“Sarebbe più bello semplicemente andarsene…”

Ricordi di Giovanni Nadiani

By Christian Wehlte (Università di Bologna)

©inTRAlinea & Christian Wehlte (2019).
"“Sarebbe più bello semplicemente andarsene…” Ricordi di Giovanni Nadiani"
inTRAlinea Commemorative Issue: Beyond the Romagna Sky
Edited by: Roberto Menin, Gloria Bazzocchi & Chris Rundle
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2444

Tra i colleghi qui, sono probabilmente quello che ha trascorso meno tempo con Giovanni - più precisamente, da ottobre 2013 in poi. Quando l‘ho conosciuto era già malato - non poco, ma molto gravemente, praticamente era già moribondo. Non Conosco Giovanni prima che si ammalasse. Tuttavia, non ho esitato un attimo ad accettare quando la prof.ssa Heiss mi ha chiesto di parlare oggi, nonostante fossimo solo colleghi e nonostante i nostri incontri ebbero luogo quasi esclusivamente nello studio di tedesco.

Perché Giovanni aveva davvero qualcosa di unico e del tutto “originale”.

Il nostro primo vero incontro, quello che andò oltre un simpatico cenno di saluto, avvenne nel semestre invernale 2013/14 presso l‘ormai storico Studio di Tedesco in via Oberdan. Ero appena uscito dal mio corso e entrando nello studio incontrai lì Giovanni nella sua tipica postura: dietro un computer, immerso tra libri e carta e con la sua borsa di cuoio sul pavimento, da cui sporgevano altri libri e cose, cose, tante cose. E lui si dedicava allo stesso tempo ai libri e al computer, leggendo e scrivendo.

Immaginate questa scena: una persona, usiamo un eufemismo, un po’ “spettinata” a la Schopenhauer, vestita con una camicia stile marinaio, spezzato tra l’analogico (libro e matita in mano) e il digitale – il tutto incorniciato dalla musica classica degli altoparlanti davvero squallidi del PC.

Una scena un po’ assurda, che però mi colpì subito, e il primo paragone che mi venne in mente (mi piace sempre trovare paragoni), era causato dall'apparenza della sua persona e dalla sua frenetica attività. Assomigliava un po’ al regista Werner Herzog (solo molto più magro). Anzi lo era proprio: il Werner Herzog dello SSLMIT.

Un pazzo, senz‘altro, ma in senso buono, un pazzo con un’apparenza garbata e grintosa, un pazzo davvero ammirevole.

Io sentii il bisogno di fare un commento, di dire qualcosa. Per coloro di voi (e siete la maggioranza) che non mi conoscono, io sono un tedesco settentrionale, un Tedesco del Nord. Per essere più preciso, un tedesco di Amburgo. Gli Amburghesi ancora di più degli altri tedeschi settentrionali sono convinti che non ci sia niente di più vergognoso al mondo che apparire troppo loquace, di sembrare un chiacchierone.  Dunque teniamo sempre la bocca chiusa e aspettiamo, osserviamo finché non troviamo qualcosa di positivo e convincente che ci spinga a dire qualcosa.

Quindi io mi misi in posizione d‘attesa e aspettai. Poi la musica tacque e dalla radio internet io sentii una voce: NDR Kultur... Radiodiffusione della Germania Settentrionale. Giovanni stava ascoltando la stazione della mia città natale: la Norddeutscher Rundfunk. Non riuscii a crederci e dovevo dire qualcosa, fare il mio commento.

E così ebbe inizio una lunga conversazione sulla musica classica e in particolare sulla Germania settentrionale.

Giovanni mi confessò il suo amore per la Germania settentrionale.

Immaginatevi il mio stupore: alla SSLMIT come pure all' estero in generale, i tedeschi settentrionali sono culturalmente e linguisticamente sottorappresentati e anche se sono fisicamente presenti, vengono fraintesi e giudicati persino dai loro connazionali. E Giovanni invece amava il paese, la cultura e persino le persone della Germania settentrionale. Stupendo!

Certo, ci sono ragioni biografiche e familiari che possono spiegare perché il Nord era importante per Giovanni. Ma non spiegano perché il Nord sia diventato parte della sua personalità e della sua identità. Non c'è differenza di mentalità maggiore di quella tra un Romagnolo e un Tedesco del Nord.

Che anima flessibile deve avere Giovanni, pensai. 

Come sarà sopravvissuto Giovanni all' inverno del 1977/78 a Brema a quello shock culturale? Che spaccatura profonda per un anima romagnola gestire la mentalità della Germania del Nord. Senz‘altro un motivo valido per diventare pazzo. Perché quella aspra mentalità non gli è rimasta estranea - così come quella bucolica Romagnola lo è rimasta e sempre rimarrà estranea a me?

Avrei tanto tanto voluto chiederglielo.

Il Giovanni che incontrai allora non era soltanto un Romagnolo che amava il Nord della Germania, così difficile da amare. No, era già un ex-scrittore d‘onore di Ottendorf (una piccolissima città vicino alla cittadina di Cuxhaven, nel nord della Germania). Uno che aveva tradotto in Romagnolo anche poeti tedeschi meno conosciuti e del dialetto della Germania settentrionale, il cosiddetto “basso tedesco” – un pazzo che ha preso sul serio la pretesa di tradurre il minore con il minore. L'autore che si batteva per scrittori sconosciuti della Germania settentrionale che erano stati esclusi dalla scena letteraria.

Non è certamente sbagliato vedere la doppia identità di Giovanni come ultima prova di una pazzia intellettuale più profonda, che esprimeva attraverso il suo amore per il marginale, il fuorigioco, il dimenticato.

Dalle nostre sempre più frequenti conversazioni che si svolgevano sempre presso lo studio di tedesco, capii che Giovanni aveva un debole per queste cose e che si era sempre visto come un mediatore tra il piccolo e il grande, tra il fuorigioco e il significativo. Amava innanzitutto gli scrittori che cercavano di usare la propria lingua nello spirito di Kafka (Deleuze) in un senso minore. Giovanni era appassionato di questo uso “minore”, sia nel senso di una rivalutazione letteraria del dialetto, sia nella produzione letteraria in piccole dimensioni - come traduttore e come scrittore.

I suoi eroi erano gli autori viventi e dimenticati della prosa breve, anzi prosa brevissima. Giovanni sembrava identificarsi più fortemente con loro. Quando Klaus Johannes Thies, che è stato tradotto e adorato da lui, ha finalmente ricevuto un apprezzamento su una intera pagina nella prestigiosa FAZ (Frankfurter Allgemeine Zeitung) nel maggio 2015, Giovanni mi salutò con un sorriso radioso e trionfale. Con un orgoglio grandissimo, come se fosse stato onorato lui stesso. Questa gioia pazzesca e questo orgoglio erano autentici.

Quando era così pazzo, così a suo agio, tuffato nelle cose che amava, la malattia scompariva dalla scena.

Spesso era molto ben visibile come lui si sentiva, se la terapia funzionava o quanto forti fossero gli effetti collaterali.

Spesso Giovanni si trascinava in classe, doveva interrompere la lezione per correre in bagno a vomitare, per poi tornare in aula e proseguire la lezione.

Invece di ritirarsi completamente e occuparsi solo di se e della malattia, lui voleva continuare a lavorare. La sua lotta per la sopravvivenza e il suo amore per il lavoro e l’insegnamento ha avuto qualcosa di estremamente eroico per me.

Giovanni non viveva per lavorare. Lui lavorava come un matto per vivere, per sopravvivere.

Il suo lavoro era la sua vita, la sua sopravvivenza, ma anche l'unica cosa che rimaneva della sua vita, perché il cancro si era mangiato il resto.

Nel 2015 abbiamo spesso discusso di ciò che rimane, di ciò che resta, di ciò che è veramente importante, se il successo vale la pena e cosa significa alla fine avere successo.

Perché scrivere e per chi - e perché insegnare?

Queste conversazioni erano già all' ombra della sua imminente morte, di cui Giovanni parlava sempre più spesso. Durante queste conversazioni scoppiavano di tanto in tanto momenti di disperazione.

Momenti di grande intensità che spesso mi lasciavano sconvolto e senza parole. 

Che cosa rimane allora? Lo psicoterapeuta americano Irvin Yalom scrisse una volta che forse il pensiero più confortante che possiamo avere di fronte alla morte è “che ciascuno di noi crea, spesso senza un intento consapevole e senza rendersene conto, dei cerchi concentrici di influssi che possono a loro volta influenzare gli altri per anni, persino per generazioni. Vale a dire che l’effetto che abbiamo sulle altre persone viene a sua volta passato ad altri, proprio come i cerchi nell’acqua di uno stagno continuano a svilupparsi finché non sono più visibili, anche se il movimento persiste a un livello impercettibile” (Yalom 2017: 79-80).

Giovanni avrebbe gradito questa idea dell’effetto onda dei cerchi concentrici, perché ha creato molti di questi cerchi.

Ecco il motivo per cui siamo tutti qui oggi.

Cerchi che ha creato attraverso la sua poesia, l‘opera letteraria in generale, le sue traduzioni, il suo insegnamento, la sua passione contagiosa per la letteratura, il suo umorismo, l‘ironia, ma anche attraverso il modo in cui ha affrontato la sua malattia e la morte.

Anche per questo lo voglio ringraziare. Il tempo trascorso con lui e le nostre conversazioni mi hanno insegnato molto anche sulla vita e sulla morte.

Nel maggio e giugno 2015 Giovanni mi disse di non credere di poter sopravvivere l'estate. E io gli dissi in una maniera semi-scherzosa che non volevo e non potevo dirgli addio e che lui aveva ancora troppo da fare per poter morire.

Insomma, sono cose che si dicono quando non si ha più la minima idea di cosa dire.

Quella volta si era sbagliato lui e fortunatamente ci siamo incontrati di nuovo in autunno.

Ma naturalmente non stava meglio e si era guadagnato soltanto un anno in più.

Quest‘ultimo anno ci siamo visti di meno - il nuovo studio di tedesco e gli orari non ci permettevano di fermarci spesso a fare due chiacchere.

Mi è sempre dispiaciuto un po‘ di non aver potuto dire addio a Giovanni. Nel 2016 quando il semestre era finito, ero sicuro che sarebbe tornato a settembre o ottobre come nel 2015.

Mi ero abituato a un Giovanni che sopravvive e ritorna sempre.

Purtroppo questa volta, mi sono sbagliato io.

Ma forse tali addii sono anche sopravvalutati, o meglio, presi troppo sul serio, presi “mortalmente seri”, come afferma una strofa d‘una poesia di Nicolas Born (2012: 104-5) con la quale vorrei concludere (naturalmente tradotto da Giovanni):

Abschiede sind todernst geblieben
und es ist noch nicht sicher daß Abschiede
überhaupt gebraucht werden
es wäre schöner einfach wegzugehen
und einfach wiederzukommen.

gli addii sono rimasti mortalmente serii
e non è ancora sicuro che gli addii
siano proprio necessari
sarebbe piu bello semplicemente andarsene
e semplicemente ritornare.

Sì, sarebbe stato troppo bello aprire la porta dello Studio di Tedesco nell‘ottobre 2016 e rivedere quel pazzo garbato e grintoso con i suoi libri e le sue penne tra le mani, e chiacchierare ascoltando la radio NDR.

Si, sarebbe stato troppo bello.

Ma è anche bello sapere che i cerchi che lui ha creato e provocato, continuano a svilupparsi in me e in tutti voi.

Bibliografia

Born, Nicolas (2012) Nessuno per sé, tutti per nessuno. Poesie 1969-1978, a cura di Giovanni Nadiani. Faenza: Mobydick (Lenuvole, 174).

Yalom, Irvin David (2017) Fissando il sole. Come superare il terrore della morte. Vicenza: Neri Pozza (I narratori delle tavole)

About the author(s)

xx

Email: [please login or register to view author's email address]

©inTRAlinea & Christian Wehlte (2019).
"“Sarebbe più bello semplicemente andarsene…” Ricordi di Giovanni Nadiani"
inTRAlinea Commemorative Issue: Beyond the Romagna Sky
Edited by: Roberto Menin, Gloria Bazzocchi & Chris Rundle
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2444

Go to top of page