropea, e le tecniche di razionalizzazione elaborate a partire dalle loro strutture, come l’apice dell’evoluzione della mente umana, né la loro attuale diffusione come dovuta alla sopravvivenza del migliore e non invece a pochi eventi storici, eventi che possono essere chiamati fortunati solo dal limitato punto di vista di quelli che ci hanno guadagnato. Non possiamo più ritenere che queste lingue, e con esse i nostri processi di pensiero, spazino per tutta la gamma della ragione e della conoscenza, ma dobbiamo renderci conto che sono solo una costellazione in una estensione galattica … Ma né questa sensazione, né il senso di precaria dipendenza di tutto quel che sappiamo da strumenti linguistici che sono essi stessi largamente sconosciuti, deve scoraggiare la scienza; deve piuttosto accrescere quell’umiltà che accompagna il vero spirito scientifico, e impedire così quell’arroganza dello spirito contraria al disinteresse [detachment] e alla curiosità della vera scienza. (Whorf 1956; tr. it.: 175-176)

Whorf credeva al “vero spirito scientifico” e al disinteresse (ma l’inglese detachment rende meglio l’idea di distacco, di ‘purezza’, a cui pensava Whorf) della “vera scienza”. Ed è proprio per questo che ha formulato il “principio” e lo ha difeso in quel modo a volte così enfatico da prestare il fianco alle facili critiche degli anti-relativisti. Come il principio di relatività di Einstein non consiste nel constatare con rassegnazione scettica che la meccanica classica e la fisica dei campi elettromagnetici sono intraducibili, ma rappresenta al contrario un tentativo di trovare una visione comune che le ricomprenda, così il principio di relatività Whorfiano non ha come conseguenza l’irrimediabile chiusura di ciascuno nel proprio universo linguistico, ma è lo stimolo a riconoscere questa (parziale) chiusura come un dato di fatto ed a cercare di superarla avendo chiaro ciò in cui essa consiste [15].

Così inteso il principio di relatività linguistica, si capisce anche meglio perché Whorf non abbia mai sostenuto l’impossibilità della traduzione, ma abbia in realtà solo messo in evidenza le difficoltà, o meglio, ulteriori difficoltà e l’importanza di queste difficoltà, insite nella pratica traduttoria. Per Whorf la traduzione è possibile, ma certo difficile e delicata; ne è testimone un passo come il seguente.

Per descrivere la struttura dell’universo secondo gli Hopi, è necessario tentare, per quanto è possibile, di rendere esplicita questa metafisica, che a rigore può essere descritta soltanto in lingua hopi, cercando di fornire un’approssimazione, sia pure inadeguata, servendoci di quei concetti che noi abbiamo elaborato e che sono abbastanza simili al sistema su cui si basa la concezione hopi dell’universo” (Whorf 1956; tr. it.:42; corsivo aggiunto).

Si noti ancora una volta il ricorso alla “similitudine”, già invocata nella formulazione del principio di relatività linguistica: la “metafisica” hopi, il loro modo di vedere il mondo, non è aproblematicamente trasferibile in inglese - questo sarebbe il modo in cui gli antropologi prima di Boas consideravano i ‘selvaggi’ e le loro lingue, mettendoli a confronto con il parametro presunto universale costituito dalla loro cultura e dalle loro grammatiche. C’è invece in Whorf una tensione, uno sforzo, testimoniati anche dalla sintassi involuta di questo periodo, di esprimere in inglese ciò che vedono gli hopi (e che dice di intravvedere anche lui, avendone appresa la lingua), ma non troviamo una professione scettica sull’inaccessibilità dei mondi di pensiero di altre culture: Whorf “tenta”, “per quanto possibile”, di fornire un’"approssimazione sia pure inadeguata” della visione del mondo hopi, facendo ricorso a concetti inglesi che sono “abbastanza simili” ad essa. Le “immagini dell’universo”, linguisticamente condizionate, degli osservatori hopi e inglesi, in linea con il “principio di relatività linguistica” sono diverse, ma sotto certi aspetti sono anche “simili” e “possono essere in qualche modo tarate”. Nelle pagine successive a questo passo, infatti, Whorf cerca di spiegare al lettore di lingua inglese/indoeuropea come gli hopi vedono il mondo, attraverso una quantità di esempi rimasti poi celebri.

La formulazione del principio di relatività linguistica da parte di Whorf, quindi, non rappresenta affatto un tentativo di negare la possibilità di tradurre, di sancire in modo irrevocabile una chiusura degli individui e dei popoli all’interno dei cerchi che le lingue tracciano attorno a loro, ma l’esatto contrario. Whorf voleva comprendere gli hopi e voleva che essi fossero compresi dai suoi lettori, ma voleva che questa comprensione fosse quella vera, che non fosse una semplice proiezione di categorie interpretative dell’"uomo bianco”, il quale, in virtù della sua superiorità economica, pretende di imporre il suo punto di vista come se fosse assoluto [16]. Non dimentichiamo che la preoccupazione che spinse Whorf ad occuparsi di linguistica era nientemeno che scoprire la Verità, rivelata nella Bibbia e nella creazione, ed egli si gettò in questa impresa con passione da fondamentalista religioso. Il principio di relatività linguistica serviva a demolire le certezze di tutti coloro che credevano di avere la verità a portata di mano solo perché la loro voce si imponeva su quella di altri più deboli.

Da questo punto di vista Whorf, in linea con Herder, Humboldt e quanti altri abbiano sollevato il problema della non neutralità dello sguardo degli osservatori europei, si è preoccupato della traduzione, dei suoi limiti e delle sue possibilità di successo, molto più di tanti universalisti dichiarati che, dietro l’ideologia del ‘in fondo siamo tutti uguali, una lingua vale l’altra’, procedevano ‘traducendo’ le visioni del mondo altrui incorporandole in realtà nella propria. Per Whorf, invece, per poter dire che due osservatori parlanti lingue molto diverse vedono la “stessa situazione” allo stesso modo - che hanno cioè raggiunto un vero accordo, non che uno ha sopraffatto l’altro - occorre un lungo lavoro di “taratura” dei loro “retroterra linguistici”, un paziente ma fruttuoso percorso di Entfremdung in cui ognuno, cercando di ricostruire l’apriori linguistico dell’altro, arricchisce allo stesso tempo se stesso di un nuovo modo di comprendere la realtà.

Il popolo che vede solo il blu non soltanto è limitato nella visione della realtà, ma non si rende nemmeno conto di esserlo (socraticamente, non sa di non sapere): secondo Whorf, “per poter formulare la regola o norma di vedere solo il blu, avrebbero bisogno di momenti eccezionali in cui vedessero gli altri colori” (Whorf 1956; tr. it.:165). Se l’impedimento alla vista, invece di un difetto fisiologico, fosse il parlare una certa lingua, allora l’occasione di vedere colori diversi potrebbe essere costituita dal comprendere altre lingue che offrono diverse visioni della realtà. Viene così riaffermata da Whorf l’idea Humboldtiana che le lingue costituiscano tanti “prismi” ciascuno riflettente la realtà a suo modo e che per comprendere la realtà stessa occorrerebbe essere in grado di vederla attraverso quanti più prismi possibile. E ritorna in Whorf anche un’altra idea tipicamente romantica, che abbiamo visto essere sostenuta sia da Humboldt che da Fabre d’Olivet, quella che è solo attraverso lo straniamento linguistico (consistente nell’analisi, comprensione, e quindi traduzione, di altre lingue) e la moltiplicazione delle prospettive che si coglie l’unitarietà del genere umano:

La comprensione scientifica di lingue molto diverse, non necessariamente il parlarle, ma l’analizzarne la struttura, è una lezione di fratellanza che è la fratellanza del principio umano universale, la fratellanza dei ‘figli di Mana’. Essa ci permette di trascendere i limiti delle culture locali, delle nazionalità, le particolarità fisiche chiamate ‘razza’, e di trovare che nei loro sistemi linguistici, per quanto largamente essi differiscano, nel loro ordine, nella loro armonia e nella loro bellezza, nella loro sottigliezza e nella loro penetrante analisi della realtà, tutti gli uomini sono uguali (Whorf 1956; tr. it.: 224).

Troviamo qui l’espressione di ciò che Fishman (1982) chiama “Whorfismo del terzo tipo”. I primi due tipi di ipotesi Whorfiane, il determinismo linguistico e la relatività delle lingue, sono state sopravvalutate a danno di quest’ultima, di carattere più etico e, secondo Fishman, più importante sia per Whorf che per noi che lo leggiamo oggi. Whorf, riprendendo le idee dei romantici, può essere considerato uno dei “padri del bilinguismo positivo” (Fishman 1978), cioè dell’idea che la molteplicità delle lingue proprio perché induce ad una molteplicità di prospettive sul mondo (e non nonostante ciò) sia un bene tanto per il singolo individuo che per l’umanità. Una molteplicità benefica, quindi, che permette agli esseri umani di scoprire chi sono e che non conduce ad una loro chiusura negli universi linguistici, ma li porta semmai ad avvicinarsi a quella “lingua pura”, essenziale e universale di cui parla Benjamin (1923). Ma per giungere alla lingua pura, alla vera comprensione degli uomini e tra gli uomini, Whorf non ammette scorciatoie: è solo attraverso un’applicazione rigorosa del principio di relatività linguistica che si riuscirà a squarciare “il velo di Maya, l’illusione fondata su un incallito egocentrismo” (Whorf 1956; tr. it.:222). L’egocentrismo, il solipsismo e l’incomunicabilità sono dei dati di fatto che il principio di relatività linguistica constata e si propone di superare, non sono le sue conseguenze.

Whorf ha quindi messo in evidenza la chiusura dei suoi contemporanei nei loro apriori linguistici, avvertendoli che certi ‘effetti di unanimità’ sono in realtà il risultato di una mancanza di dialogo, e queste preoccupazioni Whorfiane hanno certamente reso i traduttori “più vigili e più agguerriti” (Mounin 1963; tr. it.:118). Tuttavia l’eredità di Whorf per quanto riguarda la teoria della traduzione non consiste solo in questa sollecitazione a prendere sul serio il problema del confronto tra punti di vista linguisticamente determinati: come si è mostrato, Whorf ha lanciato anche il programma di una ‘teoria generale della relatività linguistica” che, analogamente a quella Einsteiniana, avrebbe dovuto fornire un quadro analitico per il confronto di tutte le lingue umane. Vedremo ora come questa eredità sia stata raccolta da due autori contemporanei [17].

5. Il metalinguaggio universale

Non c’è alcun dubbio sul fatto che John Lucy sia, oggi, la autorità su Whorf e la relatività linguistica. Nessuno, che io sappia, ha lavorato come lui per venti anni su problemi Whorfiani quali l’influenza del linguaggio sulla percezione dei colori e sulla categorizzazione, e si è impegnato nella ricostruzione filologica del pensiero di Whorf e le possibilità di renderlo attuale [18]. Lucy è l’autore del libro più sistematico e completo sulla relatività linguistica (Lucy 1992a), in cui vengono discussi i precursori di Whorf, trattate dettagliatamente le sue idee e riportati tutti gli studi empirici che hanno tentato in seguito di verificarle. A questo libro se ne accompagna un altro che riporta i risultati di studi dimostranti l’influenza del linguaggio nella classificazione della realtà da parte di parlanti inglese e yucatec (Lucy 1992b).

Le conclusioni di Lucy (1992a) sono particolarmente interessanti per una discussione sui rapporti tra relatività linguistica e traduzione. Lucy parte dalla constatazione che “l’ipotesi della relatività linguistica può essere concepita come un interessarsi al modo in cui le categorie referenziali del linguaggio ‘classificano’ la realtà e come queste classificazioni influenzano il pensiero sulla realtà o il modo di concepirla” (Lucy 1992a:273) [19]. Da ciò segue, in perfetto stile whorfiano, che “il problema teorico principale diventa lo sviluppo di una descrizione neutra della realtà per fini comparativi, cioè una descrizione che non privilegi preventivamente le categorie di qualsivoglia lingua o cultura” (ibid.). Dove cercare gli strumenti per compiere una tale descrizione neutra?, si chiede Lucy come già si chiedeva Whorf. Lucy scarta la psicologia, perché in essa sono “sostanzialmente inesistenti” delle analisi comparative sistematiche che confrontino transculturalmente “le categorie o visioni della realtà” (p. 274). Anche l’antropologia è inadeguata, in quanto non ha ancora sviluppato un quadro comparativo per una tipologia dei “modi di pensare culturali”. Occorre allora rivolgersi alla linguistica comparata, che ha fatto finora i tentativi più sistematici per elaborare un “framework” generale per il confronto tra le lingue. E’ chiaro però che, in questa direzione, la descrizione della realtà potrà forse essere imparziale nel senso di non favorire alcun gruppo linguistico-culturale particolare, ma sarà sempre una descrizione mediata dal linguaggio: “la realtà può essere descritta così come appare attraverso la finestra del linguaggio. La descrizione sarà neutra nella misura in cui riuscirà a non favorire alcuna lingua particolare, ma rimarrà una visione del mondo decisamente linguistica” (p. 275). Questo “linguaggio teorico”, essendo derivato da uno studio delle lingue e nella misura in cui ha a che fare con la struttura e le funzioni delle lingue, può essere detto anche un “metalinguaggio” (ibid.) e la sua formulazione costituisce “l’obiettivo teorico fondamentale” (p. 274; corsivo nell’originale). Per Lucy, dunque, “un nuovo approccio alla relatività linguistica dovrebbe … produrre una caratterizzazione della realtà esplicita e neutra” e “per fare ciò occorre articolare più chiaramente le basi di un metalinguaggio descrittivo” (p. 274).

Parlando di metalinguaggio neutro per la descrizione delle lingue non si può non accennare al lavoro di Anna Wierzbicka, che ha messo al centro dei suoi interessi di ricerca l’identificazione delle ‘parole’ fondamentali di questo metalinguaggio. Semplificando un po’, l’idea della Wierzbicka è che sia possibile identificare pochissimi “primitivi semantici” (meno di due dozzine) la cui primitività è rappresentata da due fattori: 1) essi sono indefinibili ed entrano nella definizione di molte altre parole; 2) essi hanno equivalenti in tutte le lingue [20]. Per la Wierzbicka “uno schema analitico universale e indipendente dalla cultura è indispensabile per un’analisi ed un confronto rigoroso dei significati codificati e trasmessi dal linguaggio” (p. 27). La traduzione à la Wierzbicka avviene parafrasando dapprima le parole di una lingua nei termini primitivi del metalinguaggio semantico universale, e, dato che per definizione questi devono avere equivalenti in tutte le lingue, traducendo poi con facilità i termini primitivi da una lingua all’altra: ciò che si ottiene non è naturalmente una traduzione parola-per-parola, ma qualcosa che assomiglia più ad una interpretazione o un’analisi componenziale (il prodotto della traduzione è cioè sostituibile all’originale “salvo sensu, ma non salva elegantia o salva naturalitate orationis”; Wierzbicka 1986:291).

Secondo Wierzbicka Whorf aveva ragione nel sottolineare le differenze nei modi in cui le lingue classificano la realtà, e il discredito in cui sono cadute le sue idee dipende in gran parte dal fatto che non sono mai stati disponibili “strumenti rigorosi per il confronto dei sistemi concettuali delineati dai lessici delle diverse lingue” (Wierzbicka 1993:39). Per Wierzbicka,

chiunque abbia tentato un simile confronto deve giungere alla conclusione che i lessici di lingue diverse suggeriscono veramente diversi universi concettuali e che non tutto ciò che può essere detto in una lingua può essere detto (senza aggiunte o sottrazioni) in un’altra. D’altro canto, abbiamo buone ragioni per credere che ogni lingua disponga di parole per i concetti umani fondamentali, e che tutto ciò che può essere espresso può essere espresso combinando questi concetti fondamentali nel modo giusto. In questo senso - ma solo in questo senso - qualunque cosa possa essere detta in una lingua può essere tradotta, senza mutamenti di significato, in un’altra. (Wierzbicka 1993:39-40)

Certo, questa discussione sullo “schema analitico universale e indipendente dalla cultura” (Wierzbicka) o sulla “descrizione neutra della realtà” (Lucy) potrà suonare decisamente positivistica e fare aggrottare le ciglia a più di un ‘post-moderno’. Un articolo a carattere essenzialmente storico come questo non è la sede per approfondire una simile discussione: ciò che si voleva mostrare era che il discorso intorno alla relatività linguistica, dai precursori romantici a Whorf fino ai suoi epigoni contemporanei, non può essere visto come una semplice contrapposizione all’idea della traduzione, ma che al contrario pare configurarsi come complementare rispetto ad essa.

6. Conclusioni

Troppo spesso si accendono pseudo-battaglie tra relativisti e anti-relativisti che non producono altro che polemiche sterili, anche e soprattutto perché nessuno definisce se stesso un relativista: si tratta quindi in realtà di dispute tra anti-relativisti e anti-anti-relativisti. Un importante articolo di Clifford Geertz porta infatti il titolo di “anti- anti-relativismo” (Geertz 1984). Geertz sostiene che in molti casi tutto il trambusto sollevato contro il relativismo proviene in realtà da duelli con i mulini a vento o, meglio, con gli spaventapasseri (si tratta cioè di ciò che in inglese si definiscono strawman arguments). Si costruisce lo spauracchio relativista (visto che nessuno si costruisce spontaneamente come tale) e lo si bersaglia a piacimento: se lo spauracchio è una persona reale ma morta e quindi incapace di replicare, come Whorf, tanto meglio. Chiunque allora manifesti o abbia manifestato perplessità, o raccomandi cautela, verso le generalizzazioni universali viene tacciato di relativismo, e vengono agitati gli spettri dello scetticismo, del solipsismo e del nichilismo. L’argomentazione, come dice Geertz, è del tipo “se non credi al mio dio, allora credi nel mio diavolo” (1984; tr. it.: 77). Nella costruzione del relativista-come-avversario si usa spesso anche una strategia consistente nel parlare di forme ‘forti’, ‘estreme’, persino ‘assolute’ di relativismo, le quali consistono in collezioni di proposizioni insostenibili, e di fatto mai sostenute da nessuno, che vengono facilmente smentite [21].

Invece di continuare in una simile polemica col relativismo, sarebbe ora di cominciare ad affrontare seriamente il problema della relatività. Si tratta di due cose molto diverse: il relativismo viene professato o sostenuto (ma, appunto, nessuno dice di farlo), la relatività viene invece constatata. Einstein ha constatato la relatività di una nozione fino ad allora considerata assoluta come il tempo, ma non per questo si è detto un relativista (scettico, solipsista, nichilista...). Lo stesso vale per Whorf e la relatività linguistica, come si è visto. Inoltre, anche la relatività di cui si parla non è mai ‘assoluta’: ci sono molti assi di variabilità delle coordinate ed altrettante forme di relatività tra i sistemi di riferimento. George Lakoff (1987) analizza le diverse forme di relatività rilevanti per la discussione di come le lingue costituiscano dei sistemi di riferimento più o meno traducibili, e vale la pena riassumerne almeno alcune [22]:


- Grado di variazione: quando si parla relatività, si può intendere che nessun concetto sia condiviso tra due sistemi linguistici o culturali, ma anche che la non condivisione riguardi molti, alcuni concetti o al limite uno solo.

- Profondità della variazione: certi concetti sono più fondamentali di altri: un conto è affermare la relatività di due sistemi concettuali causata dalla strutturazione linguistica di nozioni come lo spazio e il tempo, altra è la relatività derivante da parole come chutzpah in Yiddish o agape in greco.

- Natura della variazione: cosa varia tra due sistemi linguistici? Solo alcuni item lessicali o anche molte regolarità morfologiche, sintattiche, pragmatiche che ricorrono pressoché in ogni enunciato?

- Sistema vs. capacità: la relatività può riguardare i sistemi linguistici o le capacità cognitive dei parlanti: un conto è dire che una lingua non distingue il verde e il blu, altro è dire che non lo fanno (o non lo sanno fare) i suoi parlanti.

- Traduzione e comprensione [understanding]: Lakoff nota che “questioni di traduzione e comprensione sorgono continuamente nelle discussioni sul relativismo” (1987:311). Le due nozioni però vanno tenute distinte: un concetto può essere intraducibile in una lingua, ma essere nondimeno comprensibile ai suoi parlanti.

- Fatto o valore: è la differenza tra chi crede che la relatività esista e chi crede che debba esistere (che sia un bene, un valore da perseguire, ecc.).

Oltre a questi criteri in base ai quali si può dire che due sistemi linguistico-concettuali sono diversi, che esiste cioè una relatività, Lakoff esamina anche i molti modi in cui si può intendere che i due sistemi sono commensurabili: anche in questo caso, i giudizi variano a seconda dei criteri utilizzati. Questi criteri possono essere:

- Traduzione salva veritate: due sistemi linguistici sono commensurabili se è possibile una traduzione enunciato-per-enunciato che preservi i valori di verità.

- Comprensione: due sistemi sono commensurabili se una stessa persona può comprendere entrambi.

- Uso: due sistemi sono commensurabili se usano gli stessi concetti allo stesso modo.

- Strutturazione [framing]: due sistemi sono commensurabili se strutturano le situazioni allo stesso modo e se la corrispondenza è struttura-per-struttura.

- Organizzazione: due sistemi sono commensurabili se i concetti sono organizzati tra loro alla stessa maniera.

Questi criteri, inoltre, possono valere tanto per i sistemi nel loro complesso quanto per loro parti (ci può essere cioè commensurabilità per quanto riguarda la concettualizzazione del tempo ma non quella dello spazio; alcuni enunciati o testi possono essere commensurabili e altri no).

Una schematizzazione come quella di Lakoff può essere un punto di partenza per riprendere la discussione del principio di relatività linguistica in modo serio. E la teoria della traduzione è un luogo privilegiato per una simile discussione. Infatti, cercare di definire cosa è relativo, cosa è diverso, è una questione specularmente complementare a quella, da sempre centrale negli studi sulla traduzione, di definire cosa è uguale. Per Susan Bassnett, infatti, i Translation Studies sono “una disciplina affidabile che indaga sul processo della traduzione, cercando di chiarire il problema dell’equivalenza e di esaminare ciò che costituisca un significato all’interno di tale processo” (1993:57). Detto in altri termini, i molti modi in cui, secondo Lakoff, si può affermare che due concetti sono diversi corrispondono alle tipologie che si incontrano spesso nei testi di teoria della traduzione sui molti modi in cui si può declinare la nozione di equivalenza tra parole o concetti [23].

Questa inevitabile complementarità tra la questione della relatività e quella dell’equivalenza si ritrova in Whorf e in tutti gli autori che a lui sono collegati. Dai discorsi dei filosofi ottocenteschi sull’unitarietà dello Spirito o del Principio del linguaggio, ai problemi whorfiani (1956: 162) di “analizzare … l’esperienza in un modo indipendente da qualsiasi lingua o repertorio linguistico” per poter dire come lingue diverse rappresentano la “stessa” situazione, fino ai tentativi di Lucy e Wierzbicka di definire un metalinguaggio language- and culture-free, tutti gli autori che hanno preso sul serio la relatività causata dalla diversità delle lingue hanno avuto a che fare con il problema di definire altrettanto seriamente le condizioni di equivalenza. Allo stesso modo, alcuni tra i maggiori studiosi della traduzione hanno visto in Whorf e nel suo principio non dei nemici, ma degli aiuti per l’elaborazione di teorie e metodi per il confronto tra sistemi linguistici [24].

Sia dal punto di vista storico che da quello del dibattito contemporaneo, quindi, il principio di relatività linguistica e le ipotesi empiricamente verificabili che si possono formulare a partire da esso possono essere considerati parte integrale di una teoria della traduzione. Un’indagine approfondita di tali principio ed ipotesi costituisce una vera e propria critica delle possibilità e limiti della traduzione, oltre che un importante passo per migliorare le pratiche traduttorie.

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NOTE

[1] Si veda ad esempio Newmark: “Con traduzione si intende il tentativo di sostituire un messaggio e/o un enunciato scritto in una lingua con lo stesso enunciato e/o messaggio in un’altra lingua” (Newmark 1981, tr. it.:24; corsivo aggiunto).

[2] Già nel Settecento alcuni philosophes avevano sollevato la questione, ma in modo abbastanza marginale e spesso nei termini di un forte campanilismo linguistico. La voce Langue dell’Encyclopedie, ad esempio, nota che le lingue, oltre ad avere delle caratteristiche universali, “ammettono tutte … delle differenze che derivano dal genio dei popoli che le parlano, e che sono esse stesse contemporaneamente i principali caratteri del genio di queste lingue, e le principali fonti di difficoltà nel tradurle esattamente l’una nell’altra” (tr. it. in Gallotti 1993:236). Tuttavia, quando si parla delle inversioni, per l’Encyclopedie è il francese la lingua che “in modo quasi perfetto, senza alcuna inversione, … è fondata sulla natura stessa del pensiero” (voce Inversion, cit. in Juliard 1970, tr. it.:79). La difesa da parte dei romantici del pluralismo linguistico è in parte una reazione a questa asserita superiorità del francese come “lingua perfetta”.

[3] Queste affermazioni sulla relativa capacità o incapacità delle lingue a svolgere certe funzioni parrebbero in contraddizione con l’invito herderiano citato prima ad ‘essere se stessi’ dal punto di vista linguistico. La contraddizione può essere considerata solo apparente se si postula che non esistano lingue migliori di altre in senso assoluto, ma che ognuna di esse, oltre ai suoi limiti, ha un suo contributo da offrire all’umanità. Anche le lingue dette in questo passo “primitive” non sono per Herder da considerarsi in toto inferiori alle lingue ‘civilizzate’. Si vedano queste affermazioni su una lingua indiana del Nord America: “gli Uroni hanno sempre un doppio verbo per una cosa animata o inanimata, di modo che “vedere una pietra” e “vedere un uomo” costituiscono due espressioni diverse. Si applichi ciò nei confronti di tutta la natura e si vedrà quale ricchezza. Per dire ‘servirsi dei propri averi’ o ‘degli averi della persona di cui si parla’ ci vogliono sempre due vocaboli diversi … Quale dovizia!” (tr. it. in Formigari 1972:302).

[4] Questa idea humboldtiana che la traduzione debba essere tanto più estraniante quanto più ci si vuole avvicinare all’essenza del linguaggio riemerge nel noto saggio di Benjamin sul “Compito del traduttore” (Benjamin 1923), in cui la traduzione massimamente estraniante, come quella interlineare, viene ad essere detta il mezzo per attingere ad una mistica ed universale “lingua pura”.

[5] Sulla vita e l’opera di Fabre d’Olivet si veda Cellier (1953); per gli aspetti semiotici, e in particolare La langue Hebraïque Restituée, cfr. Pallotti (1992).

[6] Un esempio basterà per rendersi conto di questi procedimenti di “alchimia letteraria” (Cellier 1953). Il nostro autore afferma: “eserciterò la potenza del Segno su una parola francese presa a caso, d’accezione comune e visibilmente composta. Sia la parola, emplacement” (dislocazione, spiazzo) (Fabre d’Olivet 1815, I:41-3). La parola-base, place, deriva dal latino platea o dal “todesco” [tudesque] platz. Non è necessario andare, con una “etimologia di secondo grado”, al “celto primitivo, origine comune di latino e todesco, perchè le due parole che abbiamo ottenuto ci bastano, chiarendosi una con l’altra.” La “radice costitutiva di place” è äT o äTZ. “Ora, il Segno ci indica in ät un’idea di resistenza o di protezione”. Ma “il segno che governa questa radice … è il segno L, quello di ogni estensione, di ogni possesso. Lät è dunque una cosa estesa...”. Il segno P, “quello dell’azione attiva e centrale, carattere interiore e determinante per eccellenza … fa della parola lät, cosa estesa, una cosa dall’estensione fissa e determinata”: un plat [piatto] o una place [piazza].” E così via, fino a giungere alla conclusione che emplacement “significa il modo proprio nel quale una estensione fissa e determinata … è concepita, o si presenta esteriormente”.

[7] Sugli aspetti religiosi, filosofici e comunque non strettamente linguistici di Whorf si veda Rollins (1980).

[8] Questa prima infatuazione per Fabre d’Olivet non era destinata a passare: ancora nel 1936 Whorf scrive pagine in cui Fabre viene definito “uno degli intelletti più poderosi che si siano occupati di linguistica” e si dice che “il suo ebraico poggia sui suoi piedi, esattamente come il chinook di Boas” (Whorf 1956; tr. it.:60-62).

[9] Per un resoconto preliminare si veda Pallotti (1995).

[10] Per motivi inspiegabili l’articolo non è stato incluso nella traduzione italiana di Language, Thought, and Reality.

[11] Si noti bene: vedono solo il blu per un “difetto fisiologico”, non perché nella loro lingua esiste solo la parola ‘blu’. Whorf, come si è visto, è convinto che “la percezione visiva è sostanzialmente la stessa per tutte le persone normali” (Whorf 1956:163) e non avrebbe mai sottoscritto le sciocchezze, da altri attribuitegli, del tipo ‘si vedono/distinguono solo i colori per cui esistono etichette nella lingua che si parla’.

[12] Per quanto riguarda l’espressione “assolutamente tassativi”, che molti considerano indicativa del fatto che Whorf pensasse che non c’è via di scampo al condizionamento linguistico, essa in realtà si riferisce alle regole dell’accordo tra parlanti per parlare allo stesso modo, ed è una ripresa delle idee Boasiane sull’obbligatorietà delle categorie grammaticali (cfr. Jakobson 1959). Infatti, subito dopo Whorf afferma che la trasgressione delle regole dell’accordo impedisce il parlare (una certa lingua), non il pensare. Esemplificando, ciò significa che se voglio parlare italiano sono obbligato, ogni volta che pronuncio un sostantivo singolare, a definire se è specifico o generico, essendo obbligato a premettervi un articolo che non può essere altro che determinativo o indeterminativo (anche l’opzione 0-articolo esprime necessariamente un significato preciso, quello di genericità).

[13] Whorf mostra quindi, nei confronti del suo avversario ipotetico, molto più rispetto di quanto ne abbiano avuto per lui certi anti-Whorfiani, che hanno fatto sostenere al defunto avversario assurdità come l’identità assoluta tra linguaggio e pensiero. Si veda ad esempio Takano (1989): “Una volta veniva sostenuto che linguaggio e pensiero sono sinonimi (Sapir 1921; Whorf 1956)”.

[14] A questa conclusione sono arrivati anche tutti coloro che si sono occupati di Whorf come autore, cercando di capirlo, e non lo hanno solo ‘usato’ come spaventapasseri per le loro polemiche anti-relativistiche. Si vedano ad esempio Carroll (in Whorf 1956; tr. it.:233): “in parecchi luoghi nei suoi scritti Whorf parla dei vantaggi di un’’indagine su scala mondiale’ delle lingue”; oppure Rollins (1980:60): “Whorf credeva che alla fine la scienza del linguaggio sarebbe stata in grado di formulare un medium veramente essenziale consono con la fondamentale struttura della mente umana. Un tale linguaggio sarebbe emerso da una ricognizione globale di tutte le lingue umane e la sua creazione avrebbe portato risultati senza precedenti”; anche per Lucy (1992:36) “Whorf ha esplorato la variazione e quindi la ‘relatività’ delle categorie linguistiche allo scopo di superare la loro influenza e non come un fine in sè e per sè”.

[15] E’ sempre Whorf a sostenere, rispondendo in anticipo alle obiezioni che i critici rivolgono di solito ai cosiddetti ‘relativisti’, che “la scienza PUO’ avere una base razionale o logica, anche se è una base relativistica … Anche se è una logica che può variare per ciascuna lingua e può richiedere una rilevazione estesa a tutto il pianeta delle dimensioni di questa variazione, è tuttavia una base logica con leggi scopribili. La scienza non si trova costretta a vedere i suoi procedimenti di pensiero e di ragionamento trasformati in processi obbedienti solo a necessità sociali e impulsi emotivi.” (Whorf 1956; tr. it.:197)

[16] Whorf, dal punto di vista etico, era un idealista che sperava di mostrare come, almeno sul piano linguistico, gli hopi fossero in certi casi meglio equipaggiati dei parlanti inglese per compredere la realtà quale essa appariva dopo le rivoluzioni di Einstein in fisica e Bergson in filosofia (cfr. Lakoff 1987; Pallotti 1995).

[17] Per una trattazione più approfondita del dibattito attuale sulla relatività linguistica si vedano Gumperz e Levinson (1991), Hill e Mannheim (1992), Lucy (1992a) e Pallotti (1994).

[18] I lavori fondamentali di Lucy sono Lucy e Shweder (1979) e Lucy (1985; 1992a, b).

[19] Questa visione della relatività linguistica come un fenomeno avente a che fare esclusivamente con la funzione referenziale del linguaggio sarebbe criticata da molti (ad esempio Steiner (1978), Friedrich (1986), Lakoff (1987)), che sostengono che gli ‘effetti Whorfiani’ sono in realtà più pronunciati ed interessanti nelle aree del linguaggio che hanno a che fare con l’espressione dei sentimenti, l’arte verbale, l’immaginazione. Essa, tuttavia, si avvicina abbastanza alle preoccupazioni Whorfiane di analizzare l’influenza del linguaggio nella descrizione della realtà oggettiva.

[20] Tra questi atomi di significato figurano certamente parole come io, tu, qualcuno, qualcosa, questo, volere, no, dire e pensare; altri candidati attualmente analizzati sono sapere, dove, buono, quando, potere, altro/stesso, tipo, dopo, fare, accadere, cattivo, tutto, perché, due (Wierzbicka 1993:26-27).

[21] Il brano di Schogt citato all’inizio di questo articolo è un esempio di applicazione di questa strategia. Schogt dice infatti che “l’Ipotesi Sapir-Whorf esclude la possibilità di successo della traduzione [excludes the possibility of successful translation]”. Rimanendo ambiguo in che cosa consista una traduzione successful, ciò che resta al lettore è l’idea di impossibilità della traduzione, affermazione di grande effetto ma totalmente estranea sia a Whorf che a Sapir.

[22] La discussione di Lakoff è assai più articolata e si rimanda ad essa per ulteriori approfondimenti.

[23] Mary Snell-Hornby (1988:107), ad esempio, descrive una gerachia che va dai termini che possono essere detti equivalenti strictu sensu alle relazioni di “equivalenza più o meno approssimativa”, “equivalenza con discriminazione”, “sovrapposizione parziale” fino alla “definizione”, consistente nella rinuncia a sostituire un termine con un altro preferendo una descrizione metalinguistica (la ‘traduzione’ à la Wierzbicka). Si veda anche Bassnett-McGuire (1993:34 sgg.).

[24] Si veda ad esempio Mounin (1963, tr. it.:118): “Oggi non dimentichiamo mai quanto contengono di ricco e di vero gli avvertimenti di un Humboldt e di un Whorf: avvertimenti che ci hanno resi ad un tempo più vigili nelle nostre traduzioni e più agguerriti di fronte a quelle difficoltà ch’essi ci hanno descritte con tanta minuzia”.

About the author(s)

Gabriele Pallotti è Professore associato di Linguistica presso l'Università di Cagliari. Si è occupato di etnolinguistica, linguistica applicata, acquisizione della seconda lingua. È autore di La seconda lingua (Bompiani, 1998) e curatore di Scrivere per comunicare (Bompiani, 1999); ha curato, con R. Galatolo, Di Pietro e il giudice (Pitagora, 1998) e La conversazione (Cortina, 1999).

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©inTRAlinea & Gabriele Pallotti (1998).
"Relatività linguistica e traduzione L'inutile polemica col relativismo", inTRAlinea Vol. 1.

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