Alcuni aspetti delle relazioni culturali tra Italia e Spagna nel ‘700: intorno alla traduzione dell’Antenor di Pedro Montengón effettuata dal fratello José

By Luigi Contadini (Università di Bologna, Italy)

Abstract

English:

In the context of cultural relations between Italy and Spain and by virtue of the decisive contribution that the expelled Jesuits who resided in various Italian cities towards the end of the eighteenth century offered with their intellectual commitment, the case of the epic novel by Pedro Montengón, El Antenor, which was translated into Italian by his brother José, a priest in the service of Count Pepoli, is of extreme interest. The contribution, in the first place, will examine the interweaving of personal, cultural and political motivations that led the writer's brother to translate one of his most openly enlightened and utopian works. In addition, the investigation will focus on the scope and function of some interpretations, made in the translation, which highlight the ability of its author to dialogue with ease with the cultural tradition of the country that had received it.

Italian:

Nell’ambito dei rapporti culturali tra Italia e Spagna e in virtù del decisivo contributo che offrirono con il loro impegno intellettuale i gesuiti espulsi che risiedettero in varie città italiane verso la fine del secolo XVIII, è di estremo interesse il caso del romanzo epico di Pedro Montengón, El Antenor, che venne tradotto in italiano dal fratello José, sacerdote al servizio del conte Pepoli. Il contributo, in primo luogo, prenderà in esame l’intreccio di motivazioni personali, culturali e politiche che spinsero il fratello dello scrittore a tradurre una delle sue opere più apertamente illuministe e utopiche. Inoltre, l’indagine si soffermerà a considerare la portata e la funzione di alcune interpretazioni, effettuate nella traduzione, che mettono in luce la capacità del suo autore di dialogare con disinvoltura con la tradizione culturale del paese che l’aveva accolto.

Keywords: Illuminismo, gesuiti espulsi, Montengón, Antenor, interculturalità, Enlightenment, expelled Jesuits, interculturality

©inTRAlinea & Luigi Contadini (2019).
"Alcuni aspetti delle relazioni culturali tra Italia e Spagna nel ‘700: intorno alla traduzione dell’Antenor di Pedro Montengón effettuata dal fratello José"
inTRAlinea Special Issue: Le ragioni del tradurre
Edited by: Rafael Lozano Miralles, Pietro Taravacci, Antonella Cancellier & Pilar Capanaga
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I fratelli Montengón e la Compagnia di Gesù

Pedro Montengón y Paret, secondo di quindici figli, nacque ad Alicante il 17 luglio 1745 da Pedro Montengón Larraux e Vicenta Paret, dediti al commercio. Il primogenito José nacque poco più di un anno prima, sempre ad Alicante, il 10 febbraio 1744. Pedro morirà a Napoli nel 1824 e José a Ferrara nel 1828.

Fin dall’infanzia, la loro formazione fu legata all’ordine dei gesuiti attraverso il quale ricevettero i primi rudimenti del sapere. Seguendo il desiderio dei genitori, entrarono a fare parte della Compagnia di Gesù, ma Pedro era ancora novizio quando venne promulgato da Carlo III, nel 1767, il decreto di espulsione dei gesuiti da tutti i territori della Corona. Nonostante le proteste del secondogenito, che non aveva ancora preso i voti,[1] entrambi dovettero intraprendere con gli altri confratelli un lungo viaggio d’esilio verso l’Italia. Dopo lunghe peripezie giunsero finalmente a Ferrara dove trovarono accoglienza i gesuiti che venivano dalla provincia di Aragona.[2] I due Montengón entrarono così in contatto con gli ambienti colti della città, in cui conobbero importanti uomini di lettere italiani, quali, ad esempio, il poeta Alfonso Varano e Giambattista Conti.

Per Pedro Montengón l’innovativo ambiente italiano, illuminato e classicista, divenne occasione per una sua definitiva adesione alle istanze dell’Illuminismo, cui seguirà il volontario e risolutivo allontanamento dalla Compagnia di Gesù. Mentre il fratello José rimase sacerdote, fedele alla Chiesa e ai precetti della Compagnia, Pedro chiese e ottenne la secolarizzazione. Più tardi, nel 1788, deciderà di sposarsi con Teresa Gayeta dalla quale avrà quattro figli.

La vitalità della cultura italiana settecentesca portò Pedro Montengón a compiere «un processo di revisione culturale ed ideologica: l’insofferenza per ogni dogmatismo intellettuale e religioso, che già lo aveva spinto ad abbandonare la Compagnia ed il sacerdozio, si trasformò in aperta adesione all’Illuminismo e, per quanto riguarda la religione, diede luogo ad un atteggiamento di sostanziale agnosticismo» (Fabbri 1972: 15).

Pedro Montengón, famoso per l’Eusebio (vero best seller dell’epoca) e per le Odas (scritte con lo pseudonimo Filópatro) pubblicò a Madrid presso l’editore Sancha il romanzo epico El Antenor (1788). Si tratta di due volumi di circa 400 pagine ciascuno, ognuno diviso in sei capitoli che l’autore chiama libri.

Nel frattempo Pedro era già entrato in contatto con il conte Fernando de Peralada residente a Venezia al quale farà da segretario, a partire dal 1790, trasferendosi da Ferrara nella città lagunare. Antenore, che la tradizione vuole fondatore di Padova, diventa nell’opera di Montengón anche fondatore di Venezia, forse in omaggio alla città e ai suoi abitanti che di lì a poco lo accoglieranno.

Come d’altronde egli annuncia nella prefazione, formulando un’interessante anticipazione di futuri dibattiti sulle commistioni tra storia e finzione:

No se deberá estrañar […] si á semejanza del que celebró la fundación de Roma, me valgo yo de los mismos adornos épicos para celebrar la fundación de Venecia, pues lo hago en un romance, y no en historia, no quedando tampoco otras antiguas noticias sobre Antenor, que las que nos dá Virgilio (Montengón 1788: III-IV).

Due anni dopo, nel 1790, il fratello José pubblicò a Venezia la traduzione dell’Antenor per l’editore Antonio Curti, dedicando la sua opera al conte Alessandro Pepoli (1757-1796), abitante a Venezia, di cui era segretario da 10 anni.

Non si conoscono altre edizioni oltre all’originale del 1788 e alla traduzione del 1790. Non abbiamo notizie, inoltre, che la traduzione sia stata rivista da una persona madrelingua. Sappiamo, invece, che il fratello Pedro si interessò alla traduzione di José.

Antenor: un romanzo epico

Nell’introduzione, lo scrittore attribuisce al suo testo la definizione di romance épico (fatto che ha scarsi riscontri in Spagna in quell’epoca). Ciò dimostra la cosciente e deliberata volontà di Pedro di allacciare il genere romanzesco alle esperienze europee più vicine alla sua mentalità ed alla sua formazione culturale, vale a dire alla francese e alla italiana: anche etimologicamente, il romance di Pedro deriverebbe dal roman francese o dal romanzo italiano. Infatti, José traduce «romanzo epico», sia nella dedica a Pepoli sia nell’introduzione.

Il mancato ricorso al termine tradizionale di novela farebbe pensare anche che lo scrittore fosse al corrente delle proposte avanzate dalla scrittrice inglese Clara Reeve nel 1785 attraverso quel noto testo, The Progress of Romance, che costituisce la prima analisi sistematica della tradizione narrativa ed in cui vengono distinte le forme e le caratteristiche sia del romance sia del novel (Fabbri 1972: 102).

Quando Pedro pubblicò l’Antenor erano in voga in Europa i poemi in prosa, comparsi numerosissimi sulla scia del Télémaque di Fénelon. L’Antenor rappresenta un valido esempio di tale tendenza, ma con caratteristiche assai originali da non temere confronti coi modelli. Il punto di riferimento è soprattutto Virgilio come si afferma anche nell’introduzione. Il vasto disegno dell’opera ricalca la trama dell’Eneide con tanti riferimenti espliciti: si tratta della peregrinazione di Antenore sopravvissuto alla distruzione di Troia e in cerca di una nuova patria seguendo il destino e la volontà degli dei. Da Troia al Chersoneso, dalla Frigia a Creta, da Zacinto ad Itaca, a Citera, a Salento, sino alla terra degli Eneti dove poi fonderà Padova, secondo la tradizione e anche, secondo l’originale interpretazione dello scrittore, Venezia.

L’intreccio è quello dell’epica classica con battaglie, duelli, tradimenti, rari interventi soprannaturali, predizioni e presagi, senza però concedere spazio alla magia e agli incantesimi. Nel romanzo compaiono i personaggi più noti alla storia e al mito. Montengón poi inserisce anche episodi di sua creazione come, per esempio, la straziante storia di Pedeo (figlio di Antenore) ed Ericia, l’amore e il matrimonio tra Antenore e Penelope rimasta vedova di Ulisse.

Montengón è un maestro nell’amalgamare con eleganza e ponderatezza le necessità romanzesche e le finalità didascaliche. Egli non si dilunga eccessivamente sulle questioni teoriche moralizzanti, ma preferisce attraverso l’azione del suo protagonista l’esempio diretto. Antenore è un vero esempio di sovrano illuminato, tollerante, amante della virtù, in continua ricerca del bene e della felicità pubblica e che non si aspetta gratitudine o comprensione.

Il suo modello di governo, che cerca di realizzare specialmente mentre è re del Chersoneso (nella prima parte dell’opera), diventa universale senza limitazioni storiche o geografiche e si pone come prototipo per tutti i popoli della terra. È questo un esempio di utopia globale, ma non radicale, perché comprende tutti gli aspetti della vita dell’essere umano (Trousson 1995: 35).

Antenore non prescinde mai dalla volontà dei cittadini, benché lui paternalisticamente tenti di indirizzarla, ma il suo governo è fondato su un patto evidente, anche se non dichiarato, che coinvolge l’idea dell’esistenza di un diritto da parte dei popoli alla propria libertà e al proprio benessere.

Il suo comportamento è equo, refrattario alle lusinghe, disposto alla clemenza e alla tolleranza. Attraverso la sua grande umanità suscita affetto e riconoscenza. Percorre pacificamente privo di scorta e quasi senza seguito le contrade del regno, senza fasti e accogliendo le richieste del suo popolo. Ascolta il ricco e il povero ed ha una predilezione per quest’ultimo. Sempre parco e frugale, insofferente alla vita di corte, raggiunge i suoi scopi senza violenza. Pratica il rifiuto totale della guerra alla quale preferisce la trattativa ed il negoziato ad oltranza piuttosto che versare sangue del suo popolo o di quello avversario. La maggior parte delle azioni che compie è riferita a tentativi diplomatici, a volte molto creativi, quasi sempre riusciti, di evitare le guerre, male principale della società.

Attua vaste riforme civili e religiose. Abolisce il culto perverso e violento di Diana e istituisce il culto solare della Pace e dell’Umanità. Formula leggi egualitarie e interviene personalmente nelle controversie. Potenzia l’agricoltura, la navigazione, il commercio, le arti. Concede crediti ai più umili e promuove, tramite incentivi, la costruzione di strade e locande per rafforzare il trasferimento di beni e risorse.

Interessantissima è anche la descrizione che Montengón propone della repubblica di Elime che Antenore si trova a visitare, senza però entravi a fare parte, e che rappresenta un mondo utopico in questo caso radicale e statico, diverso quindi dai modelli di governo che vedono invece il protagonista direttamente implicato. Elime è governata da 50 cittadini scelti di anno in anno e ogni volta diversi. Sono aboliti intenti espansionistici, il possesso delle armi e la guerra. Sono aboliti anche i titoli di nobiltà e di distinzione onorifica. La proprietà privata è quasi interamente soppressa e i beni superflui vengono congelati. È abrogata la schiavitù e norme precise regolano anche il modo di vestire e le case da abitare, per non creare squilibri. Aboliti l’ozio e l’indigenza, la sanzione più grave per i reati è l’esilio. Non esistono, infatti, né la pena di morte né il carcere.

Ciò conferma l’adesione dello scrittore agli ideali politici e utopistici rivoluzionari in cui si fondono le dottrine stoiche e quelle illuministe finalizzate ad un forte impegno civile.

Prospettive interculturali

I gesuiti espulsi che dovettero vivere in Italia ebbero un ruolo assai importante per ciò che concerne la mediazione culturale, contribuendo ad una migliore comprensione della cultura spagnola in Italia. Il fatto che molti di essi avessero instaurato relazioni amichevoli con i maggiori letterati del secondo Settecento italiano costituiva «la prova della condivisione da parte dei religiosi in esilio di alcune correnti di pensiero coeve, compreso il razionalismo». La straordinaria cultura umanistica dei gesuiti, «ibridandosi con la cultura del tempo, diede luogo ad un pensiero originale e in linea con gli orientamenti europei. Gli espulsi ebbero quindi il merito di inserire elementi della tradizione di studi spagnola nei dibattiti coevi, svolgendo per conto della patria che li aveva ingiustamente cacciati una missione europeizzante» che può essere a pieno titolo definita come «ilustrada» (Guasti 2006: 245).

Avventurandosi a tradurre l’opera del fratello in italiano, lingua non sua, per quanto vivesse in Italia da parecchi anni, José Montengón mise ancor più in evidenza l’importanza dell’opera di intermediazione che i gesuiti svolsero tra le culture e le lingue dei due paesi, facilitando scambi e promuovendo nuove prospettive.

Anche molti gesuiti rimasti fedeli alla loro vocazione sacerdotale assimilarono con facilità ed entusiasmo la cultura neoclassica italiana ed illuminista europea. Ciò è evidente nel modo in cui José affronta i temi pagani e i molteplici riferimenti ad antiche divinità, apparizioni, profezie, trasformazioni, ecc. Il traduttore lascia inalterati tali passaggi che caratterizzano in maniera consistente l’intera opera, dimostrando di trovarsi perfettamente a suo agio anche nel trattare argomenti che potevano stridere con la fede cristiana e con il suo ruolo di sacerdote.

Ma è anche vero che le idee universali di pace e di fratellanza che il romanzo propone, sostenute da forme di governo tolleranti e pacifiche che rifiutano la guerra e propendono per il bene dei cittadini, erano in linea con lo spirito religioso della Compagnia di Gesù. Si realizza quindi una sorta di sincretismo tra le istanze più avanzate dell’illuminismo europeo proposte da Pedro Montengón e le indicazioni dottrinali dei gesuiti che pensavano a forme di governo dove si esaltasse la pace e si valorizzasse l’impegno culturale e scientifico.

Non si hanno molte notizie sulla vita di José Montengón. Dovette lasciare un buon ricordo di sé poiché nell’archivio del patrimonio gesuitico di Ferrara è conservata una lettera del 1930 in cui si ricordano le sue opere di carità. Segretario di Pepoli dal 1780 circa, diventò anche procuratore degli ex-gesuiti proscritti residenti a Ferrara (Fabbri 1972: 11). Morì nella città estense dove visse la maggior parte della sua vita da esiliato, tranne sporadici viaggi, e rimase sepolto per lunghi anni nella cattedrale di San Giorgio di Ferrara, nel pavimento della navata destra con una piccola lapide che ricordava il suo nome e il suo ruolo di religioso. Solo recentemente, in seguito a ristrutturazioni effettuate nel 2006, la tomba del gesuita è stata rimossa e le sue spoglie riposano ora nell’ossario comune del cimitero di Ferrara.

La traduzione di José, che non era uno scrittore, è l’unica opera che il sacerdote alicantino ci ha lasciato. Diversi erano gli scopi del suo lavoro: omaggiare l’Italia e la tradizione letteraria italiana; mostrare la sua cultura di provenienza e il profondo radicamento di questa nel contesto culturale italiano e nella lingua adottiva. In effetti, esiste un carteggio composto da dieci lettere (contenuto nella Biblioteca Palatina di Parma) che José Montengón inviò a Gianbattista Bodoni, direttore della Stamperia Reale di Parma, su questioni editoriali legate alla pubblicazione delle opere dello stesso Pepoli (Fabbri 1972: 12). Evidentemente, José curava vari aspetti della vita dell’aristocratico italiano, compresi quelli eminentemente più eruditi. Anche da ciò si evince quanto il traduttore dell’Antenor fosse perfettamente inserito nel dibattito culturale della nostra penisola e capace di disquisire su autori e opere della tradizione italiana, di procedimenti retorici, di stile, di poesia e di teatro. Ma lo scopo principale era probabilmente proprio quello di omaggiare il conte Alessandro Pepoli, come José afferma nell’introduzione, attraverso la celebrazione del presunto fondatore di Venezia, città natale del conte.

Vi è, in effetti, una forte affinità tra i contenuti del testo, di stampo illuministico, e le idee dello stesso Pepoli. Non a caso, il conte Alessandro Pepoli viene inserito da diversi storici (Berengo 1956: 195-201) nell’ambito dei sostenitori della filosofia che veniva da oltralpe, e poteva quindi essere considerato come rappresentante di quella cultura veneta che era favorevole alle aperture verso le nuove istanze e sensibile alla necessità di cambiamento. Non certo ascrivibile alle posizioni più radicali dell’estremismo giacobino, Pepoli ebbe però più volte occasione di manifestare nei confronti dei principi dell’Illuminismo una forte simpatia che superava senz’altro la semplice curiosità.

Pepoli, inoltre, scrittore e drammaturgo, utilizzava spesso come argomento delle sue tragedie temi desunti dalla mitologia classica così come succede in molte opere di Montengón e in maniera cospicua nell’Antenor.

La famiglia Pepoli, che proveniva da Bologna ma che da circa un secolo risiedeva a Venezia, era entrata nel Maggior Consiglio della città lagunare. Il conte Alessandro, però, invece di dedicarsi alla vita politica della città ed assumere cariche amministrative, diede preferenza allo studio della poesia e a lunghi viaggi per l’Europa, risiedendo anche in differenti città quali Bologna e Ferrara. Venne spesso definito, nelle cronache del tempo, come un bizzarro patrizio di bell’aspetto, intelligente e creativo, poeta e drammaturgo, attore, maestro di scherma, danzatore, musico, tipografo, cavallerizzo, giocatore d’azzardo, amante delle arti, del lusso e delle belle donne (Turchi 1988). Emulo e critico allo stesso tempo di Alfieri, fondò l’Accademia teatrale degli Ardenti e poi dei Rinnovati a Venezia nel 1785. Nel 1792, sempre a Venezia, fondò la Stamperia Pepoliana, apprezzata moltissimo da diversi letterati dell’epoca (tra cui il Foscolo).

Ispirandosi al teatro di Shakespeare (di cui era grande ammiratore) propose un nuovo genere che chiamò fisedia, cioè canto della natura, termine medio tra tragedia e commedia. Si tratta di un dramma a lieto fine che preserva solo l’unità di azione, in cui si mescola il tragico con il comico, il verso con la prosa.[3] Se la sua poesia fu spesso criticata e considerata modello di enfasi declamatoria, egli mostra però spregiudicata indipendenza di giudizio sulle questioni politiche e sociali non comune tra gli aristocratici della sua epoca.

Suo è il trattato politico Saggio di libertà sopra vari punti (1783). Prendendo le mosse dalla questione del contratto sociale egli dichiara che i due beni massimi che gli esseri umani devono tutelare sono la vita e la libertà, perciò «il governo democratico è il più naturale all’uomo nato libero, e quello che toglie il meno possibile della naturale libertà per conservargliene il residuo maggiore» (Pepoli 1783: 61). Dopo quello democratico, il governo migliore è quello aristocratico poiché, su base più ristretta, il governo aristocratico riproduce i vantaggi del primo nella critica e nella discussione che informa tutti i suoi atti (Pepoli 1783: 67), come era la Serenissima Repubblica a cui apparteneva. Se la prende poi con i «Capi, Ministri dei Capi, e Ministri dei Ministri discendendo… pochi sono nelle società del giorno d’oggi gli uomini liberi, i quali non vivano che a se stessi, odiando nelle lusinghe di una servitù, che loro può dare dei servi, quella che veramente è falsa gloria» (Pepoli 1783: 84).

Per Pepoli tra democrazia e aristocrazia esisteva non una frattura, ma un nesso evolutivo di continuità, si trattava di un progresso da un regime buono ad uno ottimo. Quindi la sua simpatia verso gli ideali rivoluzionari non comprendeva il radicalismo giacobino, ma era frutto dell’ammirazione verso ciò che era nuovo, eroico e glorioso, portatore di maggior libertà e benessere (Berengo 1956: 201).

Idee queste non nuove nell’Europa di fine Settecento, ma ugualmente apprezzabili per la sincerità e la vivezza del loro tono. Inoltre, negli anni a seguire il conte si troverà ad affrontare proprio questioni di carattere politico che rischiarono di influire in maniera decisiva sulla sua vita. Per la sua indipendenza di idee, comunque rara in un aristocratico, in seguito alla discesa di Napoleone in Italia, egli riuscì ad inimicarsi sia la polizia veneziana sia i francesi che credevano fosse una spia al servizio di Venezia. Solo la morte precoce[4] gli impedì di essere perseguito e di finire in carcere (Berengo 1956: 200).

Tutto ciò sembra adattarsi all’idea di governo che emerge dalle vicende e dalle peripezie di Antenore, il quale propone una visione della società laica, libera, mai schiava del pregiudizio o di barbari riti religiosi, e nella quale si insinua frequentemente la necessità di un contratto sociale che responsabilizzi il popolo e lo renda partecipe e cosciente delle scelte politiche da effettuare e allo stesso tempo limiti e condizioni l’autorità del governo che in ultima istanza non deve mai forzare la volontà del suo popolo, anche se può orientarla e guidarla. Una proposta, quindi, quella di Antenore non rivoluzionaria, ma di libertà progressiva. Tra i vari testi del fratello, l’Antenor, dunque, era quello che meglio si adattava alle esigenze di José per festeggiare i dieci anni di segretariato al conte.

La traduzione

Nella traduzione, José non riduce il lungo testo originale, ma lo rispetta nella sua integrità con un’unica eccezione: è omessa la lunga canzone in endecasillabi sciolti «Canción de Ataxía», enunciata da Ataxía, cantore del re Terabano della Samotracia che aveva ricevuto la visita di Antenore e in onore del quale aveva voluto che il suo cantore si esibisse (Montengón 1788: 251-264). Nel metatesto la canzone si annuncia solamente (Montengón 1990: 228). Probabilmente, essendo questa l’unica parte in versi dell’intera opera, José decise di evitare i rischi di una traduzione che lo costringesse a rispettare criteri metrici, preferendo le libertà linguistiche e interpretative che gli concedeva la prosa.

Nella traduzione, José utilizza frequentemente procedimenti sintattici e adotta scelte lessicali che provengono dalla tradizione letteraria italiana. È facile, per esempio, riconoscere echi dei maggiori poeti italiani, come i seguenti riferimenti danteschi: «I prieghi suoi» (Montengón 1790, 59); «Sanza far motto» (Montengón 1790, 94). Egli ha certamente il merito di dialogare con la cultura del paese che lo ha accolto nel suo esilio, mettendo in atto sia criteri di intertestualità sia di interdiscorsività,[5] benché la sua prosa appaia a volte complicata, spesso ridondante. Significativo è l’uso insistito di un’ampia gamma di congiunzioni: «Imperocchè» (Montengón 1790: 65); «avvegnachè» (Montengón 1790: 65); «imperciocchè» (Montengón 1790: 49, 63, 71, 109); «Perocchè» (Montengón 1790: 58, 63, 78); «secondochè» (Montengón 1790: 62); «stantechè» (Montengón 1790: 63); «poichè» (Montengón 1790: 63); «giacchè» (Montengón 1790: 63); «laonde» (Montengón 1790: 65, 73); «perciocchè» (Montengón 1790: 77); «acciocchè» (Montengón 1790: 86, 87, 88); «attesochè» (Montengón 1790: 231); «posciacchè» (Montengón 1790: 231); «conciossiachè» (Montengón 1790: 233); ecc.

Anche il testo in spagnolo è scritto con grande abilità, ma con un linguaggio più semplice, spesso scorrevole ed efficace, con un lessico principalmente orientato alla modernità. Molti brani del testo di Pedro si leggono d’un fiato, nonostante l’infittirsi delle trame e la presenza a volte di diversi livelli diegetici.

Senza entrare in questioni squisitamente linguistiche, vediamo ora comparativamente alcuni esempi che mettono in luce le scelte del traduttore e soprattutto le differenze di stile rispetto all’originale. Ciò fa emergere uno spazio intertestuale che dà conto di quanto i gesuiti fossero integrati nella cultura italiana e del loro desiderio di manifestare la loro piena appartenenza al paese che li aveva ospitati (questo risulta ancora più evidente se si tiene conto del fatto che José non era uno scrittore):

1) «Los griegos han entrado en la ciudad» (Montengón 1788: 9)

 

«i greci scorrono per la città» (Montengón 1790: 9)

2) «y que por todo esto se le debía» (Montengón 1788: 67)

 

«laonde gli era per tutti questi titoli dovuto (Montengón 1790: 65)

3) «y no tardó a descargar con animado furor el empuñado cuchillo, hiriendo con él el seno de la víctima» (Montengón 1788: 62)

 

«Ed agitato dal furore di presente dà di piglio al sacerdotale coltello, e già glielo immerge nel candido seno» (Montengón 1790: 61)

4) «Para que les fuese favorable en la vuelta de las naves a la Grecia» (Montengón 1788: 63)

 

«onde essere loro propizio nel felice ritorno delle navi ai grechi lidi» (Montengón 1790: 61)

5) «Este, después de haber tenido los ojos fijos en el suelo y los ánimos en mayor suspensión, comenzó» (Montengón 1788: 67)

 

«Questi, dopo ch’ebbe lungo tratto gli occhi fitti nel suolo, e però in maggior sospensione essendo gli animi degli ascoltanti, cominciò» (Montengón 1790: 65)

6) «y concluyó diciendo» (Montengón 1788: 67)

 

«alla per fine accertò tutti» (Montengón 1790: 65)

7) «se habían salido del bosque las ovejas» (Montengón 1788: 71)

 

«Le pecore fuori dal bosco ite sen’erano» (Montengón 1790: 69)

8) «Que eran cabalmente aquellos dones […] los que él quería» (Montengón 1788: 84)

 

«quei doni e quei tesori […] eran quei dessi, di cui egli ne giva in traccia» (Montengón 1790: 81)

9) «Es justo que indague la verdad en su fuente para tomar sus debidas precauciones» (Montengón 1788: 124)

 

«gli è però giusto, che la verità ne indaghi al suo fonte, onde prender possa le dovute precauzioni» (Montengón 1790: 116)

Negli esempi riportati compaiono alcune delle soluzioni più frequenti del traduttore. In particolare, è possibile notare la peculiarità delle scelte lessicali (latinismi, arcaismi, ecc.); l’introduzione di aggettivi (assenti nell’originale) che tendono ad esaltare l’aspetto plastico delle scene descritte rendendo più ricercata la prosa; la maggior complessità sintattica di alcuni enunciati; l’abbondanza di procedimenti retorici. Tutto ciò non modifica il testo sul piano dei contenuti (se non incidentalmente), ma è orientato piuttosto al raggiungimento di un maggiore effetto stilistico. Il risultato soddisfa lo scopo che il sacerdote si era prefisso, anche se, per il lettore moderno, la lettura può risultare in diverse occasioni più faticosa rispetto a quella dell’originale.

Concludendo, possiamo affermare che la prosa della traduzione esibisce la capacità del suo autore di dialogare con disinvoltura con la tradizione culturale del paese che l’aveva accolto, consapevole di possedere una padronanza amplia e approfondita della lingua italiana e del suo uso letterario.

Bibliografia

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Note

[1] «I ripetuti, anche se inutili tentativi di Montengón di sottrarsi alla espulsione decretata da Carlo III, appellandosi alla sua qualità di semplice novizio, attestano a sufficienza […] la sua qualità di laico e nel contempo sottolineano l’avvenuta rottura con la Compagnia ed il disagio spirituale del giovane alicantino» (Fabbri 1972: 11). Aggiunge inoltre Carnero: «fue llevado a la fuerza por negligencia de las autoridades que dispusieron el embarque en Tarragona» (Carnero 1990: 29).

[2] In quell’epoca il territorio peninsulare era suddiviso in quattro province: Aragona, Castiglia, Toledo e Andalusia.

[3] Tra i primi testi del suo teatro fisedico segnaliamo: EduigiCleoniceIrene, Don Rodrigo, stampati nel 1783. Inoltre, ebbe un grande successo di pubblico Ladislao, rappresentato nel 1796.

[4] Il conte Pepoli morì a soli 39 anni il 12/12/1796 a Venezia. Riposa tuttora nella chiesa della Santa Trinità di Firenze.

[5] Segre, elaborando le considerazioni di Bachtin, distingue tra intertestualità (che indica i rapporti tra testo e testo) e interdiscorsività che si riferisce alla relazione che ogni testo «intrattiene con tutti gli enunciati (o discorsi) registrati nella corrispondente cultura ed ordinati ideologicamente, oltre che per registri e livelli» (Segre 1982: 23-24). 

About the author(s)

Luigi Contadini teaches Spanish Literature at the University of Bologna. His areas of research include the phenomenological aspect of literary representations of contemporary writers, the literature of trauma and memory concerning the Spanish Civil War and the Francoist repression and various themes of the Eighteenth Century Spanish (memorial, epic, celebratory poetry, travel literature). He is promoter and organizer of the series of congress on Plural Spain (meetings and conflicts of languages and cultures) organized by the Department of Modern Languages, Literatures and Cultures.

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©inTRAlinea & Luigi Contadini (2019).
"Alcuni aspetti delle relazioni culturali tra Italia e Spagna nel ‘700: intorno alla traduzione dell’Antenor di Pedro Montengón effettuata dal fratello José"
inTRAlinea Special Issue: Le ragioni del tradurre
Edited by: Rafael Lozano Miralles, Pietro Taravacci, Antonella Cancellier & Pilar Capanaga
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