Agire in lingue diverse

Riflessioni sul binomio ‘forma e azione’ nelle pratiche comparative

By Piera Margutti (Università di Modena e Reggio Emilia, Italy)

Abstract

English:

Understanding how speakers recognize actions in talk is fundamental both for theories of intercultural communication and for practices involving cross-linguistic analysis (translation, interpreting and mediation). Drawing from Conversation Analysis, recent studies have shown that interactants manage to understand and respond to their interlocutors with precision, speed and no apparent effort, relying on interactional mechanisms that are universal and contextually-based. Since the notion of action first appeared in Austin’s lectures, scholars from different trends and traditions have adopted alternative positions on the relationship between form and context, as well as on the relevance of each in performing and recognizing social actions in talk. The contribution argues for a major role of the second and reflects on possible outcomes for comparative practices.

Italian:

Comprendere il modo in cui i parlanti riconoscono le azioni compiute nel parlato in interazione è una questione fondamentale sia per la teoria della comunicazione interculturale che per l'analisi cross-linguistica che sta alla base delle pratiche di traduzione, interpretazione e mediazione.  Studi recenti in Analisi della conversazione hanno dimostrato che i parlanti in situazione di interazione sono in grado di capire e rispondere ai loro interlocutori con precisione e prontezza, senza alcuno sforzo apparente, facendo ricorso a meccanismi interattivi universali e, al contempo, fortemente radicati nel contesto locale in cui ogni specifica e singola conversazione ha luogo. Fin dalla prima apparizione della nozione di azione linguistica (speech act) elaborata da J. L. Austin, studiosi di discipline e tradizioni diverse hanno adottato posizioni diversificate e spesso alternative riguardo alla relazione tra forma e contenuto del parlato, così come sulla relativa importanza di ciascuna di queste dimensioni nella produzione e comprensione delle azioni sociali nel parlato. Il contributo adotta la posizione secondo la quale è la seconda dimensione ad avere un ruolo maggiore, traendone alcune conseguenze per le pratiche comparative.

Keywords: conversation analysis, action design, cross-linguistic comparative approach, analisi della conversazione, approccio comparativo cross-linguistico, disegno dell'azione

©inTRAlinea & Piera Margutti (2018).
"Agire in lingue diverse Riflessioni sul binomio ‘forma e azione’ nelle pratiche comparative"
inTRAlinea Special Issue: Translation And Interpreting for Language Learners (TAIL)
Edited by: Laurie Anderson, Laura Gavioli and Federico Zanettin
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2302

1. Introduzione

La dimensione comparativa (o contrastiva) è una questione fondamentale per chi traduce o interpreta, sia per poter interpretare correttamente ciò che viene detto sia per poter trovare modi per esprimerlo nell’altra lingua. Il mio contributo affronta questo aspetto non tanto dal punto vista di vista della linguistica descrittiva, contrastiva o tipologica, ma piuttosto da quello della pragmatica linguistica, ricavandone riflessioni sulla pratica comparativa di comportamenti verbali realizzati in lingue diverse che mi sembrano pertinenti per la formazione di studenti di mediazione linguistica. Questo contributo non si articola come una lezione, ma piuttosto vuole offrire alcuni fondamenti su cui elaborare (anche in classe) riflessioni di carattere contrastivo che possano essere utili a studenti che debbano agire come esperti linguistici in ambiti plurilingue.

In pragmatica, la questione comparativa (o contrastiva) può dirsi iniziata con lo studio di Brown & Levinson (1978, 1987) sulla cortesia. Nella tradizione degli studi di sociolinguistica e pragmatica linguistica, questo studio ha per primo elaborato una spiegazione sistematica della discrepanza tra ciò che si dice e ciò che si intende dire (Brown e Levinson, 1987: 2-3); e lo ha fatto adottando una prospettiva cosiddetta universalistica (come ben chiarisce il sottotitolo) basata sull’analisi e il confronto delle strategie linguistiche e comunicative in tre lingue diverse e tra loro distanti (tzeltal, tamil e inglese). In questo contributo illustrerò il dipanarsi di un percorso che ha via via costruito un approccio comparativo nello studio del comportamento linguistico nell’interazione sociale in lingue e culture diverse sviluppando un’attenzione particolare per le dimensioni dell’agire sociale.

Partirò dai primi modelli della teoria degli atti linguistici, che per prima, con la nozione di atto linguistico ha concettualizzato la relazione tra forma linguistica e atto. Successivamente, illustrerò l’apporto della teoria della cortesia e della pragmatica cross-linguistica/culturale nella definizione di questa relazione tra strategie linguistiche, da una parte, e aspetti contestuali dell’uso linguistico, dall’altra, fino ad arrivare all’analisi della conversazione e alla centralità dell’azione sociale nel parlato in interazione. Ciò che intendo mettere in luce qui è il cambio di livello di analisi e di prospettiva analitica che l’adozione del concetto di azione sociale come oggetto di indagine comporta nella tradizione degli studi comparativi di pragmatica linguistica.

Come osservano Kent & Kendrick (2016) nel loro studio sui cosiddetti imperativi-direttivi,[1] i parlanti dimostrano di essere in grado di comprendere molto rapidamente l’azione dell’interlocutore. Da questa abilità dipende anche la capacità del ricevente di gestire i tempi della risposta con precisione estrema rispetto al parlato in corso dell’interlocutore (Jefferson, 1973). Levinson (2012; 2016) ha recentemente documentato l’efficienza e la rapidità in lingue diverse del sistema che presiede al trasferimento del turno da un parlante all’altro, descritto per la prima volta da Sacks, Schegloff and Jefferson (1974).

Per spiegare che cosa renda i parlanti capaci di comprendere rapidamente e facilmente le richieste dell’interlocutore, tanto da saper rispondere e posizionare l’azione di risposta al primo momento utile, attualmente in letteratura si fa ricorso a due ordini di fenomeni, e gli studiosi si dividono a seconda di quale dei due reputano prioritario nel favorire l’interpretazione del comportamento altrui. La prima dimensione è la grammatica; intendendo con questo che è soprattutto la forma di ciò che si dice che rende l’azione prodotta riconoscibile al ricevente. L’altra dimensione riguarda invece gli aspetti del contesto in cui l’azione è prodotta e, in particolare, la sua posizione rispetto a ciò che la precede.[2] A questo proposito, è particolarmente interessante soffermarsi sulla spiegazione che Sacks delinea già nel 1966, in una delle sue lezioni della primavera di quell’anno:

It’s taken to be the case that there are various markings for questions, e.g., rising intonation, a special grammar, inversion, etc. It has also been suggested that an enormous number of observable questions have neither ‘question intonation’ or the grammatical form of question, and yet seem to be recognized as questions. How would that be done? One possibility might be if a ‘first question’ has been recognized, then things which go after its answer can perhaps be inspected for whether they’re ‘second questions’. And those can perhaps be made without use of those things which would mark a ‘first question’. […] For example, if you’re offering candy, then you can perfectly well use this kind of form: “Would you like a lifesaver Mary?”, “Bill?”, “Harry?”, etc. (Sacks, 1995, vol. I: 287-288).

Secondo questa analisi, dunque, il riconoscimento dell’azione come tale non è dovuto solo alla forma; in gran parte è il contesto che è responsabile della comprensione reciproca dei parlanti di ciò che si sta facendo. La forma e la posizione di un’unità nella sequenza sono quindi due dimensioni che non possono essere considerate l’una senza l’altra, come ben argomentato da Drew, quando descrive la natura sequenziale dell’interazione, in cui forma e posizione del turno sono intimamente connessi:

The contingent connections between a turn and its prior, and the contingencies one turn creates for a subsequent (responsive) turn, generate strings or sequences of connected turns, sequences that progress on the basis of our understanding of what one another was doing in his/her prior turn(s). By interaction, then, we mean the contingently connected sequences of turns in which we each “act,” and in which the other’s — our recipient’s — response to our turn relies upon, and embodies, his/her understanding of what we were doing and what we meant to convey in our (prior) turn. (Drew, 2012: 363)

Da quanto sopra riportato, appare chiaro che ciò che rende un enunciato, un turno o specifici comportamenti comunicativi un’azione sociale è il mutuo riconoscimento della relazione con ciò che lo precede da parte dei partecipanti a un’interazione.  Inoltre, è altrettanto chiaro che questo riconoscimento si basa su elementi linguistici e di contesto; questi ultimi, connessi alla dimensione sequenziale e contingente (locale) dell’interazione.

1.1. Che cosa confrontare?

Comprendere che cosa faccia di un enunciato la realizzazione di un’azione sociale è fondamentale se si intende adottare un approccio comparativo nello studio dell’interazione in lingue diverse. Per confrontare la realizzazione di uno stesso fenomeno - in questo caso, una stessa azione sociale e la sua realizzazione in lingue diverse, infatti, è necessario identificare un costrutto che sia stabile e riconoscibile come tale nelle diverse lingue. Ma, a che cosa esattamente prestare attenzione se, come abbiamo visto, le azioni sociali sono soggette alla contingenza del contesto locale?  A questa apparente incostanza del fenomeno “azione sociale” si aggiunga la natura variabile e irregolare dei dati di parlato.

Prendendo l’azione sociale invito come fenomeno da indagare, consideriamo i frammenti trascritti che seguono. Sono tre casi che esemplificano la variabilità con la quale i parlanti costruiscono un’azione che comunemente assegniamo alla stessa categoria. La freccia indica la posizione dove l’invito viene prodotto.  

  1.  [it-INV_PM.OD_4-5ott2002_02:57:07_Tomba1], in Margutti & Galatolo, 2018[3]

(P= Paola; D= Daniele, cognato di Paola; Manu= Manuela, sorella di Paola e moglie di Daniele.)  

1

Paola:

((il telefono squilla))

2

Dan:

sì,= pronto?

3

Paola:

eh::: Daniele son la Pa:ola;

4

Dan:

cia:o Pahohla

5

Paola:

cia::=ciao Daniele (.) [com’andiamo?

6

Dan:

                               [c-

7

Dan:

bene e vo:i

8

Paola:

.h ↑abbastanza bene grazie.

9

Dan:

°bene dài mi fa piacere° [vuoi la Manu?

10

Paola:

                                    [voleva-

11

Paola:

e::h?

12

Dan:

vuo’la Manuela?

13 →

Paola:

no:: voleva- >volevamo invitarvi domani sera da? Tomba.<

14

 

(1.2)

15

Dan:

doma:ni se:ra?

16

Paola:

eh

17

 

(1.4)

  1.  (INV_EN_9. #9 [NB PowerTools]) in Drew, 2018

(Edn=Edna; Mar=Margy; Edna ha chiamato Margy; tra le ragioni per la chiamata, anche quella di ringraziare Margy per averla invitata a pranzo una settimana prima.)

1

Edn:

=I shoulda ca:lled you sooner b't I don't know where the

2

 

week we::n[t,

3

Mar:

                [u-We:ll::=

4

Mar:

=Oh- yEdna you don'haftuh call me up=

5

Edn:

=[I wa::nt [t o : .]

6

Mar:

=[I wz jus [tickled] thetche-

7

 

(.)

8

Mar:

nYihkno:w w'n you came u:p en uh-.hhh=

9

 

=W'l haftuh do tha[t more] o[:f t e n.]

10 →

Edn:

                            [.hhhhh]  [Wul  w]hy don't we: uh-m:=

11

Edn:

=Why don't I take you'n Mo:m up there tuh: Coco's.someday

12

 

fer lu:nch.We'll go, bkuzz up there tu[h,

13

Mar:

                                                       [k Goo:d.

14

Edn:

Ha:h?

15

Mar:

That's a good deal. .hh-.hh=

16

Edn:

=Eh I'll take you bo:th [up

17

Mar:

                                  [No:::: we’ll all go Dutch.=

18

Mar:

=B't [let's do t h a t.]

19

Edn:

       [N o : we wo:n']t.

20

 

(.)

21

Edn:

Becuz uh:: u-may u-dz yer mom like t'shop ov'r 'n: look

22

 

arou:n' 'n th'stores

(3)      (“We were in an automobile discussion”), in Sacks, 1995, vol.1, Spring 1966, lecture 4: 300

L’esempio è tratto dall’inizio di una sessione di terapia di gruppo, in cui il terapista (Ther.) introduce un nuovo arrivato, Jim Reed, agli altri del gruppo.

1

Ther:

Jim, this is Al,

2

Jim:

Hi

3

Ther:

Ken,

4

Jim:

Hi

5

Ken:

Hi

6

Ther:

Roger.

7

Roger:

Hi

8

Jim:

Hi

9

Ther:

Jim Reed.

10

(      ):

((cough))

11 →

Ken:

We were in an automobile discussion

12

Roger:

discussing the psychological motives for

13

(      ):

hhhhhhh

14

Al:

drag racing on the street.

Tenendo conto del fatto che, come abbiamo sopra affermato, gli aspetti contestuali sono determinanti per riconoscere quale azione specifica un elemento linguistico, un enunciato, un turno, una pratica comunicativa realizzano, la prima osservazione riguarda il tipo di interazione in cui l’invito ha luogo. I primi due frammenti sono tratti da telefonate in cui è il chiamante che fa l’invito; il terzo frammento, invece, è tratto da un’interazione in cui è il nuovo arrivato che riceve un invito dalle persone presenti.

L’altra dimensione è la posizione che l’azione occupa all’interno dell’evento comunicativo. Possiamo osservare che, nel primo esempio, l’invito è prodotto subito dopo la sequenza di apertura della telefonata (Schegloff, 1968; 1986); si noti che Paola lancia l’invito dopo i convenevoli alla riga 10, quando viene a trovarsi in sovrapposizione; eventualità che genera una sequenza riparativa (Schegloff et al.,1977). In questo caso, l’invito si configura come la ragione della chiamata. Nel secondo frammento, invece, l’invito è prodotto più tardi nella telefonata, innescato dalla conversazione in corso; l’azione è, quindi, interactionally generated (Drew, 1984: 148, footnote 1; Curl, 2006: 1259; Margutti & Galatolo, 2018; Drew, 2018). È interessante osservare che, nel caso in cui l’invito è prodotto al telefono, ci si riferisce necessariamente a un evento futuro rispetto alla formulazione dell’invito stesso; nel caso in cui, invece, l’invito è rivolto a un interlocutore durante un’interazione faccia a faccia, come nel caso della terapia di gruppo, ci si può riferire all’attività in corso nel momento stesso in cui si fa l’invito.

Infine, riguardo alla forma che l’azione di invitare prende nei tre casi, le soluzioni adottate sono tra loro molto diverse. Senza pretendere di offrire un’analisi approfondita, per il momento basti osservare quanto segue:

  • In 1, l’enunciato ha un formato dichiarativo in cui l’invitante afferma il suo desiderio nella forma [“volevamo”] + [il verbo performativo che nomina l’atto che si sta compiendo: “invitare”] + (tempo e luogo dell’evento sociale);
  • In 2, l’enunciato ha forma interrogativa con prefazione negativa del tipo [“Perché non X”] + (tempo, luogo, partecipanti all’evento sociale); con X che sta per un’attività che l’invitante farà a favore dell’invitato;
  • In 3 l’enunciato è una descrizione dell’attività in cui gli invitanti sono impegnati in quel momento e che rivolgono all’invitato.

Per quest’ultimo tipo di invito, Sacks propone la caratterizzazione che segue:

If a new person comes into some place where there is some set of persons engaged in, for example, talk, then one of the pre-present persons can make an invitation to the entrant by using a phrase to start off with, like “We were doing,” plus the naming of some activity that is something like ‘category bound’ to a category which, once made relevant -and it’s made relevant by the naming of the activity- can be seen convergently to hold for some part of the pre-present persons and the entrant. (Sacks, 1995: 301)

Come si può facilmente arguire, la forma che l’invito assume in 3 non può essere utilizzata per le situazioni di 1 e 2: le condizioni contestuali e contingenti nei due tipi di interazione rappresentati negli esempi sono diverse. Ed è altrettanto ovvio che tra la forma dell’azione sociale e il contesto in cui essa prende forma c’è un rapporto “riflessivo”; il termine è qui inteso come formulato da Duranti: «Come vedremo il rapporto tra codici linguistici e sistemi socio-culturali è riflessivo, vale a dire che i due sistemi semiotici si sostengono a vicenda: senza l’apporto dell’uno l’altro non avrebbe valore o efficacia comunicativa» (1992: 35).  

La domanda che ne discende è, dunque: quando vogliamo verificare le somiglianze e le differenze del modo in cui parlanti di lingue e culture diverse agiscono nell’interazione, che cosa esattamente dobbiamo confrontare?

Nella sezione che segue vedremo come si è sviluppato il percorso che, dalla nozione di atto linguistico, è approdato a quella di azione sociale, attraverso le diverse prospettive e tradizioni che si sono succedute nell’ambito della filosofia del linguaggio, della pragmatica, della sociolinguistica e dell’analisi della conversazione.

2. Confrontare azioni sociali in lingue e culture diverse: categorie, dimensioni, livelli di analisi

In quel che segue, seguendo il filo rosso del rapporto tra forma linguistica e azione, proporrò una breve rassegna ragionata delle tradizioni e delle prospettive da cui precedenti studi di tipo comparativo ed empirico del parlato in interazione hanno preso le mosse.

2.1 La teoria degli atti linguistici: significato, intenzione, atti linguistici indiretti e implicature

Il binomio grammatica/azione e il dibattito su quale dei due termini abbia la maggiore responsabilità nel favorire la comprensione del significato di ciò che si dice è tutt’ora aperta. Nata con la scoperta del principio che dire è fare (Austin, 1962), la relazione tra forma (enunciato) e azione (in cui convergono forza illocutiva, significato, intenzione) si è connotata fin da subito come un’accoppiata asimmetrica, in cui la relazione tra le due parti non è binaria. Se, da una parte, la nozione di forma è sempre stata l’oggetto principale di indagine della linguistica, quella di azione viene concettualizzata come atto linguistico negli studi di filosofia del linguaggio dapprima da  Austin (1962) e successivamente da Searle (1969) con la teoria degli atti linguistici, da cui si svilupperà la pragmatica.[4] Secondo questa prospettiva, ciò che si intende fare con le parole e che il ricevente comprende come tale - cioè, l’atto illocutivo - corrisponde al significato di un enunciato; ed è esattamente sulla relazione tra enunciato e significato che si fonda questa teoria (Clift, 2016: 5-23; Levinson, 2012). Come sostiene Searle, «the meaning of a sentence is determined by rules, and those rules specify both conditions of utterance of the sentence and also what the utterance counts as» (1969: 48).

Per ognuna delle 5 categorie di atti illocutivi da lui identificati, modificando la tassonomia austiniana, Searle individua le regole che presiedono alle condizioni necessarie e sufficienti per la loro esecuzione (ibidem: 54). Le regole sviluppano l’idea di felicity conditions di Austin e ci offrono una spiegazione logica del nesso tra la frase e il suo significato illocutivo. È con il concetto di forza illocutiva di un enunciato e, più precisamente, con l’individuazione degli indicatori di tale forza, che la teoria degli atti linguistici pone le basi per lo studio della relazione tra forma linguistica e azione. Tra i vari indicatori della forza illocutiva convenzionale di un atto linguistico, fin da subito sono individuati alcuni elementi linguistici come i verbi modali, e altri sintattici, come il tipo di proposizione. A questo proposito, Searle sottopone al nostro giudizio l’esempio di quattro frasi con lo stesso contenuto proposizionale, ma differente forza illocutiva: “You are going to leave”, “Leave!”, “Will you leave”, “I suggest you to leave” (ibidem.: 122), sostenendo che tutte e quattro le frasi predicano l’azione di “andarsene” da parte di un “tu”, ma ciascuna con differente forza illocutiva.

La linea argomentativa intrapresa da Searle per stabilire forme di correlazione tra forma e significato (e, dunque, azione) incontra molto presto un ostacolo in quegli atti in cui il significato della frase e il significato del parlante non coincidono. Come è possibile che un parlante produca una frase che ha più di un significato? Per esempio, “I want you to do it” è una frase affermativa, in cui il parlante fa una dichiarazione, ma è intesa anche come una richiesta. Secondo Searle, una frase che contiene gli indicatori propri di una forza illocutiva può essere enunciata e riconosciuta come avente anche un’altra forza illocutiva. Per esempio, la frase “Can you pass the salt?” è una domanda che però serve come richiesta (Searle, 1979: 30). L’asimmetria tra forma e significato è spiegata con l’introduzione del concetto di atto indiretto. Come vedremo, la questione dell’indirettezza tornerà più avanti come dimensione rilevante nella ricerca successiva. Per il momento, diremo che Searle sviluppa il pensiero di Austin nella direzione in cui l’oggetto di indagine è propriamente la relazione tra lingua e azione; così facendo, l’azione entra di diritto come oggetto di analisi linguistica. Insieme al concetto di azione, anche il ruolo di chi ascolta e il modo in cui chi ascolta comprende e interpreta il significato di ciò che il parlante dice diventa oggetto di indagine. Lo studio linguistico finisce per avere il fine di fornire un ponte tra le due parti: il parlante, per il quale dire qualcosa è strettamente connesso al produrre un certo effetto sull’ascoltatore e l’ascoltatore, per il quale capire ciò che il parlante dice significa comprenderne l’intenzione (Searle, 1969: 48). Si stabilisce il nesso tra azione, linguaggio e parlante, in cui l’interpretazione e il processo inferenziale ad essa connesso ha un ruolo fondamentale (Searle, 1979: 32).

È in questa direzione che, contemporaneamente, Grice sviluppa la sua teoria delle implicature conversazionali: quelle inferenze non convenzionali, cioè, che discendono dal principio di cooperazione (Grice, 1989: 27) e da aspettative e presupposizioni che ci formiano nella situazione, in base allo sviluppo della conversazione ed al comportamento dei nostri interlocutori.

A questo punto diventa opportuno riproporre la domanda iniziale: cosa è necessario o significativo esaminare quando vogliamo confrontare la realizzazione di una stessa azione sociale in lingue diverse? Da quanto visto sopra appare chiaro che la realizzazione linguistico-formale è in gran parte dipendente da ciò che non è detto ma, ugualmente, comunemente inteso e convenzionalmente condiviso. Ma è possibile confrontare il non-detto,[5] le inferenze e le presupposizioni che governano il parlato in interazione?

2.2 La teoria della cortesia

Gli studi sulla cortesia (Leech, 1983; 2014; Brown & Levinson, 1987) fanno decisamente avanzare lo studio del rapporto tra le strategie comunicative visibili nei comportamenti dei parlanti, da una parte, e il non-detto che le determina, dall’altra. La ricerca di Leech si inscrive nella cornice delle massime conversazionali di Grice, di impostazione logico-filosofica. Ne è un esempio la sua caratterizzazione dell’azione sociale dell’invito. Secondo Leech (1983), la cortesia è una delle forme del comportamento comunicativo e, tra gli atti linguistici, l’invito la rappresenta. Leech considera gli atti linguistici equivalenti a transazioni di beni; conseguentemente gli inviti sono considerati centrali nella sua teoria della cortesia:

[…] it is fairly central to politeness that it involves the passing of some kind of transaction of value between the speaker and the other party. For example, […]; in making an offer or invitation we offer something to the invitee. The “something” referred to here is something of value (either material or abstract) that is supposed to pass from one person to the other (Leech, 2014: 8).

Diverso è l’approccio adottato da Brown & Levinson (1987: 4), che intendono la cortesia come un fenomeno determinato socialmente, correlabile a tre variabili di natura sociale e culturalmente determinate: la distanza sociale tra parlante e ascoltatore (D), il potere sociale (P) e il peso dell’imposizione dell’atto (R) (1987: 228-248). In questa prospettiva, tipi diversi di comportamenti e fenomeni interazionali sono tra loro interrelati: sono descritti come strategie appartenenti al dominio della cortesia sia fenomeni specificamente linguistici (sintagmi avverbiali, mitigatori o verbi impersonali), che determinati atti linguistici (offerte, promesse, scuse), fino ad includere anche elementi più ampi quali sequenze di azioni e generi conversazionali (storielle, pettegolezzi, small talk). Sebbene gli autori stessi esprimano riserve metodologiche su molti aspetti della loro ricerca (ibidem:10-12), inclusa la non omogeneità del metodo di raccolta dei dati utilizzati (autentici, intuitivi e artificiali), per la prima volta lo studio offre una “veste linguistica” in più lingue alle presupposizioni dei parlanti, tradotte nelle più diverse strategie di cortesia. La teoria di Brown & Levinson innesta osservazioni empiriche relative a esempi di usi linguistici realmente prodotti dai parlanti su un impianto di ragionamento logico ipotetico-deduttivo (ibidem.: 11).

Su queste basi, nella varietà dei contesti linguistici e culturali delle lingue del campione studiato, gli autori hanno offerto un quadro di alcuni tratti del comportamento comunicativo umano, basato su un modello esplicativo in cui le strategie di cortesia sono organizzate gerarchicamente e generate dalle presupposizioni dei parlanti, che gli autori descrivono come universali, soprattutto per quanto riguarda i meccanismi che governano tali strategie. Nell’introduzione all’edizione del 1987 del loro lavoro (apparso in una versione ridotta nel 1978), gli autori stessi hanno discusso molti dei principi alla base del loro modello e la loro applicabilità a lingue e culture diverse, rispondendo così alle critiche di etno-centrismo mosse verso la nozione di “faccia” e verso la definizione di ciò che viene interpretato atto potenzialmente offensivo, così da mobilitare le strategie di cortesia (Brown & Levinson, 1987: 13-17). Si tratta di critiche che hanno continuato ad accompagnare la teoria della cortesia; insieme, però, alla messe di ricerche che si è sviluppata applicando questo modello in molte lingue e culture e in molti ambiti, quali l’antropologia sociale, l’etnografia e l’analisi del discorso, come rileva Gumperz nella premessa all’edizione del 1987.

2.3 Pragmatica cross-culturale/linguistica

Come suggerito dal titolo - Politeness: some universals in language use, Brown e Levinson aspiravano a dimostrare l’universalità delle presupposizioni al di là delle diverse realizzazioni linguistiche delle strategie di cortesia (1987: 57). Come detto sopra, un ricco filone di ricerche successive ha impiegato il loro modello per spiegare le diverse produzioni linguistiche di uno stesso atto, comparando lingue diverse sia di parlanti nativi che non-nativi, dando origine al settore di studi denominato pragmatica cross-culturale. Gli studi di questo tipo si concentrano sulla produzione di determinati atti linguistici approfondendone l’aspetto linguisticamente/culturalmente specifico, anziché l’universalità o generalizzabilità. Il CCSARP (Cross-Cultural Speech Act Realization Project) di Blum-Kulka et al. (1989) fu il primo studio sistematico in questa prospettiva, in cui azioni sociali come richieste, scuse e reclami (lamentele) prodotte da parlanti in lingue diverse furono esaminate sulla base di dati artificialmente forniti. I soggetti dovevano completare dialoghi scritti (DCT or Discourse Completion Tests) che rappresentavano le situazioni in cui tali azioni erano, secondo gli autori, tipicamente e prevedibilmente prodotte. Lo studio, le cui modalità e impostazione analitica sono state successivamente replicate molte volte, ha posto le basi per ciò che gli autori hanno definito “the exploration of the speech act as a cultural phenomenon” (Blum-Kulka et al., 1989: 5).

Il successo incontrato da questa prospettiva analitica ha avuto due maggiori conseguenze relativamente all’idea di azione che si è diffusa e radicata negli studi di pragmatica[6]. La prima di queste riguarda il fatto che l’uso di dialoghi scritti ha fatto sì che l’azione venisse identificata con il turno da completare, mentre nell’interazione autentica l’azione si svolge in sequenze più ampie e articolate. La seconda conseguenza è la proliferazione delle componenti dell’apparato analitico e la complessità dell’articolazione della struttura di ciascun atto, che viene suddiviso nei vari elementi che lo compongono (per esempio: allertatori, pre-atto, testa dell’atto, modificatori, ecc.).

È inoltre opportuno sottolineare che i dati scritti rendono conto più di ciò che i soggetti pensano sia corretto dire (il “dover dire” o competenza meta-pragmatica) che di ciò che realmente dicono in una situazione autentica. Inoltre, l’analisi estremamente parcellizzata della produzione scritta determina una preminenza della forma grammaticale e linguistica sull’atto stesso.

Fin qui, pur con le limitazioni di spazio, ho passato in rassegna gli approcci di pragmatica che si sono sviluppati a partire dalla teoria degli atti linguistici. La sezione che segue, invece, illustrerà in che modo l’approccio analitico dell’analisi della conversazione può essere considerato un avanzamento nell’indagine della relazione tra forma linguistica e azione sociale. Prenderò lo spunto da uno studio in cui una stessa azione sociale, quella dell’invito, è indagata in 7 lingue diverse: cinese, farsi, finlandese, francese, greco, inglese e italiano (Margutti et al., 2018). I dati su cui si basa questa ricerca sono autentici e provenienti da corpora simili, costituiti da telefonate audio-registrate estensivamente (cioè, senza una selezione imposta a monte) a casa di famiglie. Successivamente, i casi di inviti presenti nelle telefonate e, quindi, prodotti casualmente dai parlanti, sono stati identificati, trascritti, raccolti e analizzati. Lo studio viene qui illustrato perché, a nostro parere, rappresenta un modello in cui si è tentato di superare il dilemma che connota la ricerca di stampo empirico-induttivo e basata su dati autentici; il dilemma, cioè, tra il bisogno di individuare un oggetto di studio stabile ai fini comparativi e, dall’altra, la necessità di utilizzare dati naturali e, quindi, mutevoli e legati al contesto della situazione, come è nella tradizione dell’analisi della conversazione.

3. L’analisi della conversazione: invitare amici e parenti al telefono in lingue diverse  

L’analisi della conversazione applica un metodo di analisi qualitativo, empirico e induttivo allo studio dell’interazione sociale (Sacks, 1995; Sacks et al., 1974; Atkinson & Heritage, 1984; Drew, 2005; Schegloff, 2007; Sidnell & Stivers, 2012). Si propone di identificare, descrivere e spiegare le pratiche e i comportamenti comunicativi che i parlanti mettono in atto in modo sistematico e ricorrente nell’interazione. L’analisi della conversazione si fonda sul principio che la conversazione ordinaria è il luogo primario in cui si svolge la vita sociale degli individui (Schegloff, 1995: 186; Drew, 2005: 74), la cui caratteristica principale è la sua organizzazione sequenziale. Questa qualità ha ripercussioni sul modo in cui vengono costruiti i turni di parola, sulle scelte verbali e comunicative dei parlanti, sulla gestione dello scambio del turno e sul modo in cui i partecipanti all’interazione interpretano il comportamento sociale altrui. Ogni turno, infatti, crea un contesto per il comportamento del parlante successivo e per il turno di risposta, generando sequenze che vanno svolgendosi non solo temporalmente (una dopo l’altra), ma anche sequenzialmente e, cioè, instaurando connessioni tra i turni e le unità che li compongono. In questo modo, infine, osservando l’organizzazione dello scambio dei turni tra i partecipanti e la loro costruzione si possono identificare le tracce visibili dell’interpretazione condivisa dai parlanti su ciò che stanno facendo e di ciò che ciascuno vuole significare all’altro.

Ponendo al centro del metodo di indagine l’organizzazione sequenziale e il modo in cui i partecipanti all’interazione mostrano di dare conto del comportamento altrui e al quale si impegnano di rispondere, la relazione tra azione e forma linguistica assume una dimensione diversa da quella adottata dalle tradizioni sopra illustrate. La prima differenza consiste nel ritenere l’azione e la sequenzialità dell’interazione (la sintassi delle azioni sociali) come l’oggetto di indagine primario, determinante per comprendere e giustificare le scelte linguistiche dei parlanti (Margutti, 2014). In altre parole, la dimensione linguistico-formale della realizzazione di un’azione sociale, osservabilmente mutevole (non solo tra lingue diverse, ma anche nelle realizzazioni dei parlanti di una stessa lingua e cultura) deve essere indagata in stretta relazione con i meccanismi che regolano l’interazione sociale e, cioè, il luogo privilegiato in cui vive la lingua. A questo proposito, è illuminante il modo in cui Wootton (1989) si posiziona a favore della posizione universalistica che privilegia l’azione sociale e gli aspetti contestuali del contesto sequenziale dell’interazione rispetto alla forma linguistica degli enunciati, quando scrive:

I use the term ‘population of interactants’ rather than ‘members of a speech community’ because there are some suggestions that certain of the organizations located by conversation analysts may be discoverable in societies quite disparate from those in which these organizations were originally located (e.g., Brown & Levinson, 1978). (Wotton, 1989: 255)

La questione è, dunque: come rendere stabile un oggetto di indagine che è variabile e dipendente dal contesto per sua natura, così da essere comparabile? E, in definitiva, cosa indagare esattamente delle azioni sociali, in modo tale che esse siano comparabili nelle diverse realizzazioni linguistiche di parlanti provenienti da comunità linguistico-culturali diverse?

3.1 Invitare in lingue e culture diverse: una prospettiva comparativa basata sullo studio delle azioni sociali

L’approccio dell’analisi della conversazione, diversamente dal programma analitico della teoria degli atti linguistici, dagli studi griceani sulle massime conversazionali e dalle varie teorie della cortesia, non ha l’obiettivo di individuare le “condizioni di felicità” a cui i parlanti si attengono affinché il loro comportamento sia inteso come tale, o altre massime conversazionali o regole di cortesia. Come vedremo in seguito, gli studi analitici a cui facciamo riferimento qui si sono proposti di esplorare in che modo, in ognuna delle lingue rappresentate, la costruzione degli inviti e la loro dimensione sequenziale sia modellata dalle presupposizioni e interpretazioni dei parlanti in riferimento alle dimensioni contestuali locali e contingenti in cui l’invito è prodotto. Come si vedrà, queste dimensioni operano similmente nelle diverse realizzazioni linguistiche dell’atto dell’invitare (cf. Margutti et al., 2018).

Prima di tutto, è da osservare che l’impostazione del progetto risponde alla necessità di stabilità dell’oggetto di indagine e dell’omogeneità del fenomeno indagato, poiché utilizza dati tra loro comparabili. Questo è assicurato dal fatto che sono tutti tratti dallo stesso tipo di interazione: telefonate estensivamente registrate e senza filtro presso gruppi famigliari con amici, parenti, conoscenti e interlocutori casuali (anche istituzioni). In questo caso, quindi, il telefono di casa ha reso possibile una selezione “naturale” di interazioni autentiche e, al tempo stesso, ha garantito il controllo di alcune variabili, come per esempio il numero dei partecipanti e la loro relazione, pur mantenendo la variabilità propria dei contesti naturali.

La seconda osservazione riguarda la caratterizzazione dell’azione sociale dell’azione studiata. Come è prototipico nella prassi dell’analisi della conversazione, gli studi hanno preso le mosse da una prima caratterizzazione del fenomeno oggetto di studio. Come indicato da Schegloff:

The conversational-analyst notices what seems transparently to be a recognizable Action A: complaining, hedging, joking, disagreeing, etc., — and other participants respond in ways that display that they have understood it as A; and the analyst asks what it is or what was about that talk, what practice of talking and other conduct has issued in the constitution of a recognizable Action A and its recognition of it as A by co-interactants? (Schegloff, 2009: 376; italics added).

Nel nostro caso, l’azione A di cui sopra è la richiesta che il parlante A rivolge a B di partecipare a un evento sociale futuro di vario tipo, al quale si presuppone che entrambi vogliano prendere parte su base gratuita e volontaria, per il piacere vicendevole di passare del tempo insieme. In questo senso, l’invito si diversifica da altre azioni più frequenti e più studiate, quali le richieste (Curl & Drew, 2008; Drew & Couper-Khulen, 2014; Rossi, 2012) e le offerte (Curl, 2006), che, invece, sono determinate dal bisogno.

Partendo da questa prima e piuttosto generica definizione dell’azione, necessaria però affinché sia riconoscibile nei dati e costruire una collezione di casi, ogni articolo ha contribuito a delinearne un profilo caratterizzato da una certa complessità e profondità rispetto alla letteratura precedente sul tema dell’invito, basata su dati orali para-autentici, prodotti a partire da un compito assegnato (Isaacs & Clark, 1990; Eslami, 2005; Bella, 2009). In questo modo, è stato possibile cristallizzare l’azione e le sue dimensioni salienti, rintracciabili nel parlato attraverso l’osservazione delle scelte linguistiche e verbali dei parlanti, compresi gli aspetti prosodici, intonativi e di gestione dei silenzi e di altre manifestazioni vocali tipiche del parlato in interazione. Se ne evince che il comportamento dei parlanti reali osservati nelle varie lingue è determinato da una serie di dimensioni contestuali molto precise e comuni a tutti i contesti linguistici rappresentati, come di seguito illustrato.

La prima di queste dimensioni, che si è dimostrata presente e determinante in tutte le lingue del progetto è il concepimento dell’invito. Nei dati, cioè, è possibile distinguere tra inviti prodotti come ragione della chiamata e, dunque, programmati dal parlante prima della telefonata, e quelli nati occasionalmente da ciò che uno dei parlanti ha precedentemente toccato nella conversazione, e quindi durante la telefonata. Si è osservato che, oltre a occupare posizioni diverse all’interno della telefonata, in tutte le lingue rappresentate, questi due tipi di inviti sono anche sistematicamente realizzati con forme linguistiche distinte.

Per esempio, negli inviti in greco le autrici Bella e Moser (2018) osservano che la grande maggioranza di inviti occasionali (16 su 23) sono realizzati con una costruzione interrogativa con polarità negativa, come nell’esempio che segue. Dopo che Dimitra si è lamentata del mal di testa e della stanchezza per aver dovuto studiare per un compito da presentare il giorno dopo, Dina le rivolge l’invito che segue:

(4)     (da Bella & Moser, 2018: esempio n.3)

11

Dina: →

πάλι καλά (.)ρε συ (.) ↑δεν έρχεσαι από το σπίτι να κάτσουμε?

 

 

again good    re   you not come-PR.2SG from the house to sit-SBJV.1PL

 

 

'Just as well (.) hey, wouldn't you come by to hang out?'

12

Dimitra:

<ξέρω γω> (.)

 

 

know I (do I know?)

 

 

'I don't know'

Similmente, anche nei dati in lingua farsi, l’autrice documenta il fatto che, regolarmente, i parlanti usano una costruzione imperativa del tipo [Pâsho biâ (‘get up and come’)] per formulare inviti come la ragione della chiamata e, invece, una costruzione che impiega il verbo “volere” [khâstan (‘to want’)] in un formato del tipo [Mikhâi biâ injâ (‘do you want to come here’)], quando invece l’invito nasce dalla situazione contingente, come nel prossimo esempio. Ahmad ha chiamato a casa della sorella Hale perché ha bisogno di parlare con il cognato. Poiché il marito è impegnato con ospiti, Hale invita il fratello a recarsi a casa loro a cena.

(5)      (da Taleghani-Nikazm, 2018: esempio n.5)

14

Hale: →

mikhâi to ham pâsho biâ ye shâmi bâ  mâ bo[khor

 

 

want you also get up  come a  dinner  with us eat

 

 

do you want to also come over and have dinner with us

15

Ahmad:

                                                                 [NA NA:

 

 

                                                                  NO NO

L’uso sistematico di forme e strutture diverse a seconda di come i parlanti mostrano di porsi rispetto al modo in cui hanno concepito l’invito e, cioè, se pianificandolo o in modo spontaneo nel corso della conversazione, è comune a tutte le raccolte di dati.

La seconda dimensione, connessa alla precedente, è la negoziabilità dell’evento sociale a cui si riferisce l’invito: nel caso in cui l’invito è la ragione della chiamata, può accadere che l’evento sociale sia già stato fissato e i suoi termini (data, luogo, durata  e partecipanti) non siano modificabili, perché c’è un accordo precedente con altri partecipanti; in altri casi, invece, l’invito è condizionato dall’accettazione del destinatario perché, se l’invitato declina, l’evento sociale non potrà avere luogo. Ecco che, attraverso le sue scelte linguistiche, il parlante costruisce l’azione come più pubblica o più intima, anche indipendentemente dall’effettiva e reale natura pubblica/privata dell’evento in sé. È il caso dei dati italiani, che mostrano solo casi di inviti prodotti come la ragione della chiamata e nella quale, tuttavia, emerge come evidente questa distinzione tra non/negoziabilità dell’evento resa visibile dall’uso di forme affermative nel primo caso e interrogative nel secondo, come nei due esempi sotto riportati:

(6)      (da Margutti & Galatolo, 2018: esempio n.1, descritto sopra)

12

Dan:

vuo’la Manuela?

13 →

Paola:

no:: voleva- >volevamo invitarvi domani sera da? Tomba.<

14

 

(1.2)

15

Dan:

doma:ni se:ra?

16

Paola:

eh

17

 

(1.4)

(7)      (da Margutti & Galatolo, 2018: esempio 11)

Subito dopo l’apertura della telefonata, in questa chiamata tra due amiche che si sono da poco sentite al telefono senza trovare una soluzione per vedersi, Paola formula il seguente invito a Loredana, costruendolo come ragione della chiamata:

3

Lor:

ehi cia::o Paola [ciao.

4

Paola:

                       [cia::o, ascolta le- (.)

5  →

 

bella [.hh volevo dirti ↑perché

6

Lor:

        [dimmi

7

Paola:

non vieni qui a pranzo?

8

Lor:

.hh perché  no ti spiego perché

9

 

perché io devo veder la  Silvi[a,

10

Paola:

                                          [ah:::.

Nel primo caso Paola estende a Daniele un invito a cena per il quale non c’è margine di negoziazione. Questo risulta evidente dal fatto che Paola non mostra alcun tentativo di riformulare l’invito (riga 16) quando Daniele mostra esitazione nell’accettare (righe 14, 15 e 17). Se ne deduce che, per Paola, i termini non sono negoziabili. Inoltre, l’invito è formulato più come un annuncio in cui il parlante esprime il suo desiderio (forma affermativa) che non come una richiesta di disponibilità dell’interlocutore, come invece avviene nell’esempio successivo, attraverso un formato interrogativo e negativamente polarizzato.

Concludo purtroppo accennando soltanto (per motivi di spazio) alla terza dimensione che accomuna le raccolte di dati e che vede gli invitanti adottare un comportamento variabile in termini di assertività e determinatezza nel formulare l’invito, spesso con riferimenti alle circostanze che potrebbero ostacolare l’accettazione da parte dell’interlocutore. Un modo in cui si rispecchia questa scarsa assertività è rappresentato, per esempio, da costruzioni sintattiche incomplete sintatticamente, come evidenzia Drew (2018: 70), a proposito del turno 8, in cui l’invito in realtà non è pienamente formulato, quasi a voler comunicare una certa cautela da parte dell’invitante. La scarsa assertività e, anche, ambiguità di un invito così prodotto sono provate dal fatto che Mary in 9 risponde all’informazione sul party a sorpresa più che all’invito.

(8) (Kamunsky:3:2, in Drew 2018: 70)

1

Alan:

˙hhh Okay Well the reason I'm calling=

2

 

=There [is a reason b'hind my madness.

3

Mary:

           [°( ).

4

Mary:

Uh-huh,

5

Alan:

Uh nex'Saturday night's a s'prize party

6

 

here fer p-Kevin.

7

 

(0.2)

8  →

Alan:

˙p! Egnd if you c'n make it.

9

Mary:

OH RILLY:::: =

10

Alan:

=Yeah.

11

Mary:

Izzit iz bir'da:y?

Similmente, nell’estratto che segue tratto da una telefonata della collezione italiana, dopo l’annuncio della sua decisione riguardo alla festa di compleanno della figlia, Carla si rivolge a Giacomo con una richiesta di informazioni che prelude al lor possibile diniego (righe 8 e 10). In questo modo, Carla mostra di conoscere alcune circostanze precise riferite alla vita dei destinatari, rilevanti per la buona riuscita dell’invito, senza però formularlo in modo esplicito.

 (9) (da Margutti & Galatolo, 2018: esempio 6)

5

Carla:

ciahahahao .hhhh  ascolta  tesoro io:::, ho deciso di far

6

 

qualcosina oggi con la Sandra, perché::  così domani::,

7

 

la porto da mia mamma:=e si fa  una settimana di     

8

 

convalescenza dai no[nni. .hh  voi come siete=

9

Giacomo:

                              [°certo°

10

Carla:

=organizza::ti <so che l’Ale non sta tanto be::ne                                 

11

Giacomo:

infatti

Queste caratteristiche sembrano, inoltre, essere associate a un’organizzazione della preferenza per le prime azioni (Pomerantz, 1984; Pomerantz & Heritage 2012) del tutto specifica, propria di questo tipo di azione sociale e prova della sua complessità.

4. Conclusioni

Le brevi note conclusive che seguono ripercorrono in gran parte ciò che è stato detto nelle sezioni precedenti. Prima di tutto, per quanto riguarda la dimensione teorica, si può affermare che l’analisi empirica e induttiva, condotta per mezzo dell’analisi della conversazione su collezioni di dati autentici e comparabili, in cui i partecipanti sono impegnati nell’esecuzione di una stessa azione sociale in lingue diverse, sembra essere un modello replicabile ed estendibile allo studio di altri tipi di interazione e azioni sociali. Dando priorità all’azione sociale e ai meccanismi interattivi rispetto alla forma e alle specificità delle realizzazioni nelle diverse lingue si possono aprire nuove vie agli studi comparativi verso una prospettiva universalistica dell’agire sociale che, però, non disconosca gli aspetti linguisticamente rilevanti nei comportamenti convenzionali di ciascuna comunità di parlanti.

Per quanto riguarda le ricadute applicative di una tale prospettiva, ritengo che i vantaggi siano molteplici. Da una parte, i risultati di questi studi contribuiscono ad aumentare la conoscenza dei repertori di comportamenti ricorrentemente utilizzati dai parlanti di una data comunità, mettendoli in relazione ai contesti d’uso. Dall’altra, propongono allo studente una griglia interpretativa dei comportamenti verbali dei parlanti in cui le due coordinate, date dall’azione che si sta compiendo e dalla situazione in cui i parlanti agiscono, sono modellate in ragione di indici contestuali (quali, per esempio, nel caso dell’invito, la maggiore o minore intimità dell’invito, la precedente pianificazione dell’atto o la spontaneità con cui si vuole proporre l’atto all’interlocutore, ecc.). Come questi studi dimostrano, pur nella specificità di ciascuna lingua, i parlanti usano e organizzano le risorse linguistiche (verbali e non) che i codici e le convenzioni linguistiche mettono a loro disposizione in relazione ad indici (o descrittori del contesto) che paiono funzionare secondo meccanismi simili e parzialmente generalizzabili in lingue differenti, come evidenziato dalla trasversalità delle tre dimensioni presentate nella sezione precedente. Infine, studi di questo tipo promuovono negli studenti lo sviluppo di una competenza e consapevolezza meta-pragmatica necessaria a comprendere e interpretare il comportamento altrui, inteso come compito professionale.

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Note

[1]Si noti il nome doppio per definire il fenomeno: uno che definisce la forma grammaticale e, l’altro, l’azione sociale prodotta.

[2]. Si consideri il dibattito su questi temi nelle ricerche sulla riconoscibilità di azioni quali richieste, offerte, proposte e suggerimenti (Couper-Kuhlen, 2014; Clayman & Heritage, 2014).

[3] Per le convenzioni di trascrizione, Jefferson (2004) e Hepburn & Bolden (2012)

[4] Per ragioni di spazio non è possibile qui delineare gli scenari che hanno contribuito alla concettualizzazione di azione nell’ambito della filosofia del linguaggio e alla nascita della pragmatica.  Sono utilissimi, a questo proposito, i lavori di Carla Bazzanella (2015) e Claudia Caffi (2017).

[5]. Per limitazioni di spazio non si fa cenno nel testo all’importante influenza del pensiero di Garfinkel e dell’etnometodologia su questa linea di ricerca (1967) e alla nozione di faccia di Goffman (1967), che cito solo in nota.

[6] Si veda Sidnell (2009) per un esame delle principali divergenze tra il modello proposto dalla pragmatica cross-culturale/linguistica e dall’analisi della conversazione.

About the author(s)

Piera Margutti is Associate Professor of Applied Linguistics at the University of Modena and Reggio Emilia (Italy), where she teaches courses on General Linguistics. She formerly taught courses on Second Language Acquisitions methods, Intercultural and Cross-cultural Pragmatics, Teaching of Italian as L2, when working at the University for Foreigners in Perugia (Italy). She uses Conversation Analysis to investigate talk-in-interaction in institutional and in ordinary settings. In institutional interaction, she has investigated instruction sequences in primary and secondary school classes, focusing on teachers’ questioning, evaluating, and reproaching. She also published on doctor-patient interaction. In ordinary settings, she has focused on talk-in-interaction at the family dinner table and on telephone calls, analyzing social actions such as teasing, apologies and invitations. She has published her work in international journals such as Linguistics and Education, Language and Education, Discourse Studies, Discourse Processes, Research on Language and Social Interaction and Journal of Pragmatics.

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©inTRAlinea & Piera Margutti (2018).
"Agire in lingue diverse Riflessioni sul binomio ‘forma e azione’ nelle pratiche comparative"
inTRAlinea Special Issue: Translation And Interpreting for Language Learners (TAIL)
Edited by: Laurie Anderson, Laura Gavioli and Federico Zanettin
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2302

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