Tipologie Traduttive

Petrocchi, Valeria (2004)

CLUEB: Bologna, 224, €15,00

Reviewed by: Margherita Dore

Il libro di Valeria Petrocchi si divide in due parti. La prima parte mira ad uno studio comparato delle uniche due traduzioni italiane del Joseph Andrews di Hanry Fielding da parte di Giovan Antonio Pedrini e Giorgio Melchiori. La seconda parte analizza la traduzione della trasposizione cinematografica di Alan Dent e Sir Laurence Oliver dell'opera sheakespeariana Hamlet . L'approccio metodologico utilizzato viene definito dall'autrice del libro di tipo 'psicobiografico', cioè basato sull'analisi del periodo storico e socioculturale in cui ognuna di queste opere fu portata a termine. È infatti convinzione di Petrocchi che questi fattori, insieme a quelli prettamente personali, giochino un ruolo fondamentale nelle scelte operate dal traduttore (p.11). In quest'ottica quindi il titolo stesso del libro intende porre l'accento sulle cause contingenti che fanno sì che un testo tradotto si sviluppi e possa essere definito all'interno di una chiara tipologia.

Il percorso di analisi delle fonti da parte di Petrocchi si basa sul desiderio di fornire una visione e comprensione esaustiva dell'argomento e dei testi trattati. Pertanto, nella prima parte, l'autrice offre ai propri lettori un primo capitolo d'introduzione all'opera originaria, il Joseph Andrews di Hanry Fielding. Petrocchi ripercorre il periodo sia storico che culturale in cui l'autore scrive e si sofferma sulla rilevanza di Fielding come uno dei precursori del romanzo sia in Inghilterra che in tutta Europa. In un periodo di crisi del teatro, il '700 inglese vedeva fiorire un nuovo stile letterario in cui l'opera di Fielding si contraddistingueva per il linguaggio vicino a quello parlato e per il messaggio sociale e morale che essa intendeva trasmettere ai propri lettori. Come spiega l'autrice, il contesto letterario italiano non era invece ancora pronto al romanzo borghese che si andava sviluppando in Inghilterra e l'influenza di Fielding si faceva quindi sentire principalmente su autori di teatro come Goldoni e Chiari. Il processo traduttivo che fece conoscere l'opera fieldinghiana in Italia diviene quindi un stimolante oggetto di analisi. È interessante, ad esempio, scoprire che la traduzione del Joseph Andrews da parte di Giovan Antonio Pedrini (pubblicata sotto lo pseudonimo di Nigillo Scamandrio una decina di anni dopo l'originale), è indirizzata ad un pubblico aristocratico, piuttosto che ad un pubblico medio.

Tuttavia, ciò non impedisce a quest’opera, secondo Petrocchi, di divenire il tramite per la futura produzione letteraria di tipo romanzesco in Italia, con interessanti spunti stilistici che uniscono il linguaggio teatrale a quello letterario (p.19). In modo più approfondito, il secondo capitolo guida il lettore alla comprensione del contesto culturale e letterario in cui si inserisce il lavoro di Pedrini e che, come sostiene Petrocchi, influenza la sua personalità e il suo lavoro di traduttore. Questi era un abate vissuto nella Repubblica di Venezia del '700 e membro dell'Accademia dell'Arcadia, la quale, sebbene principalmente interessata alla traduzione di testi classici dal latino e dal greco, incitava la traduzione di testi filosofici, scientifici, politici e talvolta letterari di origine francese, inglese e tedesca. Tale apertura alle influenze esterne mirava a uno sviluppo linguistico dell'italiano in grado di creare coesione e consapevolezza nazionale in un'Italia ancora divisa ma accomunata da un medesimo passato. Non dovrebbe pertanto sorprendere che la traduzione del Pedrini sia fortemente influenzata da francesismi e anglicismi che contribuiscono alla sperimentazione linguistica e stilistica all'interno dell'opera, con modifiche al testo talvolta rilevanti.

Al fine di offrire un quadro completo del clima socioculturale italiano del diciottesimo secolo, Petrocchi offre al lettore un'interessante discussione delle questioni politiche e religiose che caratterizzarono il periodo e che ne influenzarono la produzione letteraria. L'autrice spiega, infatti, come i letterati e politici del tempo sentissero la forte ingerenza delle istituzioni e, in particolare, quella degli Inquisitori dello Stato nella Repubblica di Venezia (per conto della quale Pedrini lavorava come ambasciatore) e della Chiesa cattolica, che passavano al vaglio i testi prima della loro pubblicazione e sui quali potevano imporre la censura. Altro fattore rilevante era la forte influenza culturale e linguistica della Francia su molti Paesi europei. Nonostante in Italia si potesse notare un certo interesse per il mondo anglosassone, la maggior parte dei letterati rimaneva legata al francese, la lingua franca del tempo, e alla sua letteratura e cultura illuminista. Come precisa Petrocchi, la traduzione francese del Joseph Andrews da parte Pierre-François Guyot Desfontaines influenza fortemente quella del Pedrini e diviene un chiaro esempio di tale fenomeno. Ad ogni modo, ciò non impedisce al Pedrini di discostarsene talvolta e usare l'originale inglese come testo di partenza per il proprio lavoro al fine di dargli un'impronta personale, che tenta anche di soddisfare le esigenze specifiche del pubblico italiano.

Petrocchi applica lo stesso processo metodologico al quarto capitolo che presenta il contesto socioculturale italiano in cui vive Giorgio Melchiori, secondo traduttore italiano del Joseph Andrews. Da esso si possono cogliere le notevoli differenze che distinguino questo periodo storico da quello precedentemente discusso e che sembrano essere direttamente connessi con il lavoro di Melchiori. In primo luogo, l'Italia della seconda metà del Novecento era oramai un Paese unificato con una precisa identità nazionale e una lingua standard. Altro fattore di particolare interesse è inoltre l'ambiente editoriale italiano del tempo e il diverso orientamento di alcune case editrici (ad esempio, la Mondadori verso un mercato di massa, la Garzanti verso quello intellettuale). Infine, la figura del traduttore è ormai ben delineata professionalmente e il suo lavoro si basa su precise metodologie, sviluppate con rigore scientifico, e capace di offrire un prodotto che mira all'alfabetizzazione delle masse e alla diffusione della letteratura presente e passata. Da questo si passa al quinto capitolo in cui Petrocchi si concentra sulla figura di Melchiori per ricordarne l'educazione accademica e, in particolare, l'influenza di Mario Praz sullo sviluppo delle sue innate capacità traduttive. Il capitolo è poi arricchito dall'analisi del lavoro di Melchiori che porta Petrocchi a descriverne la tipologia traduttiva basata su tre punti fermi: attenzione al pubblico d'arrivo, conoscenza della personalità e lavoro dell'autore del testo di partenza e studio della lingua di un autore rappresentativo nella cultura d'arrivo e contemporaneo all'autore originale. Suggerimenti preziosi questi, a volte dati per scontati anche dagli stessi traduttori se Melchiori stesso sostiene di non aver mai seguito teorie traduttive prestabilite.

Alla luce di quanto discusso nei capitoli precedenti, Petrocchi porta avanti un'analisi comparata delle due versioni italiane del Joseph Andrews, la quale rivela interessanti differenze tra le due traduzioni e il modo di operare dei traduttori. Ciò sembra quindi confermare l’ipotesi presentata all’inizio del libro che sostiene che entrambi i traduttori sono stati influenzati dal periodo storico in cui hanno operato, ma anche da specifiche scelte personali. La discussione dei numerosi esempi viene categorizzata e suddivisa in sottosezioni che vanno dalle difficoltà traduttive basate sull'ironia del registro dei personaggi alle espressioni idiomatiche, dal linguaggio del realismo dell'originale all'umorismo trasmetto creativamente dai nomi dei personaggi. Da ciò, Petrocchi conclude che il lavoro di Pedrini è fortemente influenzato dalle scelte fatte dal traduttore francese Desfontaines, dl quale saltuariamente si allontana per tradurre direttamente dall'originale inglese per ragioni di gusto personali (ad esempio quando riproduce il registro della comicità fieldinghiana utilizzato per vari personaggi e in particolare per Slipslop). Al contrario, il lavoro di Melchiori dimostra essere il risultato del modus operandi del traduttore. Da una parte egli riesce a cogliere e a ri-creare l'atmosfera del testo originale, grazie all'utilizzo di termini settecenteschi; dall'altra, rimane legato al presente, con la prosa fluida dell'italiano del ventesimo secolo. Esempio di una chiara metodologica traduttiva in Melchiori è, secondo Petrocchi, lasciare immutati i nomi dei personaggi che in inglese hanno precise valenze satiriche (ad eccezion fatta di Mrs. Gave-Airs, tradotto con Madama Austerià). Al contrario, Pedrini sceglie di tradurre la maggior parte di questi nomi (Mrs. Gave-Airs diventa Madama Prudenzia), sempre su calco francese ma, sfortunatamente, essi non rispecchiano il tentativo del traduttore francese di ri-creare i giochi di parole esistenti nell'originale.

Il settimo capitolo l’autrice fa il punto sulle caratteristiche delle due tipologie traduttive analizzate. L'opera di Pedrini, fortemente influenzata dalla prosa francese e inglese, è il prodotto di una sperimentazione linguistica che mira allo sviluppo di una prosa italiana più scorrevole e colloquiale, fino a quel momento presente solo nei testi teatrali. Melchiori, al contrario, opera a metà del ventesimo secolo e, pur mantenendo il linguaggio settecentesco per ragioni stilistiche, presenta una prosa che riflette una lingua che si è ormai sviluppata a pieno. La seconda parte del libro è in linea con la prima. L'analisi e comprensione della la tipologia traduttiva sviluppata da Gian Gaspare Napolitano nel tradurre la trasposizione cinematografica dell'Hamlet di Alan Dent e Sir Laurence Oliver si basa in primo luogo sulla discussione dei fattori socioculturali e personali che operano sul lavoro del traduttore. Inoltre, si tiene conto delle caratteristiche specifiche del testo sotto analisi, che fonde il linguaggio poetico e lirico del teatro all'immagine filmica. Nel primo capitolo, Petrocchi descrive con rigore di cronaca l'ambiante culturale italiano di metà Novecento, periodo in cui il film esce nelle sale cinematografiche. Sulla base delle fonti ricercate, Petrocchi dimostra come la critica cinematografica sulle testate giornalistiche sembrava dimenticare che la versione italiana era un prodotto passato attraverso un processo traduttivo e di doppiaggio. Al contrario, Petrocchi desidera analizzare in che misura il rapporto fra immagine e il testo scritto abbiamo agito sulla traduzione italiana. Nel secondo e terzo capitolo Petrocchi riflette su quella che chiama la 'prima' traduzione, cioè la trasposizione da testo teatrale dell’Hamlet a sceneggiatura da parte di Dent e Oliver e influenzata in primis dal mezzo utilizzato.

Ad esempio, la scelta di tagliare delle parti del testo veniva dettata dal bisogno di rientrare nei tempi standard di una proiezione cinematografica e non dal desiderio di modificare o sintetizzare il testo. Allo stesso modo, cambiare l'ordine di alcune scene - come l'incontro di Amleto con il padre prima di quello con Ofelia – era un modo per enfatizzare la relatività delle vicende umane e usare il voice-over durante il monologo di Amleto intendeva sottolinearne il suo travaglio psicologico interiore. Secondo Petrocchi, la ‘seconda’ traduzione, quella ad opera di Napolitano, è naturalmente influenzata dalle scelte stilistiche compiute da Dent e Oliver. Tuttavia, Petrocchi dimostra come altri elementi abbiano inciso sulle scelte lessicali compiute da Napolitano. Fattori tecnici, come la sincronizzazione labiale, o personali, come l'appartenenza del traduttore al movimento futurista (per il quale il cinema e la lingua usata in esso dovevano essere mezzi di educazione della società) lo portano a creare una prosa "pratica, concisa, essenziale, limpida, intensa e vigorosa, linguisticamente ricca e opportunamente dosata, capace di alternare, a seconda delle circostanze, momenti di intima introspezione con momenti di descrittivismo pittorico" (p.209). Un giudizio positivo quindi quello di Petrocchi, che inoltre sottolinea come Napolitano sia riuscito a rimanere fedele non solo al lirismo dell'opera shakespeariana in generale, ma anche al lavoro innovativo di Oliver e, allo stesso tempo, a dare alla versione italiana spessore e soprattutto scorrevolezza. Doveroso, perché spesso ignorato, è il soffermarsi di Petrocchi sulla figura del doppiatore in generale e su Gino Cervi in particolare, il quale fu attore di teatro e televisione e doppiatore di Oliver per l'Hamlet.

A giudizio di Petrocchi, il lavoro di Napolitano ha permesso a Cervi di evitare ciò che succedeva a molti doppiatori del periodo postbellico, il cui lavoro era divenuto meccanico e spersonalizzato. Il quarto capitolo chiude la seconda parte e il libro. In esso Petrocchi riporta preziosi informazioni riguardanti la vita e il background culturale e letterario in cui si muoveva Napolitano che fu scrittore, giornalista, corrispondente estero e traduttore. L'esperienza del conflitto bellico assieme a quelle letterarie, giornalistiche e personali sembrano aver acuito in modo particolare la sensibilità di Napolitano riguardo a tematiche care al personaggio di Amleto: il travaglio interiore, l'indecisione e le atrocità di cui gli uomini si rendono capaci. Il filo rosso che sembra quindi unire le tre tipologie traduttive in analisi è riassuntoi nel commento conclusivo di Petrocchi. In esso l’autrice afferma che, nel rimanere fedele all'originale, ogni traduttore, 'incoscientemente opera alla luce del proprio stream of consciousness' (p.214) lasciando la sua firma indelebile sul testo tradotto. Di indubbio valore dal punto di vista metodologico per il suo rigore e coerenza espositiva, questo libro dimostra ciò che sembra spesso essere dimenticato, e cioè che il traduttore è un essere umano che, in quanto tale, viene influenzato della società e cultura in cui vive e opera. Il traduttore è capace di creare un testo d'arrivo conservando la bellezza stilistica e letteraria di quello di partenza. Ad ogni modo, il testo d'arrivo è sempre il risultato di un processo su cui agiscono molteplici fattori e la sua analisi descrittiva ci consente, come si è visto, una sua profonda comprensione. Inoltre, essa ci fa capire quanto di umano e creativo vi è nel tradurre, purtroppo declassato spesso a puro lavoro meccanico.

©inTRAlinea & Margherita Dore (2005).
[Review] "Tipologie Traduttive", inTRAlinea Vol. 7
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