La scrittura al centro del percorso di formazione di un mediatore linguistico e di un traduttore

By Francesca Gatta (Università di Bologna, Italy)

Abstract

English:

This paper focuses on writing as a means of developing a capacity to reflect on language and language use − that is, as functional to acquiring an ability to reason about and reflect on one’s own linguistic behavior, a reflection that necessarily starts from one’s mother tongue. It describes how, starting from the concrete dimension of “writing as doing” (a perspective forwarded by Daniela Zorzi), instrumental writing was used in an Italian Linguistics seminar. I argue that written and oral communication, together with text comprehension, are central to interpreter and translator training, and support this view by drawing on examples from students’ written production.

Italian:

Il contributo si sofferma sulla scrittura come strumento per sviluppare la riflessione linguistica, cioè come strumento funzionale all’acquisizione della capacità di ragionare e di riflettere sui nostri comportamenti linguistici, una riflessione che può svilupparsi solo a partire dalla propria lingua madre. L’uso strumentale della scrittura nel seminario che affianca il corso di Linguistica italiana consente di sviluppare questa capacità partendo alla dimensione concreta del “fare”, come auspicava Daniela Zorzi. Argomenti come la comunicazione scritta e quella orale, la comprensione del testo, e così via, sono argomenti centrali nel percorso formativo della mediazione e sono argomenti che possono trovare altra evidenza se affrontati partendo dalla produzione scritta degli studenti.

Keywords: writing, text comprehension, mother tongue, scrittura, comprensione del linguaggio naturale, lingua madre

©inTRAlinea & Francesca Gatta (2018).
"La scrittura al centro del percorso di formazione di un mediatore linguistico e di un traduttore"
inTRAlinea Special Issue: Translation And Interpreting for Language Learners (TAIL)
Edited by: Laurie Anderson, Laura Gavioli and Federico Zanettin
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2307

1. La scrittura nel percorso universitario

La scrittura può entrare in molti modi all’interno di un percorso di formazione per un mediatore linguistico, e in generale, in un corso universitario di discipline umanistiche: può essere il fine dell’insegnamento oppure il mezzo per sviluppare la riflessione linguistica[1]. Nel primo caso il percorso formativo si prefigge l’acquisizione e il rafforzamento di un’abilità a cui – com’è noto – la scuola secondaria italiana non dedica la dovuta attenzione; nel secondo caso, invece, la scrittura non è il fine, ma è uno strumento prezioso per fare riflettere lo studente sulla sua lingua madre e sviluppare quella abilità di secondo grado che è la consapevolezza linguistica, «non la capacità di fare, ma la capacità di capire che cosa si fa, e che cosa accade nell’oggetto del proprio fare, nel caso particolare nell’espressione linguistica» (Prandi, 2011:713). È opportuno avere chiare queste due finalità (che possono naturalmente coesistere in un seminario) perché il percorso didattico deve necessariamente essere calibrato in modo diverso (e diverse devono essere le attese rispetto al percorso dello studente e diversa deve essere la valutazione).

1.1. Prologo

Quando ho cominciato a fare i corsi di scrittura assieme a Daniela Zorzi e a Fabrizio Frasnedi presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università di Bologna, a metà degli anni novanta (tempi pionieristici per la didattica della scrittura in università), l’obiettivo del seminario era di rafforzare questa abilità in vista della formazione professionale dei futuri interpreti e traduttori: i laboratori di scrittura, destinati a gruppi di trenta studenti, affiancavano i corsi più teorici di Linguistica italiana e di Linguistica applicata ed erano declinati diversamente a seconda della personalità dei docenti coinvolti[2]. Per Frasnedi[3], lo scopo ultimo era aiutare gli studenti a fare emergere e a scoprire la pronuncia unica della loro voce attraverso esercizi di scrittura di carattere saggistico, esercizi cioè in cui si chiedeva allo studente di dare una risposta personale alle “provocazioni” di un testo accuratamente scelto e commentato in aula. Più tardi ho capito che in questa dinamica era vivo il ricordo delle lezioni del poeta Gaetano Arcangeli seguite nelle aule del Liceo Galvani di Bologna, considerate da Frasnedi un modello inarrivabile: Arcangeli si limitava a leggere una poesia (Baudelaire era tra i preferiti) e, fissando negli occhi lo studente, gli rivolgeva la terribile domanda: “e lei, che cosa ne pensa?” Daniela, pur avendo frequentato lo stesso liceo negli stessi anni, aveva invece uno scopo diverso: la sua didattica era finalizzata a fare sì che ciascuno studente traesse qualcosa dal laboratorio, cioè era una didattica mirata ad insegnare a tutti gli studenti, ad aiutarli ad affrontare le prove successive con una solida competenza di base. Ed era incredibile la varietà di esercizi che inventava, riuscendo a portare tutto il gruppo ad un livello accettabile, trascinandosi dietro tutti, senza lasciare indietro nessuno, perché la sua didattica partiva sempre dalle capacità e dalla produzione dello studente, non lo studente astratto che il docente ha in testa, ma lo studente reale, con le sue mancanze e le sue imprevedibili risorse. D’altra parte negli infiniti ricevimenti a cui assistevo, condividendo lo studio con la collega, la domanda rivolta allo studente era quasi sempre: “E tu che cosa ne sai?”.

Questi due modelli di insegnamento della scrittura (e non solo), alle volte vivacemente messi a confronto da Fabrizio e Daniela, sono rimasti vivi e produttivi per me nel corso degli anni. L’insegnamento elitario di Frasnedi è riemerso nel corso Tecniche di scrittura saggistica della laurea magistrale di Traduzione specializzata (cessati ora entrambi, sia il corso che il corso di studi): la matrice fortemente individuale alla base dell’autentica scrittura saggistica (secondo Adorno, 1992) richiedeva un percorso che muovesse da una consapevolezza della personalità e della individualità dello scrivente, una presa di coscienza facilitata dal confronto con la lettura di altre scritture saggistiche, cioè di altre individualità.

La lezione viva di Daniela, immediatamente chiara da un punto di vista metodologico ma di difficile realizzazione per me, è stata quella di una didattica che superasse la tradizionale lezione ex cathedra e si orientasse verso un modello in cui il sapere viene costruito attraverso l’interazione con lo studente. Questa scelta non era certo diffusa nell’università italiana degli anni novanta, ma era, per così dire, fortemente sollecitata dal contesto in cui avvenivano i nostri insegnamenti, cioè un corso con fini professionalizzanti, che imponeva di ripensare profondamente la prassi didattica; oggi, grazie al costruttivismo (Papert, 1994) e al connettivismo (Siemens, 2004), la dimensione collaborativa e l’interazione fra i partecipanti al processo, la collaborazione nella costruzione della conoscenza sono parole d’ordine diffuse, non ultimo perché ben si sposano anche alle nuove possibilità offerte dallo sviluppo della rete (non più deposito delle informazioni, ma luogo di interazioni fra utenti). Ma è il nuovo scenario in cui avviene la trasmissione del sapere a imporre un ripensamento generale della didattica. Michel Serres (2012), nel suo Petite Poucette (più trasparente il titolo italiano, Non è un mondo per vecchi. Come i ragazzi rivoluzioneranno il sapere) sostiene che le stesse aule universitarie ad emiciclo sono oramai inadeguate perché rappresentano simbolicamente una didattica in cui il professore è al centro, depositario unico di un sapere difficilmente accessibile, religiosamente ascoltato dai discenti. Nell’era di internet la conoscenza è ovunque, a disposizione di click e a disposizione di tutti, e dunque il modello tradizionale della didattica diventa obsoleto e deve essere ripensato, a partire dalla divisione simbolica dello spazio dell’aula. Il chiacchiericcio diffuso che accompagna spesso le lezioni è – secondo Serres – un sintomo di questo mutamento: il professore non è più l’autorevole depositario del sapere, perché il sapere è ovunque; altro deve essere, dunque, il suo ruolo. D’altra parte, erano le nuove possibilità offerte della stampa che fecero dire a Montaigne che era meglio una «testa ben fatta»[4] che una «testa ben piena»: le nozioni erano depositate e conservate nei libri, non più nella testa.

2.  La scrittura al servizio della riflessione linguistica

Nel corso degli anni i seminari di scrittura sono spariti per tante ragioni, a partire dal venir meno delle risorse. La scrittura tuttavia rimane diluita all’interno del corso di Linguistica italiana con lo scopo di rendere consapevoli gli studenti della conoscenza approssimativa della loro lingua madre e come strumento per “fare passare” determinati contenuti teorici prendendo spunto dalla prassi concreta degli studenti (mostrando così la “necessità” della teoria).

Questo uso “strumentale” della scrittura è nato in seguito alle difficoltà emerse nei seminari di scrittura e nei corsi di teoria dell’argomentazione: diventava, infatti, sempre più difficile assegnare esercizi di rielaborazione, trasformazione e analisi argomentativa di testi; non riuscivo mai a soffermarmi sulla produzione dello studente o a descrivere la strategia argomentativa di un testo (è un testo ben costruito? Coeso? Coerente? Le informazioni sono bene distribuite? I paragrafi? Quali gli argomenti? Quali le premesse del ragionamento, e così via) perché il problema si presentava sempre a monte e consisteva nella mancata comprensione del testo. Senza scomodare la letteratura scientifica[5] che descrive le mancanze degli studenti (anche universitari) messi di fronte alla sintesi e alla riformulazione di un testo, è sufficiente proporre la lettura di un articolo di giornale di taglio ironico o brillante per accorgersi che il testo viene spesso frainteso, nel senso che lo studente non è in grado di cogliere l’ironia veicolata da scelte linguistiche e stilistiche. Al di là della difficoltà di cogliere l’ironia e di interpretarla, rimane il fatto che il più delle volte lo studente non riconosce determinate scelte linguistiche (lessico, domande retoriche, ecc.) come segnali e spie di un discorso che in realtà vuole dire “altro”.

In questo contesto, la scrittura diventa un mezzo per riflettere concretamente, partendo dal punto di vista dello studente, sulla comprensione; in particolare consente di riflettere su complessi e articolati rapporti fra frasi, testo e destinazione funzionale nell’organizzazione complessiva del significato e del senso. Comprensione del testo e rielaborazione; testo di partenza e testo finale: sono queste le dinamiche al centro del processo della mediazione che rendono centrali queste attività nel percorso di formazione dei futuri mediatori.

2.1. Un possibile percorso didattico

Il seminario che si appoggia sulla scrittura (20 ore, rivolto a gruppi indicativamente di 90 studenti) affianca le lezioni di Linguistica italiana che hanno come oggetto la descrizione dell’italiano contemporaneo e – sullo sfondo – il rapporto fra norma e variazione linguistica: alcuni argomenti trattati nel corso vengono ripresi e approfonditi nel seminario in un’altra prospettiva teorica, illustrandone altre ricadute e implicazioni. Per esempio, la riflessione sulla diamesia, il rapporto scritto/orale, così importante e significativo nell’italiano sia in diacronia sia in sincronia, è uno degli argomenti che viene ripreso e sviluppato a fondo nel seminario perché consente di riflettere su come funzioni diversamente la comunicazione scritta rispetto a quella orale, su quale sia il ruolo del contesto nella comunicazione orale e in quella scritta, e non ultimo, su come funziona la lingua nell’orale e nello scritto (per esempio, la deissi). Affrontare questi punti può avere ricadute positive anche sulla produzione degli studenti, se non altro per la consapevolezza acquisita di che cosa significa comunicare tramite la scrittura.

Di seguito, si dà conto dei principali punti sviluppati nel seminario attraverso attività di scrittura nel primo semestre dell’a.a. 2017-2018.

2.1.1. Il test di ingresso

Come anticipato, la funzione principale del test di ingresso è quella di rendere consapevole lo studente delle sue difficoltà nella lingua madre e di offrire al docente un quadro attendibile dei problemi e del livello degli studenti per trarre indicazioni utili su come costruire il percorso didattico. A differenza degli anni precedenti in cui il test d’ingresso era piuttosto articolato (si veda Gatta & De Santis, 2013; Gatta & La Forgia, in stampa) perché finalizzato anche ad una indagine più approfondita sulle competenze grammaticali e testuali delle matricole in uscita dalle scuole superiori, nell’anno qui considerato si è proposto un test molto semplice, visto l’uso soprattutto “interno” e strumentale del test.

La scelta dell’articolo di giornale è caduta su uno dei corsivi quotidiani di Michele Serra per La Repubblica (evitando corsivi che richiedessero troppe conoscenze enciclopediche, che avrebbero potuto creare difficoltà allo studente): l’articolo (lo si legge in Appendice) commentava ironicamente un video, virale in rete, in cui durante un comizio elettorale in Canada, una donna interrompe un candidato sikh accusandolo di volere portare la sharia in Canada; invece di reagire, il candidato invita i presenti ad intonare una nenia a base di amore e perdono; Serra suggerisce/sostiene che ambedue i protagonisti meriterebbero il Nobel per l’idiozia e conclude invocando una soglia di ingresso alla vita pubblica. Il test chiedeva il significato di alcune parole e di indicare un sinonimo adeguato al contesto (equanime, nenia, ossessa, soccorrevole) e di riformulare l’espressione “levarsi dai corbelli” in un registro neutro: il senso di questo essenziale esercizio lessicale era soprattutto quello di costringere gli studenti a leggere con attenzione il testo per arrivare a rispondere con maggiore consapevolezza alle domande successive: di che cosa parla il testo? Qual è l’opinione dell’autore? Riformulate la frase finale (Una risposta più energica sarebbe stata, a ben vedere, anche più soccorrevole nei suoi confronti). Se l’esercizietto lessicale ha dato in generale buoni risultati, le domande successive hanno mostrato chiaramente che il testo non è stato compreso: è stata ignorata la componente ironica e paradossale veicolata dal lessico e dalla proposta finale dell’autore e di conseguenza il testo è diventato per quasi tutti una denuncia di un episodio di xenofobia; le risposte prevalenti alla domanda “di che cosa parla il testo?” sono state mediamente prolisse descrizioni e denunce della xenofobia e dell’ignoranza della donna (ignorando spesso che Serra considera entrambi esempi di stupidità) con aggiunte e considerazioni arbitrarie, non presenti nel testo. Di seguito, alcuni esempi tratti dai test. Da notare, nell’esempio 4, anche l’involontario controsenso, significativo esempio di una incapacità anche di rilettura e del fatto che spesso le parole sono un indistinto brusio di fondo:

(1)

Il testo parla di una signora dell’Ontario che irrompe in un comizio formato da induisti e, inconscia della differenza fra i due gruppi, li scambia per musulmani estremisti, inveendogli contro. Questo atteggiamento è visto molto negativamente dall’autore che auspica contromisure più severe.

 

(2)

Il testo parla della difficoltà di approccio tra due etnie a causa della scarsa informazione da parte di un soggetto, ma anche da parte del secondo, che non si rende conto della differenza dettate (sic) dalle culture a cui appartengono.

 

(3)

L’autore usa l’evento per esprimere il suo giudizio non soltanto sulle persone coinvolte ma anche su come egli ritenga che si debba reagire davanti a situazioni simili a quella descritta.

 

(4)

Il testo parla di tolleranza religiosa focalizzandosi sul fatto che, spesso, questa è la conseguenza di ignoranza e mancata informazione.

Altrettanto confusa risulta la formulazione dell’opinione di Serra, che diventa spesso una sintesi del testo. Inoltre nelle riformulazioni della frase finale, nella maggior parte dei casi, non si esplicitano gli impliciti (per esempio, non si disambigua l’aggettivo soccorrevole), anzi le rielaborazioni ne creano altri:

(5)

Una delucidazione da parte del candidato le sarebbe stata di grande aiuto.

 

(6)

Una risposta più concreta e chiara sarebbe stata sicuramente di maggior beneficio nei confronti della signora.

Infine, emergono ulteriori problemi di diverso tipo, a partire dal lessico impreciso (rivalutare diventa sinonimo di rivedere), dalla volontà di elevare il registro (responso), e dalla difficoltà di rimanere aderenti al testo:

(7)

Un responso di maggiore impatto l’avrebbe certamente aiutata a rivalutare le sue idee.

 

(8)

Rispondere in modo più deciso l’avrebbe sicuramente aiutato in maniera più efficace

 

(9)

Una delucidazione da parte del candidato le sarebbe stata di grande aiuto.

 

Come si può vedere e intuire da queste pur poche trascrizioni, gli spunti e le indicazioni su come sviluppare un percorso sono molteplici; non potendo affrontarli tutti visti i limiti di tempo e tenuto conto del numero di studenti in aula, si è scelto di approfondire il rapporto fra implicito ed esplicito: a monte di tutti i problemi che emergono dagli elaborati degli studenti, c’è infatti il problema diffuso di non riuscire a  produrre una sintesi comprensibile autonomamente (banalmente: se non ho letto il testo originale, non sono in grado di capire di che cosa si sta parlando), cioè di non esplicitare gli impliciti creati dalla scrittura perché non c’è chiarezza sul destinatario, non c’è consapevolezza sugli impliciti che il testo crea e l’assenza di questa consapevolezza si riflette sia sulla produzione scritta sia sulla comprensione del testo. La scelta di approfondire questo problema, in altre parole, dovrebbe avere ricadute positive su entrambi i fronti.

L’argomento è stato sviluppato a partire dai testi degli studenti: si è proposto infatti agli studenti di commentare e ragionare su alcune loro formulazioni della domanda n. 3 (di che cosa parla il testo?), che sono state trascritte e proiettate in aula. Si è anche approfittato per spiegare la differenza fra tema e opinione (di che cosa si parla? Che cosa si dice di quello specifico argomento?) introducendo anche la differenza di uso tra i verbi parlare e dire in italiano (X parla della manovra economica; X dice che è una manovra equa). La diversità delle risposte degli studenti ha inevitabilmente costretto a riprendere il testo di Serra e a riflettere su che cosa volesse dire (rassegnandoci all’idea che Serra per i nostri studenti sia un oscuro pensatore!), cioè a capire come il testo crea i suoi significati, quanta parte del significato è esplicita e quanta invece implicita, affidata all’inferenza del lettore. Si è anche definito il genere testuale, ricondotto a grandi linee alla tipologia argomentativa, un’argomentazione che anch’essa può essere implicita o esplicita. Nel testo di Serra, l’opinione è espressa, sostenuta da un esempio, un esempio che richiede una generalizzazione che ne espliciti il valore (storiella esemplare di cosa? Della stupidità) e sia dunque funzionale all’opinione dell’autore (la richiesta paradossale di stabilire una soglia d’ingresso alla vita pubblica). Avendo messo a fuoco i legami logici del testo, la sua costruzione argomentativa, si è chiesto in un secondo momento di fare il riassunto del testo in un paragrafo (e anche di fare un tweet che sintetizzasse il senso del testo). Prima di chiedere la sintesi si è affrontato il problema di come si fa un riassunto, arrivando alla conclusione condivisa che il riassunto dipende dal tipo di testo da riassumere e dallo scopo con cui riassumo: in questo caso, è necessario che la sintesi riproponga l’opinione dell’autore e i legami logici dell’articolo (e dunque l’episodio di cronaca va ripreso sinteticamente sottolineandone il valore di spunto) senza però farsi carico dell’intonazione ironica e sopra le righe dell’originale (distanziandosi cioè dalla voce dell’autore attraverso scelte linguistiche neutre). La richiesta di fare un riassunto è funzionale alla necessità di avere materiale di cui discutere nelle lezioni successive (verifica della comprensione e della fedeltà al testo di partenza; introduzione del concetto testuale di paragrafo) e a dare continuità all’esercizio della scrittura.

La discussione sul testo di Serra ha creato il presupposto per introdurre la descrizione teorica di come funziona la comunicazione: a grandi linee è stato esposto e illustrato lo schema di Jackobson (1966), arricchito da esemplificazioni di come la comunicazione possa avvenire anche senza le parole e di come spesso il senso di un messaggio sia veicolato anche da altre informazioni implicite e legate al contesto. Su di una esemplificazione molto semplice, calata nella quotidianità, si è ragionato su come comunichiamo e su quanta parte della comunicazione è sottintesa, lasciata ad intendere, e su come certe scelte linguistiche siano funzionali a ridurre e limitare il più possibile la parte sottintesa o implicata di un testo, cioè come la gradazione implicito/esplicito possa essere regolata tramite determinate strutture linguistiche (un possibile sviluppo di questo argomento potrebbe essere la classificazione dei testi proposta da Sabatini, basata sul vincolo interpretativo, cioè su strutture elastiche e strutture rigide). Per illustrare questi passaggi è utile mostrare brevi dialoghi decontestualizzati, oppure fare esempi di comunicazioni non riuscite da cui trarre spunto per capire come si creano gli impliciti e che ruolo ha il contesto, per capire il ruolo delle aspettative e infine per capire come molte nostre scelte linguistiche affondino le radici nella nostra cultura (che può non essere quella del nostro interlocutore). Un esempio grandioso della progressiva esplicitazione linguistica del messaggio è il dialogo finale di Some like it Hot (1959, Billy Wilder), dal “Non posso sposarti” iniziale di Jack Lemon fino alla battuta finale, detta con la voce da uomo e senza la parrucca, “Ma non capisci proprio niente! Sono un uomo!” La sintesi finale di queste riflessioni sulla comunicazione è rappresentata dall’introduzione dell’etichetta “pragmatica”, che non è in conflitto con le altre prospettive teoriche che si occupano di lingua, ma le completa, evidenziando aspetti non rilevanti per le altre teorie; per parafrasare quanto diceva il grande direttore d’orchestra Bruno Walter a proposito delle interpretazioni delle sinfonie di Mahler di altri direttori, “scaliamo la stessa montagna ma da versanti diversi”.

Il vantaggio di questo percorso dal “basso” è che determinati concetti (contesto; esplicito / implicito; e così via) hanno un significato condiviso, negoziato, con gli studenti e dunque è più probabile che possano diventare “operativi” nella loro produzione e analisi. È difficile infatti segnalare ad uno studente che il testo non è coeso se questo concetto non rinvia a qualcosa di preciso (e così non diventerà mai uno strumento di controllo della loro produzione scritta). I passaggi successivi consistono in un approfondimento della differenza fra scritto e parlato e dell’introduzione di elementi di linguistica testuale, funzionali al controllo della propria produzione scritta e strumenti necessari per imparare a rileggersi. La revisione in aula dei riassunti del testo di Serra (e degli altri testi prodotti dagli studenti) ha anche questo scopo, cioè di insegnare agli studenti a rileggersi e a valutare autonomamente se un loro lavoro è accettabile o no. Per insistere su questo punto, i lavori degli studenti non vengono ritirati, ma sono conservati in un dossier che deve essere portato al colloquio orale; gli studenti, inoltre, sono incoraggiati a rivedere i loro lavori, a tenere traccia delle diverse versioni ed eventualmente a discuterli con i colleghi.

2.1.2. Scritto e orale

Insistere sulla differenza fra orale è scritto è una necessità che emerge ancora dai testi degli studenti: le sintesi continuano a non essere “staccate” dall’originale, ad avere rinvii impliciti che un lettore che non ha letto il testo originale non è in grado di interpretare. Per questo si è chiesto di trascrivere un’intervista orale, di rielaborare domande e risposte per rendere l’intervista pubblicabile su di una rivista e infine – come ultimo passaggio verso lo scritto autentico – di riassumere due risposte producendo un testo strutturato in due paragrafi. Si è scelto l’incontro di Umberto Eco con i giornalisti a seguito del conferimento della laurea honoris causa dall’università di Torino (su YouTube, Internet, social media e giornalismo, pubblicata l’11 giugno 2015).

Ogni passaggio è stato commentato in aula: il parlato semplicemente trascritto (e le sue caratteristiche), improponibile alla lettura senza precisi interventi; la rielaborazione delle prime due risposte finalizzate alla pubblicazione dell’intervista su di una rivista (in questo caso si è controllata la comprensione e si è ragionato su quali tratti dell’orale andavano eliminati); infine la rielaborazione dei contenuti delle due domande in un testo costituito da due paragrafi (la domanda diventa la frase tematica del paragrafo; e sulla base della frase tematica si riorganizzano i contenuti). Negoziati i contenuti essenziali da riprendere nella sintesi, si è chiesto di aggiungere un raccordo, cioè una frase tematica, nel paragrafo che consentisse di articolare con chiarezza i singoli punti trattati da Eco. Si è chiesto, in sostanza, di prestare la massima attenzione alla struttura del testo, compreso il rapporto fra i due paragrafi.

Accanto a buone sintesi (la numero 10), molte rielaborazioni mostrano la difficoltà degli studenti a pensare al testo nel suo complesso, cioè a produrre un testo coeso, in cui la progressione tematica sia chiara (es. 11 e 12).

(10)

Dal momento che Internet è un terreno fertile per le “bufale”, secondo Umberto Eco il problema centrale di oggi è vagliare criticamente le informazioni che provengono dalla rete. Sia i giornali sia le scuole rivestono un ruolo importante: i primi dovrebbero servirsi di esperti e dedicare due pagine ogni giorno al confronto fra i diversi siti; nelle scuole, invece, i professori dovrebbero incentivare gli studenti a copiare, ma da più siti, costringendo così gli studenti a confrontare le fonti.

 

(11)

Nonostante Internet sia un terreno fertile per le “bufale”, spesso i giovani lo utilizzano come fonte primaria di informazione. Secondo Eco, è importante insegnare a trovare un modo per insegnare a filtrare le informazioni lette sui siti. Eco suggerisce che i giornali dovrebbero dedicare due pagine al giorno all’analisi critica dei siti internet e alla distinzione delle bufale dalle notizie attendibili. A livello scolastico, invece, ritiene che gli insegnanti dovrebbero invitare gli studenti a copiare liberamente da Internet, ma chiedergli di utilizzare almeno dieci siti diversi come fonte, in modo da portarli ad accorgersi delle contraddizioni presenti nei testi e quindi affrontare il problema dell’analisi critica.

 

(12)

Umberto Eco sostiene che i giovani non siano in grado di filtrare le informazioni presenti nello sconfinato mondo di internet. Egli suggerisce che i giornali si prendano carico dell’educazione di questi tramite la pubblicazione quotidiana di un’analisi critica dei siti, cosa per cui i professori di scuola, specializzati in una sola disciplina, non hanno competenza. I docenti, suggerisce Eco, possono però chiedere agli studenti di attingere informazioni da una decina di siti internet, invitandoli quindi a fare un’operazione di analisi critica.

Senza entrare troppo nel merito degli ultimi due esempi, che ovviamente mostrano problemi di varia natura, sono evidenti le difficoltà nella distribuzione delle informazioni e nella strutturazione del testo (vistosamente poco coesi); molti studenti non riescono ad esporre con ordine, in modo lineare i concetti presenti nel testo. Problema diffuso, e non banale, basti pensare alla difficoltà di fare raccontare oralmente un film o una serie televisiva!

2.1.3. Sapere scegliere e organizzare le informazioni

 Il passaggio successivo del percorso si propone di forzare lo studente a trovare una scrittura espositiva chiara che sia supportata da una altrettanto chiara articolazione del testo. Consegnata una tabella che riporta i dati di un sondaggio, si è chiesto di trasformare la tabella in un articolo, cioè di esporre i dati senza utilizzare la tabella, e quindi di passare da una rappresentazione visiva delle informazioni ad una discorsiva. I primi riscontri di questo esercizio mostrano ancora una volta la difficoltà da parte degli studenti di pensare ad un destinatario e dunque di organizzare le informazioni in maniera leggibile: mancano informazioni essenziali (per esempio, la finalità e le modalità con cui è stato condotto il sondaggio) e i testi sono un lungo elenco di dati, un pulviscolo di cifre senza alcuna generalizzazione che possa guidare il lettore e rendere significativi i numeri. E questo ribadisce la necessità (e l’utilità didattica) di sottolineare la dimensione comunicativa che fa da sfondo alla scrittura: solo così può passare l’idea che si scrive per qualcuno, ed è necessario provare ad immaginare “l’altro” per strutturare il testo (quali informazioni e come) in modo da agevolarne la comprensione da parte dell’altro.

2.1.4. Valutazione del percorso e conclusioni

Il seminario si è concluso con una prova finale in aula: si è chiesto di riassumere in un paragrafo un articolo di Ilvo Diamanti (Il Paese dei campanili così legato alle tradizioni "Noi prima di tutto italiani", La Repubblica, 22 novembre 2017) dopo avere definito l’argomento del testo e l’opinione dell’autore. La valutazione complessiva del seminario è stata fatta sulla prova finale e su un testo del dossier ritirato (il riassunto di Eco). Sono state considerate positive le prove in cui emerge la comprensione del testo. Gli altri testi del dossier saranno controllati al colloquio orale dedicato principalmente alla discussione dei contenti teorici affrontati nel seminario.

Alla luce di questa esperienza oramai pluriennale, l’uso della scrittura come strumento per fare passare determinati concetti teorici sulla lingua mi sembra produttivo ed efficace, forse non per raggiungere un livello più alto e sicuro in questa abilità, ma per sviluppare una maggiore consapevolezza riguardo al proprio agire linguistico attraverso un percorso costruito e condiviso con gli studenti.

Appendice

ESISTESSE un Nobel per l'Idiozia, un buon candidato sarebbe la signora dell'Ontario che ha fatto irruzione al comizio di un candidato indiano sikh accusandolo di voler introdurre la Sharia in Canada. Ma un secondo candidato — per essere equanimi — potrebbe essere lo stesso indiano sikh, che anziché invitare la signora, cortesemente, a valutare il fatto che lui non è musulmano, ma induista, e a levarsi immediatamente dai corbelli (termine interreligioso), invita i presenti a essere cortesi con l'ossessa, intonando una specie di nenia a base di "amore e coraggio" (la scena è rintracciabile su Repubblica. it, ed è imperdibile). Mettiamola così: dovrebbe esserci una soglia di ingresso, per partecipare alla vita pubblica. La xenofoba paranoica che rinfaccia a un induista di essere dell'Isis (si sa, è tutta gente con barba e turbante) non avrebbe il diritto né di prendere la parola in un'aula pubblica, né di uscirne senza essere accompagnata da un buon medico o da un buon insegnante di geografia, meglio se da entrambi. Perché la cosa veramente tragica, nella comica vicenda, è che la signora ha potuto uscire da lì nelle stesse precise condizioni di invalidità mentale nelle quali era entrata: ovvero convinta che un induista sia musulmano. Una risposta più energica sarebbe stata, a ben vedere, anche più soccorrevole nei suoi confronti.

Michele Serra, La Repubblica, 12 settembre 2017

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Siemens, G. (2004), Connectivism: A learning theory for the digital age, [url=http://www.itdl.org/Journal/Jan_05/article01.htm]http://www.itdl.org/Journal/Jan_05/article01.htm[/url]

Zorzi, D. (1997), Presentarsi all’università, in Italiano&oltre, XII: 158-161.

Notes

[1] Mi permetto di rinviare a Gatta (2016).

[2] A questa esperienza fa riferimento il breve articolo di Daniela, Presentarsi all’università (Zorzi, 1997).

[3] La visione dell’educazione linguistica di Frasnedi è chiaramente esposta – a giudizio di chi scrive – nel volume Leggere per scrivere (Frasnedi, 1994).

[4] Le considerazioni di Montaigne sono raccolte nei capitoli XXV (Della pedagogia) e XXVI (Dell’educazione dei fanciulli) del Primo libro dei Saggi (si legge l’edizione italiana, Milano 1992)

[5] Ci si limita a ricordare, oltre le periodiche indagini dell’OCSE (2014 e 2015), Bozzone Costa & Piantone, 2000; Desideri et al., 2010; Serianni, 2010 e 2013; De Santis & Gatta, 2013.

About the author(s)

Francesca Gatta teaches Italian Linguistics at the Department of Interpreting and Translation, University of Bologna (Forlì campus). Her main research interests lie in the area of historical linguistics, where she has worked primarily on the language of the theatre, in particular melodrama and cinema (Il teatro al cinema. La lingua del cinema degli anni Trenta, 2008) and on that of 20th century Italian literary writers (Stefano D’Arrigo, Italo Calvino, Giovanni Celati) and essayists. She has also published on contemporary Italian and on the teaching of Italian.

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©inTRAlinea & Francesca Gatta (2018).
"La scrittura al centro del percorso di formazione di un mediatore linguistico e di un traduttore"
inTRAlinea Special Issue: Translation And Interpreting for Language Learners (TAIL)
Edited by: Laurie Anderson, Laura Gavioli and Federico Zanettin
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2307

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