La traduzione e i suoi paratesti: introduzione

By Gabriella Catalano e Nicoletta Marcialis (Università di Roma Tor Vergata, Italy)

©inTRAlinea & Gabriella Catalano e Nicoletta Marcialis (2020).
"La traduzione e i suoi paratesti: introduzione"
inTRAlinea Special Issue: La traduzione e i suoi paratesti
Edited by: Gabriella Catalano & Nicoletta Marcialis
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I paratesti non vanno mai sottovalutati, ci ha insegnato Gérard Genette nel celebre studio del 1987[1]. E non andrebbero mai tralasciati neppure quelli relativi ai testi tradotti. Designati, anche questi, a modulare l’accesso al testo, lo fanno però in modo diverso, incentrato in larga parte sulla figura del traduttore, che li usa sia per condividere con i lettori le dolorose rinunce cui è stato costretto (per elaborare pubblicamente il lutto della perdita, come direbbe Paul Ricoeur), sia per chiarire le proprie scelte ad ampio raggio: perché importare quell’autore e quel testo? Quale il senso e l’orizzonte di questa decisione?

Non compresi nell’attenta disamina del critico francese, i paratesti della traduzione, pure se finora poco indagati, rivelano sempre più, e con ogni evidenza, il loro significato imprescindibile per gli studi di storia e cultura della traduzione[2]. Dai titoli alle note, dalle introduzioni alle postille, sono i luoghi di un dialogo con il lettore in cui il traduttore prende le sembianze dell’autore, formula giudizi, suggerisce proposte per collocare poi a piè di pagina osservazioni puntuali riguardanti singoli lemmi. Lo fa esponendo in maniera più o meno esplicita il profilo del mediatore, rivendicando così la propria presenza autoriale. Se i titoli tradotti sono assai spesso il risultato di una negoziazione a cui partecipa in maniera decisiva l’editore, gli altri paratesti, seppure più nascosti, appartengono al prodotto finale. Il suo paratesto racconta il transitare da una cultura all’altra, guida a comprendere l’orizzonte in cui si è attuato quel transfer. Rappresenta, in altre parole, la forma di un’appropriazione, voluta e consapevole, elargita a chi legge, con l’intento di indirizzare la sua attenzione verso il percorso che il traduttore e il testo hanno intrapreso insieme per giungere fino a lui.

Nella molteplicità dei luoghi il paratesto declina le sue differenti funzioni. Il traduttore può aprire e chiudere il volume firmando introduzioni e postfazioni in qualità di critico e curatore, utilizzare annotazioni a margine per supportare le proprie scelte o per dare conto dei realia lasciati in lingua originale, accludere un glossario o suggellare in una nota finale il bilancio di quanto ha compiuto. Ogni paratesto ha la propria collocazione che, a riprova del suo ruolo di guida alla lettura, può anche cambiare collocazione fra una edizione e un’altra, come spiega Flavia di Battista a proposito dell’ambizioso progetto di traduzione dell’intera opera di Hugo von Hofmannsthal, varato negli anni l’editore milanese Cederna e ripreso poi da Vallecchi.

Occuparsi di traduzione e paratesti significa perciò vagliare il campo di queste possibilità che, a loro volta, possono essere comprese solo se ci si fa carico di analizzarne il ruolo nella globalità del prodotto. Il paratesto si configura allora come luogo specifico e nello stesso tempo come spazio di una voce a latere che permette al traduttore di argomentare una lettura, attenta e accorta quante altre mai poiché, nel rivelare le dinamiche sottese al proprio lavoro, questi darà contezza di sé.

La conferma di tutto ciò può essere facilmente trovata nella finzione, lì dove non è l’autore fittizio a prendere la parola bensì il traduttore, altrettanto fittizio, come accade nella Gelehrtenrepublik di Arno Schmidt[3]. È lui – e non l’autore – che assume le vesti di narratore rivelando così, nello stesso tempo, sia l’interscambiabilità dei ruoli che la specificità della mediazione, resa tangibile altrove, lì dove prende posizione rispetto alla propria opera e/o a quella dell’autore, in tutti quegli interventi metatraduttivi di cui il traduttore è firmatario. Interventi che a loro volta propongono un’oscillazione fra autore e traduttore persino quando il nome del traduttore viene del tutto ignorato. È il caso, per fare un esempio emblematico quanto periferico, della traduzione di un autore tedesco del Settecento, oggi pressoché sconosciuto, August Wilhelm Iffland, inserita in una raccolta Teatro comico tedesco tradotto che esce a Livorno 1777. Nel riprendere una consolidata tradizione presente già nel titolo “Il traduttore a chi legge” (di cui nel suo saggio Sabine Schwarze ricostruisce la fenomenologia nell’arco del Settecento) il traduttore anonimo annuncia con ogni candore:

L’Alberto di Thurneisen, nel suo Originale, è una di quelle Tragedie, che nel Teatro Italiano si chiamerebbe Tragedia Urbana. Per quanto questo genere di produzione meriti molto, ciò non ostante, dal raffinato gusto Italico non vien di troppo applaudito.

Ciò premesso, senza nulla togliere all’Argomento, alla Condotta, ed agli Episodi della rappresentazione nominata, nell’insieme della quale campeggia, con dei tratti maestri, il genio sublime del celebre rinomato Autore; per renderlo un Dramma Sentimentale, e dargli un lieto fine, ho ardito unirvi di pianta l’ultima Scena.

A chi poi sembrasse proprio di rappresentarla a norma dell’originale, potrà terminarla con la Scena decima quarta dell’Atto quinto.

Il traduttore promuove in pratica due diverse versioni del finale, delle quali una è stata scritta da lui ex novo: per incontrare il favore del pubblico, ha optato per un cambiamento del genere di appartenenza trasformando la tragedia in commedia.

Certo, si tratta di un caso limite, legato alla ricezione specifica di un testo teatrale che, come mostra Jean Paul Dufiet per la contemporaneità, ha una vita tutta propria, legata all’utilizzo per la scena. Ma, per quanto estrema nel suo intento, la postilla del traduttore anonimo porta di nuovo a riflettere sulla funzione del paratesto: annunciando l’ardito intervento sul testo ed esponendone le ragioni, il traduttore intende prima di tutto avallare il proprio operato. In altre parole: nel suo rappresentare un caso limite, il paratesto del traduttore anonimo ricorda le occasioni in cui, nel luogo periferico di una nota o una premessa critica, la traduzione viene legittimata, caldeggiata o anche lodata (lo ricorda Valeria Bottone a proposito dell’introduzione di Ivanov alla versione in versi dell’Onegin realizzata da Lo Gatto).

Al di là della diversa collocazione, a partire da quella del titolo, la disposizione periferica dei paratesti rispetto al testo tradotto (non bisognerebbe ovviamente tralasciare anche gli interventi editoriali dalle bandelle al frontespizio, alla quarta di copertina) rivela però punti in comune: da un lato segna un confine ben netto, dall’altro dichiara un cambiamento di voce. Se, come spiega Silvia Capotosto, le note di Gioacchino Belli ai suoi sonetti romaneschi indicano la transizione dalla lingua orale a quella scritta, nel palesare il proprio ruolo l’autore/traduttore mostra la duplicità che lo contraddistingue: in quanto garante della trasmissione del testo tradotto e quale alter ego dell’autore. Ciò perché, nello spazio dei paratesti, l’ascolto del testo altrui non è sottoposto alle regole della riformulazione, ma consente la libertà guadagnata dalla scrittura in proprio. Se ogni traduzione sta nel segno duplice della continuità e della discontinuità, il passaggio dal testo al paratesto appare infatti come un passaggio autoriale: dal traduttore all’autore. Un passaggio, tuttavia, che, a ben vedere, può essere inteso anche come slittamento, cioè come cifra di un’ambivalenza che appartiene all’atto stesso del tradurre.

Come si è detto, l’attenzione rivolta ai paratesti in campo traduttivo ha rivolto finora attenzione a segnarne l’orizzonte, a circoscrivere gli ambiti riconoscendo l’oggetto attraverso l’esemplarità di singoli casi. Più in ombra sembra essere il piano di un’analisi diacronica su cui è bene invece tornare perché espressione di una storia del tradurre oggi più che mai sentita come parte integrante di ogni letteratura nazionale (come spiega Simona Munari a proposito della Francia del ‘600). E come per i titoli già Lessing, ricorda Adorno, aveva annunciato l’approdo all’era moderna in nome della brevità contro la natura prolissa e ornamentale del titolo barocco, le forme e la funzione dei paratesti vanno nel tempo cambiando. Il loro cambiamento è legato, non in ultimo, al sistema nazionale in cui il nuovo testo tradotto verrà recepito. La qual cosa rivela la loro necessaria presenza, visto che, attraverso discorsi, encomiastici o argomentativi che siano, ha il compito di supportare l’inserimento di testi stranieri nel sistema linguistico e culturale in cui sono rappresentati. Nei luoghi che accompagnano i testi viene chiarito il significato di una trasmissione e, con esso, implicitamente riconosciuto come l’arrivo e la presenza di un testo siano destinati giocoforza a cambiare lo status quo. L’inclusione di una novità apre la via alla trasformazione.

Lo stesso vale per la revisione o il rifacimento di vecchie traduzioni o la loro formulazione ex novo. Quando, come spesso oggi avviene, si ritraducono i classici e, come d’obbligo, se ne spiegano le ragioni, anche in questo caso il paratesto risulta utile a supportare il cambiamento. Ribadisce, ancora una volta. come il campo delle traduzioni viva di un dinamismo interno che induce a ripensare i testi immettendoli di volta in volta nel campo letterario di una nuova epoca.

In ogni caso, oggi come ieri, se il paratesto è un luogo di autoriflessione del traduttore, sarà altresì utile considerarlo come luogo della sua messa in scena come autore. È così che l’analisi dei paratesti può portare a ridisegnare a tutto tondo la figura del traduttore. La sua formazione intellettuale diventa un dato imprescindibile per comprenderne l’operato. Insomma, quello spazio a margine, e solo all’apparenza marginale, è dove il traduttore prende posizione rispetto al testo a cui ha dedicato il suo paziente lavoro, dove si confronterà in maniera diretta con l’autore. Il luogo in cui teoria e prassi della traduzione vengono a coincidere nel gesto critico che raccoglie il senso e lo consegna alla storia.

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I titoli tradotti sono assai spesso il risultato di una negoziazione a cui partecipa in maniera decisiva l’editore. Se ciò può valere anche per gli altri paratesti, è certamente il titolo l’oggetto principe delle preoccupazioni ‘commerciali’ degli addetti al marketing. Un interessante articolo di Ludovica Lugli, pubblicato online il 28 settembre 2016 su ilPostLibri[4], fornisce una ricca casistica di titoli “tradotti e traditi” introdotta da alcune considerazione generali che ci sentiamo di condividere in pieno:

Scegliere il titolo di un libro è sempre un’operazione complicata – come mostrano anche i casi in cui è stato cambiato all’ultimo momento, poco prima di andare in stampa – e può diventarlo ancora di più quando si tratta del titolo di un testo tradotto. In passato si tendeva a cambiarli radicalmente, mentre adesso le case editrici cercano di rispettare il titolo originale, soprattutto quando si tratta di testi letterari; per quelli più commerciali invece c’è più libertà, visto che per ragioni di marketing è più importante che il titolo sia efficace e intercetti subito i potenziali lettori.

Oggi i titoli tradotti in modo non letterale sono espressioni e modi di dire che non hanno un corrispettivo italiano, oppure neologismi nella lingua originale del testo (per esempio Herztier del premio Nobel Herta Müller, tradotto con Il paese delle prugne verdi, è una parola inventata che significa “la bestia nel cuore”), oppure perché un titolo diverso potrebbe funzionare e vendere di più.

Un altro fenomeno che sta prendendo piede (quando la lingua originale è l’inglese) è quello di non tradurre i titoli: casi famosi sono Fight Club di Chuck Palahniuk e Underworld di Don DeLillo. Questa tendenza è frequente anche per i film e le serie tv, e dipende dal fatto che conosciamo meglio l’inglese che in passato e che anche chi non lo parla bene conosce le parole comuni. Sempre grazie alla maggiore conoscenza dell’inglese, i lettori italiani sono diventati più sensibili alle traduzioni e spesso si aspettano che i titoli tradotti siano fedeli agli originali (e i dibattiti sui titoli tradotti male sono all’ordine del giorno).

Le diciannove schede proposte dall’autrice raccontano le peripezie di altrettanti titoli, da Il giovane Holden (il cui titolo originale Italo Calvino dichiara “intraducibile” in una nota all’edizione Einaudi 1961) a Il buio oltre la siepe, da L’importanza di chiamarsi Ernesto a Furore, da Delitto e castigo a La montagna magica. È interessante notare che una rosa ristretta di casi si può ricondurre a tipologie estremamente varie: il desiderio di attirare il lettore con un titolo dal suono familiare e/o facile da pronunciare e da ricordare (giovane Holden – giovane Törless – giovane Werther; la siepe di leopardiana memoria; American Dust, che non si chiama affatto così nell’originale americano); il desiderio di rendere il gioco di parole dell’originale (l’importanza di chiamarsi Franco); il desiderio di ingannare il lettore, spacciando Il profumo delle foglie di limone di Clara Sánchez per un romanzo di Delly[5]; la volontà di rispettare l’intenzione dell’autore (Dostoevskij o Thomas Mann) o viceversa la scelta di innovare, sia con il consenso dell’autore (pare che il titolo Auto da fé sia stato scelto proprio da Canetti per l’edizione inglese) sia senza, come è probabilmente avvenuto a Clara Sánchez.

Particolarmente interessante, e segno inequivocabile di una nuova fase nella storia della traduzione dei titoli, è la scelta compiuta nel 2012 dalla casa editrice Quodlibet, che nel tentativo di rendere più accattivante un classico ha ribattezzato l’Anabasi di Senofonte La spedizione verso l’interno. Se, come osserva Mario Caramitti nel suo contributo, nulla vieta che “la prima versione di un titolo possa passare inosservata, o essere presto dimenticata, oppure ignorata”, soprattutto quando apparsa fuori contesto, trasformare titoli entrati addirittura a far parte del fondo lessicale italiano, quali appunto anabasi (viaggio lungo e difficile) e odissea (serie di avventure, di peripezie, di disgrazie) rappresenta davvero una scelta rivoluzionaria. Cosa succederebbe se la CEI cambiasse titolo al vangelo?

Le valutazioni dell’editore dovrebbero essere sempre controbilanciate da quelle del traduttore. Nessuno meglio del traduttore, soprattutto quando si tratta di uno studioso, può sperare di interpretare correttamente le intenzioni dell’autore (soprattutto se ormai defunto), cercando loro una realizzazione adeguata nella propria lingua: è solo grazie al traduttore quindi che il titolo può divenire “le lieu privilégié de transactions interculturelles entre éditeurs, traducteurs et auteurs” (Risterucci-Roudnicky 2008: 30) di cui parla Bruno Berni nel suo contributo. Nel caso di Hans Christian Andersen, spiega Berni, “il titolo generale appare una scelta del tutto casuale nelle raccolte italiane, che per lo più ignorano la volontà autoriale e non rispecchiano la reduplicazione generica − Eventyr og Historier −, mentre sottolineano anche troppo spesso sia il destinatario infantile, sia lo sporadico contenuto fantastico”.

Questo non significa ovviamente che l’editore debba essere visto come un ‘lupo cattivo’, interessato solo alle vendite: come ben dimostra il contributo di Marco Federici Solari, la volontà di crearsi un “pubblico proprio” può avere motivazioni e finalità di alto profilo culturale, che si realizzano in genere attraverso l’organizzazione di una collana.

Né del resto la ‘volontà autoriale’ deve essere accolta come insindacabile ipse dixit: un esempio di volontà autoriale problematica su cui vorrei brevemente soffermarmi è offerto da uno dei capolavori di Ivan Turgenev, le famose Memorie di un cacciatore, cui spetta un posto non secondario nell’inventario dei titoli la cui storia si presenta sin dalle origini travagliata. Ecco uno specchietto delle rese che esso ha avuto nelle diverse lingue dell’Europa occidentale:

russo

Zapiski ochotnika

 

francese

Mémoires d’un Seigneur Russe, ou tableau de la situation actuelle des nobles et des paysans dans les provinces russes

Mémoires d’un chasseur

Récits d’un chausseur

Notes d’un chausseur

 

inglese

Russian Life in the interior, or The experiences of a Sportsman

A Sportsman’s Sketches

The Hunting Sketches 

Sketches from a Hunter’s Album

 

tedesco

Aus den Memoiren eines Jägern

Aus dem Tagebuch eines Jägern

Aufzeichnungen eines Jägers

 

spagnolo

Memorias de un cazador 

Relatos de un cazador 

 

italiano

Memorie di un cacciatore

Racconti di un cacciatore

 

Turgenev era un intellettuale europeo e perfettamente moderno: seguiva molto da vicino le vicende editoriali dei suoi libri, corrispondeva con i traduttori, giudicava il loro lavoro (era un poliglotta) come in anni recenti era solito fare Umberto Eco. La soluzione migliore per chi oggi volesse ritradurre il suo libro è controllare come si intitolasse la versione francese da lui autorizzata e apprezzata. E anche verificare come lui si riferisse alla sua opera (e non necessariamente alle edizioni a stampa) nelle lettere, soprattutto in quelle indirizzate alla donna della sua vita, Pauline Viardot. Scopriamo così che nella dimensione privata l’unica resa francese di cui lo scrittore faccia uso è Mémoires d’un chasseur. Ma tale è il fastidio provocato in lui dalla traduzione del 1854, Mémoires d’un Seigneur Russe, ou tableau de la situation actuelle des nobles et des paysans dans les provinces russes, da indurlo a pretendere che la nuova tradizione si intitolasse Récits d’un chasseur (1858). Che uso fare oggi di queste valutazioni autoriali?

E veniamo così alle conclusioni: se i paratesti tutti sono luoghi della mediazione interculturale, il titolo costituisce certamente il vertice del triangolo rappresentato da autore – traduttore – editore, il punto in cui il testo entra in contatto con il pubblico dei lettori, provocando reazioni di piacere o di fastidio, di curiosità o di indifferenza. E se a volte i frequenti cambiamenti nella traduzione di un titolo sono favoriti, come spiega Riva Evstifeeva, dalle caratteristiche del titolo stesso (la polisemia dei vocaboli e il loro accostamento inusuale), la spiegazione più consueta va ricercata nelle dinamiche esterne, quali le congiunture del mercato librario e il tentativo di traduttori e editori di ampliare il potenziale bacino di lettori.

Tanto maggiore è la distanza culturale tra l’autore e il suo nuovo potenziale pubblico, tanto più arduo sarà scegliere la resa del titolo, e difficile l’obiettivo di mediare tra le intenzioni dell’autore, che non è giusto tradire, e la sensibilità del lettore contemporaneo, con il quale è indispensabile stabilire un positivo contatto.

Note

[1] Il noto testo di G. Genette, uscito in Francia nel 1987, è stato prontamente recepito in Italia (1989), in Germania (1989) in Inghilterra (1997) in Spagna (2001) e in Polonia (1994)

[2] Si ricorda il volume di Chiara Elefante, Paratesto e Traduzione, Bononia, Bologna University Press 2012 e Translation peripheries. Paratextual Elements in Translation, Anna-Gil-Bardaji, Pilar Orero & Sara Rovira-Esteva, Peter Lang 2012.

[3] Alessandra Goggio, Der Übersetzer im Text: Übersetzerfiktion am Beispiel von Arno Schmidt und Walter Moers, intervento tenuto al convegno dell’Associazione Italiana di Germanistica (Bergamo giugno 2019), in corso di pubblicazione.

[5] Non posso non ricordare qui due casi eclatanti che riguardano la letteratura russa (casi in cui per altro, come sempre, si copiano i francesi): Il poeta russo preferisce i grandi negri di Eduard Limonov (Frassinelli 1979) e Vanja. Un’educazione omosessuale di Michail Kuzmin (e/o, 1993) che giocano sfacciatamente sul sesso e sull’omosessualità.

About the author(s)

Gabriella Catalano is Full Professor of German Language at the Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Her research topics include 18th- and 19th-century German Language and Literature since the Enlightenment, with a particular focus on modern German thought and culture. Her theoretical interests include history of translation and linguistics of text. She has worked in different areas, such as the relationship between literature and history of art. She is the author of Musei invisibili (2007) and Goethe (2014), in addition to numerous articles: on Winckelmann, Goethe, Brentano, Arnim, Stifter, Fontane, Hofmannsthal, Musil, Jandl, Bernhard.

Nicoletta Marcialis, full professor of Slavic Philology at the University of Rome “Tor Vergata”, retired from active faculty status on December 31, 2018 after a long career of teaching and research. Her research interests include literary theory (Michail Bachtin, Russian Formalism), ancient and eighteenth-century Russian culture, and the history of the Russian language. She has also translated and edited various 19th and 20th century Bulgarian and Russian authors. Since 2014 she has been Editor-in-Chief of the journal “Studi Slavistici”, the Open Access journal of the Italian Association of Slavists (A.I.S.)

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