«Dall’altra parte», «da questa parte».
Il significato del jazz ne Il gioco del mondo di Julio Cortázar
By Francesco Giardinazzo (University of Bologna, Italy)
Abstract
English:
Published in the sixties, during the literary and musical cultural revolution, the age of “free jazz,” Julio Cortázar’s Hopscotch (Rayuela) portrays a fascinating voyage in search of a truth—“from this side” as well as “from the other side” of the Ocean—that although complex, concerns the meaning of jazz as a recapitulation of the human condition and not only as a musical genre. In this way Cortázar’s writing allows us to come into contact with the elements at the origin of this story (blues, stream, the concepts of jam session and improvisation), guiding us through this story by following the metaphor of water (the Ocean) as an archetype of the concept of rhythm, on which literary writing is based as well as jazz and blues.
Italian:
Pubblicato negli anni Sessanta, durante la rivoluzione culturale letteraria e musicale, l’età del free jazz, Il gioco del mondo (Rayuela) di Julio Cortazar rappresenta un viaggio affascinante alla ricerca, “da questa parte” così come “dall’altra parte” dell’Oceano di una verità che, per quanto complessa, interessa il significato del jazz in quanto ricapitolazione della condizione umana e non solo come genere musicale. La scrittura di Cortazar ci permette con questo di entrare in contatto con gli elementi originari di questa storia (il blues, lo stream, il concetto di jam session e di improvvisazione) guidandoci attraverso questa storia seguendo la metafora dell’acqua (l’Oceano) come archetipo del concetto di ritmo su cui si fonda tanto la scrittura letteraria quanto la musica jazz e blues.
Keywords: Cortázar, blues, jazz, jam session, stream, ritmo, rhythm
©inTRAlinea & Francesco Giardinazzo (2013).
"«Dall’altra parte», «da questa parte». Il significato del jazz ne Il gioco del mondo di Julio Cortázar"
inTRAlinea Special Issue: Palabras con aroma a mujer. Scritti in onore di Alessandra Melloni
Edited by: Maria Isabel Fernández García & Mariachiara Russo
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Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2000
1. Da questa parte del mare
Il gioco del mondo (Rayuela, 1963) di Julio Cortázar permette sguardi di rimando che s’intessono nelle fibre della scrittura aprendo scenari imprevedibili nella loro ricapitolazione non di una storia individuale, ma di un destino collettivo che, oltre alla scrittura, solo la musica possiede: qui il jazz e la sua matrice blues. Possiamo anticipare che questa di Cortazar è una storia liquida, nel senso che la metafora dell’acqua e i suoi correlati assumono un valore archetipico che spiegano cosa sia la forma del jazz. Essa obbedisce ad un imperativo originario, il ritmo, il flusso della natura nella vitalità che stringe nella corrente ciò che gli argini tentano di dominare. Del resto è proprio un fiume, il Mississippi, che ne sente i primi vagiti, quando il jazz non sapeva di chiamarsi così. L’energia della vita stessa fluisce nelle sue note. Per questo il jazz è irripetibile, non si può mai suonare due volte nella stessa maniera, così come non è possibile bagnarsi due volte nella stessa acqua che scorre.
Nasce come forma di espressione di una minoranza politica, non numerica, negli Stati Uniti. Comincia a farsi sentire nel canto doloroso e caustico degli hollers, dei primi incerti blues di tradizione pagana (“forma profana afroamericana, rurale e urbana” Baraka 1999: 8) di cui il jazz si nutre, è la linfa erotica della vita che viene celebrata e risorge, sempre, nonostante tutto. Amiri Baraka sottolinea questo aspetto riferendosi polemicamente all’estetica afroamericana come categoria generale di un’estetica blues che racchiude l’essenza dell’antichità africana; ma è anche un’estetica occidentale, per il fatto di essere espressione di un popolo occidentale, anche se afroamericano:
(In fondo l’Europa non è l’ovest, mentre lo sono le Americhe! Dirigendosi a ovest dall’Europa si arriva al New Jersey! A ovest delle Americhe sta l’Oriente!) […] Perfino l’approccio europeo della cosiddetta estetica apollinea (formalismo e contenimento), caratteristico della cultura attica ateniese, risulta particolarmente significativo perché emerge dal contrasto con il metodo filosofico ed estetico più antico, quello dionisiaco (espressionistico e umanistico incentrato sull’emozione). Si tratta di una risistemazione della sensibilità e delle priorità umane, fondamentale per la creazione di un’epoca tanto quanto il Mediterraneo, l’inondazione che divise il mondo. Siamo ancora dominati dalle tribù che emersero a nord di questa via d’acqua dai riferimenti biblici (Baraka 1999: 8-9).
È il canto di una dignità più antica della recente schiavitù. Musica da suonare nelle rare feste per scandire l’immane fatica di giorni e anni, e forse ancora segregata nei giri e nelle scale armoniche. Questo dicono le ricostruzioni sulle sue oscure origini, riscoprendone il carattere cosmopolita, tipico, secondo Baraka, delle popolazioni africane, accoglienti ed aperte, incuriosite dalla diversità, dall’altro.
L’evoluzione stilistica del jazz non consente definizioni, argini solidi. È nella sua natura, e a questa natura obbedisce senza riserve, senza reticenze. Come altre arti, il jazz ha saputo trarre profitto dalle lezioni ascoltate o intuite; oppure, con talento imprevedibile, ha creato la possibilità di uno sguardo ulteriore sulle cose, gli statuti, le estetiche, i giudizi di valore. Parlare del jazz significa parlare di questa “evoluzione creatrice” perché il suo è il ritmo della vita, della natura nel suo aspetto “naturante”, non “naturato”.
Anche se tentiamo di tracciarne alcune coordinate, di isolare nel disegno complessivo alcuni tratti essenziali, questa rispondenza analogica fra la parte e il tutto è inaggirabile. Isolare un tratto significa addentrarsi nello specifico di ciò che chiamiamo “stile”, ipotizzandone la genuinità, l’eminenza, la pregnanza che di volta in volta si presenta alla nostra attenzione. E naturalmente parlare di “stile” in questo ambito non ci rassicura su una possibile riduzione per “epoche” come per altre forme artistiche. Si è tentati di accettare che il flusso sia uniforme, compatto, variabile nella velocità della corrente a seconda dell’abbondanza delle acque e dell’ampiezza del letto. Ma guardando bene, ci si accorge che la morfologia del territorio non è affatto compatta, e men che meno il fiume che lo attraversa, la cui corrente è vorticosa, carica di umori pericolosi e riflessi di luce imprendibili e magici, come accade quando ci si lascia avvolgere dalla sinuosa e ipnotica corrente di un ditirambo. Per queste ragioni, Il gioco del mondo fa del significato del jazz una delle ricapitolazioni della storia del mondo. Solo che il jazz (come dire meglio?) va con un tempo assolutamente proprio:
-Il progresso nell’arte sono stupidaggini arcisapute,- disse Etienne.- Ma nel jazz come in qualsiasi arte c’è un sacco di ricattatori. Una cosa è la musica che può tradursi in commozione e un’altra la commozione che pretende di passare per musica. Dolore paterno in fa diesis, risata sarcastica in giallo, viola e nero. No, caro mio, l’arte comincia al di qua o al di là, non è mai questo. Nessuno pareva disposto a contraddirlo perché Wong arrivava con il caffè e Ronald, stringendosi nelle spalle, aveva dato avvio ai Waring’s Pennsylvanians e da uno stridore terribile giungeva il tema che piaceva tanto a Oliveira, una tromba anonima e poi il piano, tutto nella fumosità da vecchio fonografo e pessima incisione, da povera orchestra e come anteriore al jazz, in fondo da quei vecchi dischi, dagli show boats e dalle notti di Storyville era nata l’unica musica universale del secolo, qualcosa che avvicinava gli uomini più e meglio che l’esperanto, l’Unesco e le aviolinee, una musica sufficientemente primitiva per giungere all’universalità e sufficientemente bella per creare una storia sua propria, con scismi, ritrattazioni ed eresie, il suo charleston, il suo black bottom, il suo shimmy, il suo foxtrot, il suo stomp, i suoi blues, per ammettere le classificazioni e le definizioni, questo e quello stile, lo swing, il bebop, il cool, e andare e tornare dal romanticismo e dal classicismo, hot e jazz cerebrale, una musica-uomo, una musica con storia distinta dalla stupida musica animale da ballo, la polka, il valzer, la samba, una musica che permetteva di riconoscersi e stimarsi a Copenhagen come a Mendoza o a Città del Capo, che avvicinava gli adolescenti con i loro dischi sotto il braccio, che dava loro nome e melodia quali cifre per riconoscersi e iniziare un colloquio e sentirsi meno soli anche se accerchiati dai capiufficio, famiglie e amori infinitamente amari, una musica che acconsentiva a tutte le immaginazioni e gusti, la serie degli afonici 78 con Freddie Keppard o Bunk Johnson, l’esclusivismo reazionario del Dixieland, la specializzazione accademica di Bix Beiderbecke o il salto nella grande avventura di Thelonious Monk, Horace Silver o Thad Jones, la pacchianeria di Erroll Garner o di Art Tatum, i pentimenti e le abiure, la predilezione per i piccoli complessi, le misteriose incisioni con pseudonimi e denominazioni imposte dalle case discografiche o dai capricci del momento, e tutta quella massoneria del sabato sera nella camera da studente o nella cantina del circolo, con ragazze che preferiscono ballare mentre ascoltano Star Dust o When your man is going to put you down, e odorano lentamente e dolcemente di profumo di pelle, di calore, si lasciano baciare quando è tardi e qualcuno ha messo The blues with a feeling e quasi non si balla, si sta in piedi, fermi, dondolandosi, e tutto è torbido e sporco e canagliesco e ogni uomo vorrebbe strappare quei reggipetto tiepidi mentre le mani accarezzano una schiena e le ragazze stanno a bocca socchiusa e si abbandonano a poco a poco alla paura deliziosa e alla notte, allora s’alza una tromba possedendole per tutti gli uomini, prendendole con una sola frase calda che le lascia cadere come una pianta tagliata fra le braccia dei compagni […] e così va il mondo e il jazz è come un uccello che migra ed emigra o immigra e trasmigra, saltabarriere, burladogane, una cosa che corre e si diffonde e stanotte a Vienna sta cantando Ella Fitzgerald mentre a Parigi Kenny Clarke inaugura una cave e a Perpignan martellano le dita di Oscar Peterson, e Satchmo ovunque con il dono dell’ubiquità che gli ha concesso il Signore, a Birmingham, a Varsavia, a Milano, a Buenos Aires, a Ginevra, nel mondo intero, è inevitabile, è la pioggia e il pane e il sale, una cosa assolutamente indifferente ai riti nazionali, alle tradizioni inviolabili, alla lingua e al folklore; una nuvola senza frontiere, una spia dell’aria e dell’acqua, una forma archetipica, anteriore, sottostante, che riconcilia messicani e norvegesi e spagnoli e russi, li reincorpora al dimenticato oscuro fuoco centrale, torpidamente e malamente e precariamente li restituisce ad una origine tradita, indica loro che forse potevano esserci altre vie e che quella presa non era né l’unica né la migliore, o che forse potevano esserci altre vie e che quella presa era la migliore, ma che forse ce n’erano altre più dolci da percorrere e che non le presero, o le presero a mezzo, e che un uomo è sempre più di un uomo e sempre meno di un uomo, più di un uomo perché racchiude in sé ciò cui allude il jazz e sottolinea e anche anticipa, e meno di un uomo perché di quella libertà ha fatto un gioco estetico o morale, una scacchiera su cui si riserva di essere alfiere o cavallo, una definizione di libertà che è insegnata nelle scuole, esattamente nelle scuole dove mai si è insegnato e mai si insegnerà ai bambini il primo tempo di un ragtime e la prima frase di un blues, eccetera, eccetera (Cortázar 1969: 74-6).
Nelle radici più profonde del jazz si origina un vero e proprio stream of conscioussness musicale. Per Joachim Berendt non è affatto casuale che ‘corrente’, ‘stream', venga impiegata in relazione ai differenti stili:
Da New Orleans ai giorni nostri scorre un unico, possente fiume. Viste retrospettivamente, anche le fratture, perfino le rivoluzioni –per esempio quella del bebop e più tardi del free jazz- assumono via via un carattere di continuità, di spontaneità. Possono formarsi cascate, qualche volta, vortici e rapide, ma il fiume continua a fluire e rimane sempre lo stesso (Berendt 1986: 20).
Lo stream si fonda per sua natura sulla jam session e l’improvvisazione. Discendendo la corrente degli anni, incontriamo i poeti della “beat generation”, che vogliono sentir scorrere, pulsare, nelle vene della loro scrittura il sangue elettrizzante di musicisti come Parker, Coltrane, Gillespie, Monk. Un racconto partecipe dal punto di vista dell’implicazione stilistica e narrativa è offerto da La nascita del bop (The Beginning of Bop, in “Escapade”, III, 9, aprile 1959, pp. 4-5 e 52) testo dal titolo vagamente aristotelico-nietzschiano scritto da Kerouac nel 1959.
Che cosa vuol dire che qualcosa nasce dall’improvvisazione? Anche la tragedia, secondo Aristotele, nasce dall’improvvisazione, e per di più collettiva, da vere e proprie jam session che si svolgevano in determinate celebrazioni cultuali. Basta questo elemento analogico per accomunare due fenomenologie culturali irrelate nel tempo e nello spazio sotto l’unica insegna di ciò che non è originariamente “composto” da una intenzione creatrice, ma è quasi prodotto per generazione spontanea e collettiva? Certo, lo schema del call and response di derivazione africana presenta forti analogie con coloro che intonavano il ditirambo. Contrariamente alla tragedia però, il jazz mantiene una propria cifra autonoma sia dal punto di vista creativo che dal punto di vista istituzionale. È un’arte che rifugge le ricostruzioni artificiali proprio per la sua “temporalità”, per la sua costante evoluzione e flusso, come afferma ancora Berendt:
Questa è la ragione per cui molti musicisti di jazz hanno considerato con scetticismo la ricostruzione di precedenti stili di jazz. Essi sanno che la storicizzazione è contraria alla natura del jazz; la musica jazz nasce e muore insieme alla sua vitalità. Ciò che è vivo si trasforma. Quando negli anni Cinquanta la musica di Count Basie divenne un successo mondiale, fu richiesto a Lester Young –il solista più importante della vecchia orchestra di Basie- di suonare con un gruppo di ex musicisti di quell’orchestra, e di ricostruire lo stile degli anni Trenta per una raccolta di dischi. “Non posso farlo”, disse Lester. “Non suono più così. Suono diversamente, vivo diversamente. Quei tempi sono passati. Noi ci modifichiamo, ci muoviamo” (Berendt 1986: 20-21).
Tanto bastava a creare un mondo capace di assorbire con frenesia e violenza la vita di quanti vi vivevano, un mälström potente e concentrico che attira inevitabilmente verso il suo centro dinamico, anche perché chi si trova impigliato in quella corrente riesce a sentirne la vitalità più forte di qualsiasi pericolo. L’idea dello “scrivere bop” di Kerouac gioca fondamentalmente con le metafore aeree e liquide:
ORGANIZZAZIONE L'oggetto è davanti alla mente, nella realtà, come quando si traccia uno schizzo (davanti a un paesaggio o a una tazza da tè o a una vecchia faccia) oppure nella memoria dove diventa lo schizzo di un determinato oggetto-immagine.
PROCEDIMENTO Essendo il tempo indispensabile alla purezza del discorso, il linguaggio dello schizzo sgorga dalla mente come un flusso imperturbato di segrete idee verbali personali, che soffiano (come fa il musicista jazz) nel soggetto dell'immagine.
METODO niente punti che separino le strutture-frasi già arbitrariamente confuse da ipocriti due punti e timide virgole di solito inutili –bensì un vigoroso trattino che separi il respiro retorico (come un musicista jazz che prende il fiato tra i fraseggi)- “pause misurate che sono i fondamenti del nostro discorso” – “divisioni dei suoni che sentiamo” – “il tempo e come annotarlo” (William Carlos Williams).
CAMPO D'AZIONE Evita la “selettività” d’espressione e segui invece la libera deviazione (associazione) della mente dentro i mari di pensiero illimitati e soffia-sul-soggetto, nuotando nel mare dell'inglese senza altra disciplina che quella dei ritmi dell'emissione retorica e della rimostranza, come un pugno battuto sul tavolo a ogni dichiarazione, bang! (trattino) – Soffia forte quanto vuoi - scrivi in profondità, pesca in profondità quanto ti apre, se soddisfi per primo te stesso, il lettore non mancherà di ricevere la scossa telepatica e l'eccitazione-significato dettate dalle medesime leggi che operano nella sua mente di uomo.
[…]
TEMPI Niente è oscuro quando si sviluppa nel tempo e secondo le leggi del tempo –accento shakespeariano sull'esigenza drammatica di parlare adesso nel nostro modo inalterabile o di tacere per sempre- nessuna revisione (tranne gli errori razionali, come i nomi o gli inserimenti calcolati nell'atto non di scrivere bensì di inserire) (Kerouac 1996: 13-14).
In questa dimensione fluida “suonare la voce” equivale alla ricerca della “voce nello strumento”: basti ricordare la versione di Summertime incisa di Louis Armstrong ed Ella Fitzgerald, l’appassionata elegia di I’ll Wind di Sarah Vaughan, o la memorabile Strange fruit di Billie Holiday. Questa fusione di correnti e dei confini tra musica e canto (la “musica del canto” o il “canto della musica”) aggiunge qualcosa sull’atto di nascita che pareva non rintracciabile, ma che tuttavia è stabilito in una determinata lingua che non è più quella degli schiavi africani; la reazione e la successiva relazione della condizione del black people negli States in quella determinata lingua è l’inizio dell’apparire della coscienza nera sulla scena americana:
Immaginatevi di essere deportati come schiavi in Mongolia, di lavorare lì settantacinque anni, di imparare al massimo una ventina di parole di mongolico, di allontanarvi dalla vostra baracca solo per andare a lavorare: penso che nessuno potrà mai considerarvi un mongolo. È solo dal momento in cui si accetta l’idea di far parte di un paese che si può essere considerati dei residenti permanenti. Voglio dire che in un paese si continua a essere soltanto di passaggio, finché non se ne ha un’idea abbastanza chiara da poter cominciare a formulare delle generalizzazioni morali durevoli, ossia raccontare la propria esperienza nella lingua di quel paese in una qualche forma, sia pure con trucchi e ambiguità. Non esistono dei racconti compiuti sull’esistenza del nero in America trasmessi in un qualsivoglia dialetto africano: le storie, i miti, gli esempi morali espressi nei dialetti africani riguardano soltanto l’Africa. Ma quando l’esperienza americana divenne per l’africano tanto importante da dover essere trasmessa ai giovani, in qualche interpretazione formale, allora la si tramandò in una sorta di linguaggio afroamericano. E finalmente, quando un uomo sollevò il capo da un qualsiasi anonimo campo e gridò: “Oh, Ahm tired a dis mess, I Oh, yes, Ahm so tired a dis mess” (“Oh, sono stanco di questo schifo / Oh, sì sono stanco di questo schifo”), potete essere certi che fosse americano (Baraka 1999: 19-20).
La prima anonima voce che è sgorgata in un campo è di un afroamericano, non più di uno schiavo africano. La musica nasce dalla voce, il primo strumento, per poi disseminarsi e universalizzarsi nei timbri e nei colori degli strumenti, nel percepire il vibrato di una corda sulla cassa armonica, legno contro metallo, il fruscio dell’aria che scorre nelle ance di un sax, o il tocco limpido o violento di una mano sul pianoforte; così come i chiaroscuri di una voce si dipanano sulla melodia tentando sempre armonizzazioni diverse, così che il corpo stesso diventa cassa di risonanza che un musicista invisibile amministra e modula con tatto o impietrito sgomento, rabbia, paura, desengaño. L’emotività, anziché rifiutata, viene accolta e amalgamata nella complessa matericità di un brano. Il jazz ha saputo mantenere “body and soul” nella stessa misura, poesia e nervi saldamente in equilibrio, riuscendo a convivere e a rivitalizzarsi perennemente nel tappeto sonoro del fraseggio, nei titoli che cercano, alla maniera di tanta arte del Novecento, di evocare uno stato di cose più che una precisa immagine, per non disperdere l’auraticità e l’arcano fondamento della composizione attraverso un titolo fin troppo esplicito.
Cosa hanno in comune il jazz e la tragedia, a parte la probabile origine da un’improvvisazione rituale, o almeno divenuta in seguito tale? Condividono il senso umano del dolore, della lacerazione, della protesta, del perenne mutamento del divenire, i vari registri esistenziali che suscitano e verso cui attraggono e trascinano. Ma a cosa è necessario attenersi per attingere a questa visione sonora del destino? Anche la parola è una visione sonora che pone decisivi interrogativi alla semantica e al significato. Nel grido folle di Aiace come nello shout dello schiavo della Louisiana non è possibile intendere la stessa sofferenza? Non è il fattore umano che ne determina lo spessore, non è la carne che cerca sempre di modulare dall’indistinto ciò che rimarrebbe, altrimenti, senza senso? Unità-lacerazione-conciliazione regolano la dialettica tragica quanto la trama di un brano: l’assolo corrisponde alla lacerazione, l’unità all’esposizione del tema, la conciliazione, al ritorno dello strumento solista nel coro unitario degli strumenti, e così via, potenzialmente senza soluzione di continuità. La musica è perciò il fondamento della riflessione umana sul proprio destino. Immersi in un universo sonoro prima che vocale, gli uomini hanno dapprima saggiato la corrispondenza con quel mondo particolare per poi portare a compimento intelligibile quella forma creatrice particolare che è la voce e le sue estensioni musicali (il canto).
La forza dell’arte, suggerisce Cortázar, sta nella sua inesauribile capacità propositiva e rigenerante: se un tessuto inerte viene lacerato, la cucitura segnerà sempre lo strappo; ma nel caso di una ferita viva, la cicatrice permetterà all’organismo di ricomporre il taglio senza inibire in alcun modo l’organismo. Solo una concezione museale e collezionistica crede che le cose stiano in un certo ordine senza che sia possibile spostarle, offrirle meglio alla luce e all’emozione dello sguardo. Un’opera d’arte istituisce una comunicazione, parla dandoci la libertà di accogliere questo dire o farci da parte. Il jazz si fonda su questo dialogo, è il nocciolo fluido custodito dalla crosta degli anni. Ma esso affonda in un passato apparentemente più silenzioso e difficilmente percepibile, un po’ come l’effetto-fonografo di Cortázar. È una traccia importante perché porta di nuovo dall’altra parte dell’Atlantico.
2. «Si rese conto che il ritorno era in realtà l’andata, e in più di un senso»
Li chiamano blue devils. La loro presenza è un’ossessione impalpabile, uno sguardo che tramuta la più quotidiana delle realtà in un inferno a cielo aperto. La luce non può scacciarli, a differenza di altri spettri angosciosi. Sono figli della prigionia del tempo, di incantesimi scritti da forze incomparabili a quelle umane, di rimorsi o colpe oscure che danno loro la consistenza angosciosa di un incubo. È una storia remota: sono le Erinni in caccia di Oreste; è il fantasma del padre che semina in Amleto oppressione e desiderio di un riscatto che gli sarà fatale. Ritroviamo tracce di queste forze arcane nel tarantismo, nel voodoo e nella medicina sciamanica. Ogni cultura ha elaborato, cercato e proposto rimedi, danze, esorcismi, canti, farmaci o terapie (inclusa la psicoanalisi) per ricacciarli nella tenebra blu di cui sono fatti e li rende visibili e tremendi alle loro vittime. Una battaglia totale che impegna tutte le risorse spirituali, razionali o religiose dell’uomo. Da blue devils, dicono, viene il blues, la musica escogitata per tenerli a distanza, per spazzarli via, perché i “diavoli blu” s’impadroniscono delle loro vittime per tormentarli con un’angoscia scaturita dalla vita quotidiana pur essendo creature metafisiche. Ed è proprio questa opposizione fra astratto e concreto, tra lo spazio preciso di un’esistenza e la dilatazione metafisica di questa angoscia che va collocato il blues, «quella combinazione piena di gusto e a volte fin quasi magica di incantesimo linguistico e di percussioni da cui scaturisce quella musica da ballo dei tempi andati» (Murray 1999: 13). Poiché corpo e anima soffrono insieme, insieme percorrono la via della purificazione. Sospese tra la chiesa e music hall, le architetture del dolore e del riscatto sono regolate dal medesimo principio armonico, pur nella varietà degli stili di espressione. Lo spazio della lotta è quello, mescolanza di due orizzonti ben distinti: l’eredità africana, animista e sincretista, e quella cristiana, monoteista e tradizionalmente articolata sull’opposizione bene/male.
Se il gospel o lo spiritual sono l’evoluzione “cristiana” dell’originario canto religioso africano, il blues appare come una musica caratterizzata dall’elemento deviante “diabolico” (e sessuale) che si afferma come un’etichetta del genere. L’incanto ritmico e il suo rapimento musicale tellurico verrà poi estremizzato nella sua evoluzione da un processo di modernizzazione rappresentato dal jazz. Inoltre, se il gospel o lo spiritual s’incaricano di sovrapporre il paradigma della schiavitù e del riscatto biblico alla condizione storica degli schiavi emancipati, imprimendo per questo una decisa connotazione in senso politico, nel blues non verrà meno, oltre al carattere individualista dell’espressione artistica, la dolcezza e l’allegria che esprimono il carattere catartico di questa musica, il cui compito è quello di liberare l’uomo dal tormento. In effetti sono due distinte politiche del ritmo che eserciteranno un’influenza determinante nella storia della cultura musicale, descrivono due traiettorie molto precise della musica afro-americana:
Anche se la musica blues ha pure un significato e un senso immediatamente e di fondo politici, la natura di quest’aspetto politico non è sempre però così ovvio come amano credere certi critici del folklore capaci di leggerlo solo secondo un’angolazione sociale. Le implicazioni politiche stanno in primo luogo nel modo di porsi nei confronti dell’esperienza che discende dal carattere alternativo della musica blues. È un atteggiamento di resistenza e di perseveranza, fondato su un senso tragico o, meglio, epico della vita quello cui dà corpo al suo meglio la musica blues, impegnandosi in un’elaborazione, stilizzazione, ampliamenti e rifiniture che rispondono a pure ragioni estetiche. Ma, per inciso, è tale l’ambiguità della comunicazione artistica che non c’è alcun bisogno di scegliere tra implicazioni individuali e sociali, se non in relazione alla circostanza (Murray 1999: 32).
La base è la voce individuale, lo shout (la forma originaria), cui si aggiunge l’evoluzione dei modelli linguistici:
Ormai il linguaggio americano era padroneggiato per gli usi quotidiani dalla gran parte dei neri. Mentre il canto di lavoro e lo shout facevano uso solo di pochi vocaboli inglesi, o erano composti di parole inglesi africanizzate –una sorta di patois, che pareva una lingua del tutto estranea, piuttosto che un tentativo di padroneggiare l’inglese- i primi blues si erano spostati a dei versi in puro americano (con l’intento che la canzone sarebbe stata compresa da altri americani). La stessa ripetizione all’infinito di un verso, nello shout e nell’holler, poteva anche essere dovuta alla relativa povertà di parole americane in possesso del nero medio. I versi in rima erano molto più difficili da comporre a causa dell’effettiva limitazione imposta dal cantare in americano. I versi proruppero più facilmente non appena il linguaggio fu controllato più ampiamente. Il blues era un tipo di canto che utilizzava un linguaggio quasi perfettamente americano. Fino a che gli ex schiavi non ebbero padroneggiato questo linguaggio in maniera versatile, il blues non divenne più manifesto degli shout e degli holler (Baraka 1999: 70-71).
Questo impadronirsi della lingua degli oppressori, nonché il processo faticoso e drammatico dell’integrazione sociale, distinguono sostanzialmente il significato che l’esperienza musicale del blues e del jazz giustificano nei loro discendenti più agguerriti fino al punto di far coincidere la protesta sociale con quella artistica, come nel caso più eclatante del free jazz.
L’individuazione dei rapporti di interazione fra individuo e società, fra una tecnica orientata sulla performance del singolo e quella corale, collettiva, sul tipo della jam session diviene centrale:
La natura individuale del blues e della sua esecuzione è il risultato dell’ “esperienza americana” del nero. I canti africani, così come i canti della maggior parte delle culture preletterarie o delle civiltà classiche, avevano come tema base le imprese di un nucleo sociale, di solito la tribù. C’erano i canti sugli dei e sulla loro vita, sulla natura e sui suoi elementi, sulla vita umana e su ciò che ci si poteva aspettare dopo la morte, ma l’insistenza delle rime del blues sulla vita dei singoli e sui fallimenti e successi individuali sulla terra è una manifestazione dell’intero concetto di vita del mondo occidentale, e si tratta di uno sviluppo che si può trovare solo nella musica del nero americano. […] La figura del solista, cioè dell’uomo che canta e suona da solo, quasi non esisteva nella musica dell’Africa occidentale (Baraka 1999: 74).
L’idea di performance collettiva dalla quale poi si stacca quella individuale, oltre all’analogia col modello aristotelico, esprime un giudizio su una questione più complessa: esistono dei fenomeni originari corrispondenti fra diverse culture che rappresentano un fattore evolutivo centrale all’interno di un processo di creazione e consolidamento di una particolare forma di espressione artistica.
Gli anni in cui Cortázar pubblica Il gioco del mondo sono gli stessi del free jazz. Ornette Coleman ha pensato e realizzato l’innovazione attingendo alla fonte più remota, quasi “prelogica” del jazz con un intento artistico e chiaramente politico. Parlare il linguaggio del free jazz significa accogliere l’idea di una madre lingua dei suoni nei quali il musicista può tentare di cercare e scoprire la propria cellula germinale. Tramite l’improvvisazione, la ricerca attinge alla fonte di una lingua originaria che non è quella dell’uomo bianco o degli afroamericani occidentali, ma proprio la lingua materna, la lingua originaria che la babele della schiavitù ha frammentato in miriadi di universi straordinari. È la filosofia del ritorno verso casa e, come nella frase di Cortázar, Coleman «si rese conto che il ritorno era in realtà l’andata, e in più di un senso» (1969: 219).
Questa filosofia del movimento da questa verso l’altra parte (e ritorno), ridotta a sistema, porrebbe problemi imbarazzanti ad una tradizione che ha tentato di districare e separare concetti quali “ragione” ed “emozione”. Forse si può sostenere che del suo carattere originario più profondo, oralità e improvvisazione, il jazz, come pure il blues, ha mantenuto un elemento olistico dove è difficile intervenire col bisturi separando corpo e anima. Sembrerebbe più logico accettarlo come forma dell’esperienza artistica e parimenti come esperienza della forma artistica. Così il jazz ha impresso alla modernità un carattere indelebile, ne ha alimentato le radici grazie alla tessitura di individualismo, coralità e protesta capaci di toccare l’estensione della gamma espressiva in tutte le sue articolazioni.
La patria del jazz, per alcuni, non esiste perché è nata sul mare, durante i trasbordi degli schiavi dall’Africa verso il Nuovo Mondo. Una patria liquida (Black Atlantic e Atlantic people) che non poteva che generare una “musica liquida” a stento trattenuta entro i confini “dall’altra parte” e “da questa parte”: una sorta di common ground che interseca la storia dolorosa e magnifica in una terra straniera ma al tempo stesso incapace di definirsi senza l’acqua, un po’ come succede quando bisogna raccontare un’isola. Ma queste sono anche le contraddizioni che possono aver luogo laddove i campi di tensione sono molteplici, anzi multietnici, come gli Stati Uniti. La musica, per sua natura incline al metissage miracoloso e prolifico, aveva già indicato anche un senso politico, una politica del ritmo davvero fertile contro il fantasma dell’incomunicabilità e della degenerazione dei rapporti sociali, anche quando si è fatta protesta violentissima, ma necessaria. Di questa necessità non è possibile dubitare. Sul senso di continuità di questo progetto è necessario insistere, ascoltando, parlando, riflettendo su una grande lezione che abbiamo il privilegio di poter ancora tramandare al futuro. Anche questa storia, in fondo, si declina dall’altra parte e da questa parte della scrittura, del ricordo, dell’oceano –le distanze che solo la musica può colmare.
Bibliografia
Cortázar, Julio (1969) Il gioco del mondo, trad. di F. Nicoletti Rossini, Torino, Einaudi.
Baraka, Amiri (1999) Il popolo del blues. Sociologia degli afroamericani attraverso l’evoluzione del jazz, trad. di C. Antonelli e R. Scelsi, Milano, Shake Underground.
Berendt, Joachim (1986) Il nuovo libro del jazz. Dal New Orleans al jazz rock, a cura di G. Barazzetta, trad. di L. Luzzatto e A. Sekler Pianta, Milano, Vallardi.
Kerouac, Jack (1996) Scrivere bop. Lezioni di scrittura creativa, trad. di S. Ballestra, Milano, Mondadori.
Murray, Albert (1999) Ballando il blues, ediz. italiana a cura di H. Failoni, trad. di G. Cane, Bologna, CLUEB.
Williams, Martin (1993) The jazz tradition, New York-Oxford, Oxford University Press.
©inTRAlinea & Francesco Giardinazzo (2013).
"«Dall’altra parte», «da questa parte». Il significato del jazz ne Il gioco del mondo di Julio Cortázar"
inTRAlinea Special Issue: Palabras con aroma a mujer. Scritti in onore di Alessandra Melloni
Edited by: Maria Isabel Fernández García & Mariachiara Russo
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