Tradurre i classici da poeta

Su Milo De Angelis e Lucrezio

By Elena Coppo (Università degli Studi di Padova, Italia)

Abstract

English:

The article analyses Milo De Angelis’ translations of some parts of Lucretius’ poem, in Sotto la scure silenziosa: frammenti dal De rerum natura (2005). The work is placed in the Italian context, in which poetic translation from classical authors has become in the last decades quite irrelevant, while philological translation shows an increasing standardization (the so-called traduttese). De Angelis’ translations’ analysis concerns their relation with the source text and their lexical, syntactic and rhetorical features, both in general and in single extracts, and includes a comparison with other contemporary translations, in order to identify what makes them poetic.

Italian:

L’articolo analizza le traduzioni di alcuni brani del poema di Lucrezio da parte di Milo De Angelis, pubblicate nel volume Sotto la scure silenziosa: frammenti dal De rerum natura (2005). L’opera viene inserita nel contesto italiano, caratterizzato negli ultimi decenni dalla marginalità della traduzione poetica degli autori classici rispetto a quella filologica e dalla standardizzazione formale di quest’ultima, per la quale si parla anche di traduttese. Le traduzioni di De Angelis vengono esaminate nel rapporto con il testo di partenza e nelle loro caratteristiche lessicali, sintattiche e retoriche, combinando l’individuazione di tendenze stilistiche generali all’analisi ravvicinata di singoli brani, e vengono confrontate con altre traduzioni contemporanee, per coglierne i tratti che le caratterizzano come poetiche.

Keywords: De Angelis, Lucrezio, Lucretius, letteratura classica, classical literature, traduzione poetica, poetic translation

©inTRAlinea & Elena Coppo (2022).
"Tradurre i classici da poeta Su Milo De Angelis e Lucrezio"
inTRAlinea Volumes
Edited by: {specials_editors_volumes}
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2589

1. De Angelis e Lucrezio. Il problema della traduzione poetica

È notizia recente la pubblicazione, nella collana “Lo Specchio” di Mondadori, del De rerum natura tradotto da Milo De Angelis[1], punto di arrivo di un lunghissimo cammino percorso dal poeta a fianco di Lucrezio, fin dall’epoca della tesina di maturità, a lui dedicata[2], e delle prime versioni pubblicate sulla rivista Niebo (De Angelis e Pontiggia 1978). A precedere la nuova traduzione integrale, e forse a prepararle la strada, è stato inoltre il volume Sotto la scure silenziosa: frammenti dal De rerum natura (De Angelis 2005), che raccoglie le versioni di una cinquantina di passi del poema[3].

L’ispirazione di questi lavori è da ricercare in una profonda affinità spirituale e poetica con l’autore latino: in particolare, nella Nota iniziale alla raccolta del 2005, De Angelis presenta Lucrezio come un “poeta solitario”, “anima fuori tempo e fuori luogo”, la cui “pupilla tragica” “si intreccia al suo ragionare e lo riempie di pathos, conferisce a ogni idea la potenza di una visione” (De Angelis 2005: 9). E già in un’intervista dell’anno precedente aveva dichiarato di sentirsi “vicino a questa sfasatura di Lucrezio rispetto al suo tempo” e “vicino in un’idea del sublime, del caricare tutto di trasfigurazione”, attraverso “un realismo che diventa un’epopea, una cosmogonia, che parte dal dettaglio più concreto e lo porta nel vortice dell’esistenza e della vita” (Napoli 2005:105). Questa vicinanza sembra del resto confermata dalla critica, che ha descritto l’effetto prodotto dalla poesia deangelisiana proprio come un “sortilegio” determinato dalla “sfasatura tra la nitidezza del dettaglio e l’apertura visionaria” (Verdino 2017: 430), e ne ha definito l’opera nel suo complesso come “un campo di tensione tra i poli dell’orfico e dell’esperienziale” (Afribo 2015: 125), la cui potenza nasce proprio dalla compresenza e dall’interazione di due dimensioni contrastanti: quella visionaria ‒ dell’assoluto, del mitico, dell’onirico, dell’arcaico ‒ e quella realistica ‒ del contingente, del contemporaneo e del quotidiano ‒ ambientata nella sua periferia milanese.

È quindi da poeta che De Angelis si accosta alla traduzione del De rerum natura: ospite del Festival del Classico di Torino, nel novembre 2020, è lui stesso a presentare le versioni di Sotto la scure silenziosa definendole una traduzione poetica, e spiegando che poetica per lui non significa libera, ma volta, pur nel rispetto della lettera, a portare il testo in una nuova dimensione linguistica e stilistica che gli permetta di continuare a vivere nel nostro tempo[4].

La traduzione poetica degli autori classici, tuttavia, è un genere ormai da tempo praticamente scomparso dal nostro panorama letterario: fra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, in parallelo alla deflagrazione e all’espansione dell’universo poetico italiano, e assecondando le esigenze di divulgazione di un mercato editoriale sempre più di massa, la traduzione della letteratura greca e latina è diventata una questione di pertinenza di studiosi e professori, anziché di scrittori e poeti. In questo periodo, come ha osservato Federico Condello, il “monopolio esercitato dai filologi […] sul dominio della traduzione poetica” si sostituisce a quello “storicamente esercitato dai poeti, o da filologi e studiosi che operavano e traducevano, se traducevano, en poètes”, al punto che la traduzione poetica “cessa di costituire una possibilità praticabile a livello di  versioni correnti” e “diviene, semmai, primizia d’autore, curiosità artistica, al limite stravaganza di studioso” (Condello 2009: 46).

La progressiva affermazione della traduzione filologica su quella poetica, o la progressiva perdita della distinzione fra le due, sembra essersi accompagnata a una standardizzazione delle modalità e degli stili traduttivi, dando origine a una lingua della traduzione dei classici ‒ una varietà di traduttese ‒ della quale sono stati individuati alcuni tratti caratteristici: fra questi, la tendenza a tradurre parola per parola, senza omettere (quasi) nulla e semmai integrando con elementi esplicativi; un lessico altamente standardizzato e tendenzialmente arcaizzante; costrutti sintattici convenzionali e spesso calcati su quelli greci o latini; una generale indifferenza verso gli scarti stilistici (cfr. Condello 2021). Si tratta di tendenze caratteristiche della prima pratica scolastica ‒ specificamente italiana ‒ di traduzione dal greco e dal latino, che però sopravvivono anche nelle traduzioni professionali.

In questo contesto, risulta ancor più significativa la volontà dichiarata, da parte di De Angelis, di proporre una traduzione poetica. Nei paragrafi seguenti, le traduzioni di Sotto la scure silenziosa (2005) verranno analizzate sia dal punto di vista del rapporto con i passi originali latini che da quello della lingua (lessico, sintassi) e dello stile (strategie retoriche), alternando l’individuazione di tendenze generali all’esame di alcuni singoli testi e proponendo, da ultimo, il confronto con le versioni di altri poeti-traduttori contemporanei, al fine di comprendere le modalità con le quali De Angelis realizza la sua traduzione poetica dell’opera di Lucrezio.

2. Frammenti e occasioni. Un itinerario personale

Nella scelta del formato, le traduzioni di Sotto la scure silenziosa si mostrano in continuità con quelle apparse su Niebo quasi trent’anni prima[5]. Il quarto numero della rivista, uscito nel gennaio 1978, aveva ospitato, sotto il titolo Lucrezio. Atomi, nubi, guerre, dieci passi lucreziani (25 versi il più ampio, 4 il più breve) affiancati dalle traduzioni in prosa. La selezione era il risultato di una scelta personale del traduttore, e comprendeva alcuni passi molto noti ‒ come quello che paragona gli atomi alle particelle visibili in un fascio di luce che illumina una stanza buia (II, 109-28), oppure quello che descrive la violenza e la frustrazione dell’atto sessuale (IV, 1107-20) ‒ e altri invece raramente considerati (come il brevissimo passo sulla schiusa delle uova e la muta delle cicale: V, 801-4). Inoltre, l’ordine nel quale erano disposti non rispecchiava quello del poema, ma tracciava un percorso personale inedito, difficile da interpretare (Pellacani 2017: 30).

Il volume del 2005 conferma la scelta di proporre una selezione di passi brevi (51 in totale: i più ampi contano una ventina di versi, i più brevi solo 3 o 4) affiancati dalle traduzioni in prosa, e di presentarli come frammenti isolati e riorganizzati in base a una logica differente, che però in questo caso viene esplicitata: la raccolta si compone di quattro capitoli, corrispondenti ad altrettanti temi fondamentali dell’opera di Lucrezio, ossia “La natura” (14 frammenti), “L’angoscia” (21), “L’amore” (11) e la malattia, o più precisamente “La peste di Atene” (5).

La presenza del testo a fronte è più problematica di quanto si potrebbe pensare. Innanzitutto, la corrispondenza non è sempre perfetta: ad esempio, a p. 44 è riportato un brano che affronta il tema della paura della morte (III, 79-86,), ma la sua traduzione comprende anche i due versi successivi, non riportati; viceversa, può accadere che il testo latino a fronte contenga più versi di quelli effettivamente tradotti, come nel caso del brano di p. 32 (I, 995-1001), sul movimento incessante degli atomi, la cui traduzione è basata solo sui primi tre versi. In generale comunque, come si avrà modo di constatare analizzando alcuni esempi, anche quando c’è corrispondenza fra il testo latino riportato e la sua traduzione, questa si realizza solo considerando il passo nel suo complesso: di certo non parola per parola, ma nemmeno verso per verso o frase per frase. La scelta di riportare i passi latini del poema lucreziano sembra essere stata dettata dalla volontà di indicare al lettore le occasioni dalle quali sono nate le traduzioni poetiche, e non per consentirgli o suggerirgli il confronto fra il testo latino e quello italiano, né, tantomeno, per permettergli di seguire il primo attraverso il secondo. È un segnale dell’autonomia poetica di queste traduzioni.

3. Echi e riflessi. Uno stile poetico

Consideriamo i vv. 1102-10 del I libro, con cui si apre la prima sezione del volume, dedicata alla natura:

Ne volucri ritu flammarum moenia mundi

diffugiant subito magnum per inane soluta

et ne cetera consimili ratione sequantur

neve ruant caeli tonitralia templa superne          1105

terraque se pedibus raptim subducat et omnis

inter permixtas rerum caelique ruinas

corpora solventis abeat per inane profundum,

temporis ut puncto nil exstet reliquiarum

desertum praeter spatium et primordia caeca.    1110

In un volo di fiamme le mura del mondo all'improvviso crolleranno, trascinate nell’immenso vuoto. Il cielo, regno dei tuoni, cadrà su di noi e tutta la terra sarà una voragine smisurata, una strage di corpi e rovine: non resterà nulla, in quel deserto buio di atomi, nulla (De Angelis 2005: 12-13).

La traduzione ha un tono particolarmente solenne, determinato anche dalla cadenza prosodica regolare: l’incipit ha un ritmo anapestico ‒ “In un volo di fiamme le mura del mondo” ‒ che poi subisce un rallentamento, con gli accenti non più ogni tre sillabe ma ogni quattro ‒ “all’improvviso crolleranno trascinate nell’immenso” ‒ in una serie interrotta dal “vuoto” finale. Un rapido confronto con il testo latino evidenzia immediatamente che non tutti gli elementi che lo compongono trovano corrispondenza nella traduzione: ad esempio, viene tralasciato il v. 1104, e del passaggio ai vv. 1106-8 (et omnis […] per inane profundum) si può rintracciare solo il riferimento a “corpi e rovine”. D’altro canto, non sarebbe facile individuare nel testo latino il corrispettivo della “strage”, così come della “voragine smisurata” (forse inane profundum del v. 1108), o di quel doppio “nulla” che conclude il testo italiano (a fronte dell’unico nil collocato al centro del v. 1109). Si tratta di un esempio rappresentativo del rapporto che queste traduzioni stabiliscono con i testi latini, rendendone il significato complessivo in maniera generalmente un po’ più sintetica, e cogliendone alcune suggestioni per svilupparle con modalità originali.

Vediamo ora la traduzione di un altro frammento (II, 34-46), che occupa anch’esso una posizione preminente nella raccolta, in apertura della sezione dedicata al tema dell’angoscia:

Nec calidae citius decedunt corpore febres,

textilibus si in picturis ostroque rubenti                      35

iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.

Quapropter quoniam nil nostro in corpore gazae

proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,

quod superest, animo quoque nil prodesse putandum;

si non forte tuas legiones per loca campi                    40

fervere cum videas belli simulacra cientis,

subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,

ornatas armis statuas pariterque animatas,

[fervere cum videas classem lateque vagari,]              43a

his tibi tum rebus timefactae religiones

effugiunt animo pavidae; mortisque timores               45

tum vacuum pectus linquunt curaque solutum.

Le febbri ardenti non risparmiano nessuno. Un corpo si agita su lussuosi tappeti, un altro su stoffe da due soldi. È lo stesso, lo stesso. Le ricchezze non possono salvarti. Men che meno il tuo zefiro di gloria. Prova a pensarci. Pensa di essere lì a contemplare orgoglioso le tue legioni: cavalli, armi, valore, l’immagine perfetta della guerra. Sei lì, osservi la tua flotta che si schiera e si estende nel mare. Ti basta questo? Ti basta questo spettacolo per guarire la tua anima folle di paura? Ti basta questo? (De Angelis 2005: 42-43)

Già una prima lettura è sufficiente per mettere in luce la diversa articolazione del testo latino, costruito su due soli periodi, di cui il secondo particolarmente ampio e complesso, e della traduzione, caratterizzata invece dall’incalzarsi di tante frasi brevi, spezzate dalla punteggiatura. Le ripetizioni, disseminate lungo tutto il testo (“È lo stesso, lo stesso”; “Prova a pensarci. Pensa di essere lì […]”, “Sei lì […]”), si intensificano ancora una volta nel finale, dove la combinazione di frammentazione sintattica e iterazione anaforica (“Ti basta questo? Ti basta questo spettacolo […]? Ti basta questo?”) produce un effetto di insistenza ossessiva e angosciosa che non trova riscontro nella lettera del poema lucreziano, ma di certo non è estraneo al suo spirito.

Già partendo da questi due brani, è possibile identificare alcuni stilemi caratteristici delle traduzioni lucreziane di De Angelis, che riflettono per lo più il suo stile poetico personale. Per esempio, sul piano lessicale, Andrea Afribo, nel suo studio del 2015 sulla poesia deangelisiana, ha notato la tendenza all’impiego di sostantivi e aggettivi che connotano lo spazio e il tempo in maniera iperbolica (Afribo 2015: 122-23). Ora, nel primo frammento, se in Lucrezio le mura del mondo si dissolvono magnum per inane (v. 1103), in De Angelis il vuoto non è semplicemente grande, ma “immenso” ‒ in linea con i verbi “crolleranno” e “trascinate”, anch’essi più intensi rispetto ad altre possibili soluzioni per diffugiant e soluta, come svaniranno e dissolte ‒ e la “voragine” che Lucrezio non dice, ma che si forma quando la terra se pedibus raptim subducat, è per De Angelis “smisurata”[6].

Ben più importante e diffuso è però un altro tratto ancor più tipico dello stile deangelisiano e osservato in entrambe le versioni: l’uso delle iterazioni, che pervadono questi testi e li segnano profondamente. Afribo ha individuato una delle costanti linguistico-formali della poesia di De Angelis nell’epanalessi, ossia la ripetizione di una o più parole, in posizione contigua (tipo xx), con rafforzamento del secondo elemento (tipo xx”), o con interposizione di una o più parole (tipo xyx) (Afribo 2015: 119-21). Queste modalità iterative si possono facilmente riconoscere anche nelle traduzioni del De rerum natura: al tipo xx, che qui è il più raro, si può ricondurre il già citato “È lo stesso, lo stesso” (De Angelis 2005: 43); esempi del tipo xx”, più frequente, sono “e non sa, certamente non sa” (63), “la nostra vita, tutta la nostra vita” (67), “se non immagini, labili immagini, miserabili immagini” (97). Al tipo xyx, invece, si possono riportare casi come “Nulla, ah, nulla” (53), ma soprattutto le numerosissime anafore ‒ “Non vedi che […]? Non vedi che […]?” (27); “Non troverete confini […]. Non troverete confini” (p. 37); “Guardali […]. Guardali bene” (59); “Bisogna fuggire […], bisogna volgere […], bisogna gettarlo […]” (93) ‒ e le altrettanto numerose riprese che isolano e rimarcano un elemento presente all’interno della frase precedente: “basterà un solo giorno a distruggerle. Sì, un solo giorno” (23); “Non c’è mai tregua per questi corpi. Mai” (33); “è falso il lamento dell’uomo […]. È falso” (51); “Non è mai intero il piacere, mai” (95); “spingono invano in direzioni opposte. Invano” (105).

Tutti gli esempi appena citati si collocano all’interno delle versioni deangelisiane, contribuendo a strutturarne la forma e a determinarne l’andamento ritmico. Ma un discorso a parte meritano le ripetizioni collocate in posizione finale, che sono estremamente frequenti e hanno un effetto di intensificazione patetica o tragica che è, anche questa, caratteristica di molti testi poetici di De Angelis (Afribo 2015: 121). Se ne sono già visti degli esempi nelle due versioni riportate, ma ce ne sono moltissimi altri: “il mondo non è stato creato per noi. […] No, non è stato creato per noi” (De Angelis 2005: 25); “un moto irregolare e senza pace. Nessuna pace, mai, per i corpi” (35); “nulla, nemmeno il mare sollevato fino al cielo, nulla potrà più toccarci, credimi, nulla” (49); “Bisogna squarciare questo velo. Dipende solo da noi. Bisogna squarciarlo” (53); “Non temere. Nessuno ti minaccerà più. Non temere” (56); “saremo esposti ogni giorno al dolore, ogni giorno!” (75).

Molti di questi passi potrebbero essere portati a esempio anche di altre due tendenze stilistiche che caratterizzano le traduzioni deangelisiane. La prima è la frammentazione sintattica: capita molto di frequente di imbattersi in frasi brevissime e icastiche, per le quali sarebbe inutile cercare una corrispondenza formale nei testi latini. Oltre agli esempi già citati, si possono ricordare altre serie di frasi brevi, come “Guarda i bambini. Sono fragili, indifesi. Sono labili, come il loro pensiero” (47), “Il male li colpiva. Corpi essiccati” (111), oppure singole frasi isolate di grande impatto, come “Immutabile è soltanto la guerra” (19), “È un ordine eterno” (57), fino ai singoli “Mai” (33), “No” (53, 65), “Invano” (101, 105) che impongono pause cariche di tragicità.

Particolarmente interessanti sono i casi, piuttosto frequenti, in cui il ritmo del discorso è determinato da uno stretto contatto fra periodi ampi, in genere costruiti su serie verbali o, più raramente, nominali, e frasi brevi:

Immutabile è soltanto la guerra. Le forze vitali trionfano, si bloccano, sono assediate, vincono ancora, si dileguano, risorgono. (19)

Gli atomi vanno liberi nel cosmo, volteggiano, si intrecciano, si staccano, si perpetuano in combinazioni inesauribili, animati dalla potenza del movimento. E non solo su questa terra. Non solo qui. Guardate: non ha sosta la materia creatrice. (37)

Preparano ogni giorno un banchetto, gareggiano in pranzi, raffinatezze, profumi, in coppe riempite senza sosta, vestiti lussuosi, ghirlande. Invano. (101)

Un’altra tendenza, che si intreccia facilmente a quella appena osservata, riguarda l’impiego frequente dei verbi all’imperativo con cui il poeta-traduttore si rivolge direttamente al lettore. Non che questi fossero estranei allo stile di Lucrezio, ma nelle traduzioni deangelisiane compaiono molto più spesso, e di solito sono molto evidenti perché collocati in posizione incipitaria o sintatticamente isolati: il più frequente è “Guarda” (17, 23, 25, 47), anche nelle varianti “Guardate” (37), “Guardali […]. Guardali bene” (59), “Guardane uno” (79), ma si possono citare anche “Prova a pensarci. Pensa” (43), “Pensa” (97), o “Ascoltate” (103).

Ma questi tratti stilistici caratterizzanti, punti di contatto fra la poesia di De Angelis e le sue traduzioni da Lucrezio, non sono gli unici elementi che contribuiscono a connotare queste ultime come poetiche. C’è soprattutto, da parte del poeta-traduttore, un’interpretazione personale del testo latino che dà luogo, come già si è avuto modo di osservare nei due testi esaminati, a una vera e propria ri-creazione poetica.

Ne sono una spia anche le soluzioni adottate per rendere singole parole o espressioni del testo lucreziano, nelle quali anche un minimo slittamento rispetto a una resa filologica “standard” fa emergere immediatamente la personalità del poeta-traduttore. Nei due brani già analizzati, esempi di questo tipo possono essere l’incipit “In un volo di fiamme” (De Angelis 2005: 13), che traduce con grande immediatezza espressiva il latino volucri ritu flammarum[7], oppure l’espressione “zefiro di gloria” (43) per il semplice gloria regni latino, al quale si può affiancare il “tappeto della gloria” (69) che compare nella traduzione di un altro passo (III, 76 claro qui incedit honore > “qualcuno che cammina sul tappeto della gloria”[8]): in entrambi i casi la gloria si fa oggetto, ma se noi la immaginiamo come un tappeto rosso, in realtà non è che una brezza leggera. Sulla stessa linea, l’astratta salutem che i moti distruttori non possono seppellire in eterno (II, 570) può tradursi in una forza corporea e dinamica, “la spinta della vita” (19). E proprio al tema della vita e della morte sono riconducibili alcune delle soluzioni più originali, che vanno sempre nella direzione della concretezza di immagini e sensazioni: da espressioni come “il portone della morte” (31) per leti ianua (V, 373), oppure “operai della morte” (71) per leti fabricator (III, 472) ‒ che si discostano appena dalle classiche “la porta della morte” e “artefici di morte”[9], ma abbastanza per calare questi elementi nella nostra realtà quotidiana ‒ fino ai passi nei quali la morte diviene una sostanza fisica, pesante e vischiosa, per cui gli uomini “sono capaci […] di compiere qualunque gesto, pur di togliersi di dosso un po’ di morte” (45) (III, 86 vitare Acherusia templa petentes[10]) e, durante l’epidemia di peste di Atene, qualcuno compie gesti estremi “vedendo la morte che gli strisciava addosso” (113) (VI, 1208 metuentes limina leti[11]). Fin troppo chiaramente deangelisiana, infine, la metafora che descrive il contagio facendo riferimento al mondo dell’atletica leggera, così presente nelle sue raccolte poetiche[12]: “Ciascuno raccoglieva la malattia dell’altro, in una staffetta mortale” (115) (VI, 1235-36 nullo cessabant tempore apisci / ex aliis alios avidi contagia morbi[13]).

Concludiamo dunque questa analisi esaminando la traduzione di De Angelis di un passo lucreziano dedicato a una morte celebre, quella di Ifigenia (I, 87-101):

Cui simul infula virgineos circumdata comptus

ex utraque pari malarum parte profusast,

et maestum simul ante aras adstare parentem

sensit et hunc propter ferrum celare ministros                       90

aspectuque suo lacrimas effundere civis,

muta metu terram genibus summissa petebat.

Nec miserae prodesse in tali tempore quibat

quod patrio princeps donarat nomine regem.

Nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras                95

deductast, non ut sollemni more sacrorum

perfecto posset claro comitari Hymenaeo,

sed casta inceste nubendi tempore in ipso

hostia concideret mactatu maesta parentis,

exitus ut classi felix faustusque daretur.                               100

Tantum religio potuit suadere malorum.

Appena avvolsero nella benda i suoi capelli di ragazza, Ifigenia vide tutto. Vide Agamennone immobile vicino all’altare, vide i sacerdoti che nascondevano la spada, il popolo che la guardava in lacrime. Muta di terrore, si piegò sulle ginocchia, supplicando, si lasciò cadere a terra. Chiamò il re, per la prima volta, con il nome di padre. Per la prima volta. Nessuna risposta. La portarono di forza, tremante, all’altare. E non era l’altare delle nozze, non erano i riti solenni e così attesi, i cori splendenti. No. Fu distesa vicino ad Agamennone, che le immerse la spada nel petto: solo così la flotta greca poté prendere la via propizia del mare. Solo così, Ifigenia, solo così. (De Angelis 2005: 64-65)

Il primo, ampio periodo latino (vv. 87-92) si compone di due subordinate temporali, segnalate dal duplice simul (vv. 87 e 89), la seconda delle quali regge le tre oggettive che ricostruiscono le impressioni di Ifigenia, che percepisce dapprima l’atteggiamento del padre (maestum […] adstare parentem), poi il gesto dei sacerdoti (ferrum celare ministros) e la reazione del popolo (lacrimas effundere cives), mentre la principale ‒ muta metu terram genibus summissa petebat ‒ occupa la posizione finale. La traduzione di De Angelis, invece, si articola in tre periodi distinti: il primo si conclude sulle parole “Ifigenia vide tutto”, che concentrano in un istante la vista e la comprensione, da parte della ragazza, di quanto la attende; il secondo riprende anaforicamente il verbo “vide”, descrivendo i diversi personaggi coinvolti; il terzo torna su Ifigenia, scomponendo il suo crollo in due momenti, osservati come al rallentatore, attraverso un parallelismo sintattico: “Muta di terrore, si piegò sulle ginocchia, supplicando, si lasciò cadere a terra”. La seconda metà del brano coniuga una sintassi franta, talvolta nominale, con un sistema di iterazioni: “Chiamò il re, per la prima volta, con il nome di padre. Per la prima volta. Nessuna risposta” (che modifica, drammatizzandolo, il significato del testo latino[14]); “e non era l’altare delle nozze, non erano i riti solenni […]. No”; fino alla tragica conclusione, nella quale il poeta-traduttore arriva a rivolgersi direttamente alla protagonista: “solo così la flotta greca poté prendere la via del mare. Solo così, Ifigenia, solo così”.

È certamente significativa la scelta di De Angelis di non tradurre la celeberrima sententia lucreziana con la quale si conclude questo brano ‒ Tantum religio potuit suadere malorum[15] ‒ che pure viene riportata nel testo a fronte. L’episodio del sacrificio di Ifigenia, in questo modo, perde il suo valore esemplificativo delle atrocità a cui ha portato la religione tradizionale, e quello che rimane è solo il racconto di un orribile delitto. E non è questo l’unico caso in cui le traduzioni deangelisiane sembrano veicolare un’interpretazione personale, più cupa e angosciante, del testo di Lucrezio[16]. Un esempio è la traduzione dei vv. 1016-23 del III libro, che parlano di come le terribili punizioni che gli uomini immaginano nell’aldilà non siano altro che la proiezione delle paure che provano mentre sono in vita. Il passo si conclude con il verso Hic Acherusia fit stultorum denique vita[17], che De Angelis traduce “Qui, sulla terra, si avvera l’inferno” (81); una chiusa di grande effetto, che però tralascia il genitivo stultorum: per Lucrezio, questa è la vita degli stolti, che può essere evitata da coloro che abbracciano la verità epicurea; per De Angelis, invece, questa sembra essere la vita alla quale l’umanità intera è irrimediabilmente destinata. Un altro caso interessante è quello dei vv. 1161-67 del V libro, nei quali Lucrezio si propone di spiegare le origini della religione: una serie di domande retoriche su come i nomi degli dèi e i riti si siano diffusi tra i popoli si conclude con il verso non ita difficilest rationem reddere verbis, che introduce l’esposizione delle cause di tali fenomeni. La traduzione di De Angelis, però, non comprende quest’ultimo verso (che non viene nemmeno riportato in latino) e quindi si esaurisce nella serie angosciosa degli interrogativi anaforici ‒ “Come è nata? E come si è diffusa tra le grandi nazioni l’idea del divino? […] Come è nata la paura […]? Come è nata?” (83) ‒, trasformando quella che in Lucrezio è una questione importante, alla quale egli intende dare una risposta, in una domanda che il poeta-traduttore ripropone ossessivamente, senza che una risposta sembri possibile.

4. Traduzioni a confronto

Lo statuto poetico di queste versioni di De Angelis, che ne fa un prodotto raro nel panorama attuale delle traduzioni italiane dei classici, si può cogliere al meglio provando a confrontare uno dei suoi frammenti con una traduzione che è ormai classica anch’essa: quella di Luca Canali, pubblicata nel 1990 in un’edizione che ha sempre goduto di grande prestigio e autorevolezza, e tuttora frequentemente adottata nell’ambito dei corsi universitari, per la sua veste curata ed elegante e perché si dimostra particolarmente adatta come supporto allo studio del testo latino. Alle versioni di Canali e De Angelis si può aggiungere quella di Sanguineti, traduttore di numerosi passi del poema lucreziano[18], fra cui alcuni frammenti pubblicati da il verri nel 2005 ‒ dunque in contemporanea a quelli di De Angelis ‒ e analizzati da Federico Condello, che ha dimostrato come l’esperimento sanguinetiano presupponga, e al contempo neghi, la modalità standard di traduzione dei classici.

Consideriamo quindi i vv. 1037-60 del IV libro, che fanno parte della famosa trattazione lucreziana della fisiologia e psicologia amorosa, di cui riportiamo le versioni di Canali, Sanguineti (solo per i vv. 1052-57) e De Angelis:

Il seme di cui ho parlato è suscitato in noi

appena l’età pubere apporta vigore alle membra.

Poiché diverse cause stimolano e feriscono oggetti diversi,

dall’uomo soltanto il fascino dell’uomo fa sgorgare il seme umano.                  1040

E questo, appena esce emesso dalle sue sedi,

attraverso le membra e gli arti si ritrae da tutto il corpo,

raccogliendosi in certe parti ricche di plessi nervosi,

e subito eccita esattamente gli organi genitali.

Le parti stimolate si gonfiano di seme: nasce il desiderio                               1045

di eiacularlo dove s’appunta la brama mostruosa,

ed esso cerca quel corpo da cui l’animo è ferito d’amore.                               1048

Infatti per lo più tutti cadono sulla propria ferita

e il sangue sprizza nella direzione da cui è vibrato il colpo,                            1050

e se il nemico è vicino il getto vermiglio lo irrora.                                       

Così dunque chi riceve la ferita dai dardi di Venere,

siano essi scagliati dalle femminee membra d’un fanciullo,

o da donna che irradi amore da tutto il corpo,

si protende verso la creatura da cui è ferito e arde                                       1055

di congiungersi a lei, e di versare in quel corpo l’umore del proprio corpo.

Infatti la tacita brama presagisce il piacere.

Questa è Venere in noi; di qui il nome d’amore,

di qui prima stillarono dolcissime gocce

nel cuore, e a vicenda successe la gelida pena […] (Canali 1990: 405-7)            1060

 

così dunque, chi riceve, per le frecce di Venere, le sue piaghe,

quando lo colpisce, quello, un ragazzo che ha membra muliebri,

o una donna che, da tutto il suo corpo, emana l’amore,

si protende, da quella parte che è ferito, e ha la voglia di andarci insieme,        1055

e di gettarlo, il proprio sperma, fuori dal proprio corpo, in quel corpo: il

desiderio, muto, gli fa pregustare, infatti, il piacere: (Sanguineti 2005: 8)

Il seme cresce dentro di noi. Non appena l’adolescenza dà vigore alle membra e un altro essere umano lo attira a sé, esso ci attraversa e si concentra nei genitali, li mette in allarme, li gonfia, li accende, li guida verso il corpo da cui è giunta la terribile ferita d’amore. Come in una battaglia. Quando il nemico ci trafigge con la sua spada, cadiamo verso di lui, bagnandolo di sangue. Così, non appena ci penetra la freccia amorosa, scagliata dal corpo femmineo di un fanciullo o dal corpo di una donna impregnata d’amore, ci voltiamo verso chi ci ha ferito, desideriamo avvinghiarci, scagliare contro quel corpo il liquido che viene dal nostro, dare voce al silenzioso richiamo. Questa è per noi Venere, questa è la parola amore, queste le prime dolcissime gocce, a cui segue il gelo. (De Angelis 2005: 91)

Nella versione di Canali si possono riconoscere alcuni dei tratti che sono stati individuati come caratteristici del traduttese generalmente impiegato, negli ultimi decenni, nelle traduzioni italiane dei classici antichi. In primo luogo, la corrispondenza verso per verso e, tendenzialmente, parola per parola con il testo latino[19]: di qui la precisione con cui vengono riprodotti anche i più sottili passaggi del ragionamento lucreziano (si vedano ad esempio i vv. 1039-40, sui quali invece De Angelis non si sofferma, limitandosi a inglobarli nella formula “e un altro essere umano lo attira a sé”). Ma questo spiega anche la presenza, in Canali, di formule di passaggio e termini riempitivi che possono appesantire un po’ l’insieme, come l’avverbio “esattamente” (v. 1044) che corrisponde a un ipsas latino, o gli attacchi “Infatti per lo più tutti” (v. 1049 Namque omnes plerumque), “Così dunque” (v. 1052 Sic igitur), “Infatti” (v. 1057 Namque), e di alcune soluzioni a calco, come “emesso dalle sue sedi” (v. 1041 suis eiectum sedibus), “le membra e gli arti” (v. 1042 membra atque artus: i due termini sono sinonimi, infatti al v. 1038 era stato usato “membra” per artus).

In secondo luogo, la traduzione di Canali adotta un lessico che, mantenendosi su un registro sostenuto, include termini talvolta marcatamente letterari o poetici, o comunque arcaizzanti ‒ spiccano “brama”, “dardi”, “umore” ‒ e talvolta invece stranamente tecnici, propri del linguaggio della medicina e della fisiologia, come per i “plessi nervosi” (v. 1043 loca nervorum) o per il verbo “eiaculare”; per cui si possono creare veri e propri cortocircuiti lessicali, come in “nasce il desiderio / di eiacularlo dove s’appunta la brama mostruosa” (vv. 1045-46)[20].

Questi aspetti si ritrovano, particolarmente marcati, nel breve passo tradotto da Sanguineti, che è il risultato di una complessa operazione stilistica e critica con la quale, come ha messo in luce l’analisi di Condello, lo stile lucreziano viene ricondotto “esattamente al ‘grado normale’ o troppo normale del gergo traduttivo” (Condello 2008: 462). Ecco quindi la traduzione verso per verso e parola per parola, che scompone versi ed enunciati latini nei loro singoli elementi, minuziosamente riprodotti in italiano (v. 1052 Sic igitur > “così dunque”; v. 1053 hunc > “quello”; v. 1057 Namque > “infatti”) ed evidenziati da una punteggiatura sovrabbondante. Ed ecco anche l’adozione di soluzioni lessicali appartenenti a registri diversi e disomogenei: dal letterario “piaghe” (v. 1052) e dal latineggiante “membra muliebri” (v. 1053) fino all’abbassamento stilistico determinato, paradossalmente, da calchi etimologici come “andarci insieme” (per coire, v. 1055) e “gettarlo” (per iacere, v. 1056), e dal certamente impoetico “sperma” (v. 1056), oltre che da una sintassi colloquiale, caratterizzata dai pleonasmi pronominali e dall’uso irregolare del che (v. 1055 “da quella parte che è ferito”). Il risultato è una traduzione che, proprio rimarcando i tratti caratteristici dello standard traduttivo, ne vuole evidenziare l’impraticabilità (Condello 2008: 265-66).

E un’alternativa a questo standard è proposta da De Angelis: il confronto con la versione di Canali rende ancora più evidente la diversa modalità con cui egli si rapporta al testo lucreziano, sintetizzandolo e rielaborandolo; non c’è traccia in questo caso di parole o espressioni che segnalano la corrispondenza con il latino. I vv. 1041-48, per esempio, sono resi attraverso una serie di voci verbali separate dalla virgola in un crescendo di intensità (“esso ci attraversa […] la terribile ferita d’amore”), cui segue, secondo una modalità già osservata, l’inciso “Come in una battaglia”, che non ha riscontro in latino, ma anticipa e chiarisce il passaggio alla similitudine successiva. Per quanto riguarda poi le scelte lessicali, De Angelis sembra preferire in genere soluzioni più naturali e immediate rispetto a quelle di Canali[21], oltre che più omogenee dal punto di vista stilistico. Lo si vede già nei primi due versi: nella versione deangelisiana, il seme “cresce” (e non “è suscitato”) quando l’“adolescenza” (e non “l’età pubere”) “dà” (e non “apporta”) vigore alle membra. A fare la differenza, comunque, non è solo la preferenza per la “freccia” rispetto ai “dardi” (v. 1052), ma anche la ricerca di soluzioni lessicali, ancora una volta, dotate di maggiore concretezza e intensità espressiva: così il sangue non irrora il nemico, ma lo bagna, la donna non irradia amore, ma ne è impregnata, e l’uomo desidera non semplicemente congiungersi a lei, e versare in lei il suo umore, ma avvinghiarsi e scagliarlo contro quel corpo.

Ma proprio su questo piano dell’efficacia e della vivacità lessicale può essere interessante un ulteriore confronto, questa volta con una traduzione più affine a quella di De Angelis per il formato a frammenti e per lo statuto poetico. Ancora il verri, nel 2008, ha pubblicato le versioni di tre brani lucreziani a opera di Jolanda Insana: si tratta dell’incipit del poema (I, 1-39), del catalogo dei difetti femminili (IV, 1155-91) e di un passo sulle origini della vita sulla terra (V, 783-825). Fra questi, il secondo è il solo tradotto anche nel volume di De Angelis:

Gli uomini innamorati si prendono in giro a vicenda. Ciascuno consiglia all’altro di non farsi ingannare, ignorando di essere già in trappola. Donne orrende vengono adorate come regine, lodate con parole irreali. Ascoltate, è grottesco. Una dalla pelle bruciacchiata diventa “la mia creola”, un’altra sporca e trasandata è chiamata “bellezza spartana”. Se ha gli occhi verdi, è subito una Minerva, se è tutta nervi e ossa diventa una gazzella. Una nana si trasforma in un tipetto tutto pepe, una cicciona è un essere pieno di maestà. Se balbetta, è un delizioso cinguettio; se non sa dire una parola, è una creatura piena di pudore. Una strega esaltata è una ricca di temperamento. Se non sta in piedi è un giunco, se è tisica un passerotto; se ha un seno enorme diventa Cerere in persona, se ha un nasone una diva, se ha le labbra sporgenti un nido di baci. (De Angelis: 103)

E perciò vediamo femmine brutte e laide                                                1155

molto onorate e ardentemente amate.

E l’uno ride dell’altro, persuadendolo a placare                                  

la passione poiché è degradante l’amore che l’affligge

e non scorge, sventurato, la sua più amara sventura.

Melata è la bruna. Senza belletti la sozza puzzona.                                  1160

Occhiazzurri è il ritratto di Pallade. La segaligna è una gazzella.

La piccoletta, il tappo tutto pepe è sorella delle Grazie.

Una delle sette meraviglie è la stangona, piena di grazia e dignità.

Incapace di parlare la balba è blesa, la mutola riservata.

Sempiterna lampa è l’ardente petulante chiacchierona.                            1165

Un amore in miniatura l’emaciata che stringe l’anima                     

coi denti, delicata la tisica.

La pupporona, invece, è Cerere che allatta Bacco.

La rincagnata una Silena o una Satirella, la labbrona è baccello di baci. (Insana 2008: 86)

Rispetto a tutti gli altri brani fin qui analizzati, questo si distingue per il tono, che non è didascalico e nemmeno tragico o patetico, ma piuttosto satirico, o persino comico, per effetto di un’efficace strategia retorica basata sulla giustapposizione dei difetti femminili, presentati con impietoso realismo, e dei vezzosi nomignoli usati dagli innamorati. Il gioco di contrasti e l’adozione di termini latini molto realistici da un lato, e di numerosi grecismi dall’altro, rendono questo passo del poema, più di altri, una vera e propria sfida per un traduttore.

La versione di De Angelis si apre con un’introduzione che rielabora quella del testo latino, anticipando il commento sul comportamento degli uomini innamorati (vv. 1157-59), rispetto alla constatazione di come “donne orrende” siano oggetto di adorazione e di lode (vv. 1155-56); segue (senza riscontro in latino) un appello ai lettori, nel consueto stile essenziale (“Ascoltate, è grottesco”), e a questo punto si apre la galleria di ritratti femminili. Nella resa di questi ultimi, il poeta-traduttore mette in pratica diverse strategie: in alcuni casi si attiene alla lettera (v. 1161 Palladium > “una Minerva”; dorcas > “una gazzella”; v. 1168 Ceres ipsa > “Cerere in persona”), ma in altri preferisce un lessico più moderno (v. 1162 tota merum sal > “un tipetto tutto pepe”; v. 1163 magna atque immanis > “una cicciona”), oppure sceglie formule alternative, con un effetto modernizzante (v. 1165 flagrans odiosa loquacula > “una strega esaltata”; v. 1169 Silena ac saturast > “una diva”) che culmina nell’anacronismo, o nell’uso anacronistico del lessico antico (v. 1160 melichrus > “la mia creola”; acosmos > “bellezza spartana”). Molte volte, tuttavia, il vivacissimo lessico lucreziano viene tradotto in maniera perifrastica: v. 1160 nigra > “dalla pelle bruciacchiata”; v. 1164 muta pudens est > “se non sa dire una parola, è una creatura piena di pudore”; v. 1165 Lampadium > “una ricca di temperamento”; v. 1168 tumida et mammosa > “se ha un seno enorme”; v. 1169 simula > “se ha un nasone”; v. 1169 labeosa > “se ha le labbra sporgenti”. La diversità delle soluzioni adottate e l’ampliamento di molti passaggi allontanano questa traduzione dall’originale lucreziano nel ritmo, meno vivace, e nel tono, più grave.

Per quanto riguarda Insana che, come poetessa, è ben nota per il suo plurilinguismo (Broccio 2018), è stato notato che le sue traduzioni da Lucrezio non riflettono questa attitudine, anzi, perché l’attenzione alla corrispondenza con l’originale comporta “la rinuncia a quel lessico fortemente idiosincratico e ‘pirotecnico’” che la caratterizza, “come se la poetessa in un certo senso trattenesse la propria voce” (Pellacani 2017: 28). Fa un po’ eccezione, tuttavia, proprio questo passo: nel tradurre il catalogo dei difetti femminili, la vena poetica di Insana può andare incontro a quella di Lucrezio sul piano dell’inventiva verbale. Ecco quindi, ad esempio, l’irriverente “sozza puzzona” per il latino immunda et fetida (v. 1160, da confrontare con “sporca e trasandata” di De Angelis); il composto canzonatorio “occhiazzurri”; l’esageratamente arcaizzante “sempiterna lampa” (per il lucreziano Lampadium, v. 1165); l’espressivo regionalismo (toscano) “pupporona” e lo scherzoso “labbrona”. Incisiva è anche la resa di cum vivere non quit / pro macie (vv. 1166-67) con la metafora “che stringe l’anima / coi denti”[22]. Il piano lessicale, inoltre, è strettamente connesso con quello fonico: si vedano le numerose allitterazioni (“Senza belletti la sozza puzzona”, “la piccoletta, il tappo tutto pepe”, “sempiterna lampa”; a volte al limite della paronomasia, come in “la labbrona è baccello di baci”), le consonanze (“ardente petulante”, “amore in miniatura”), le rime interne e i richiami fonici (“gazzella” e “sorella”; la serie di “riservata”, “emaciata”, “delicata” e “rincagnata”, che si intreccia con quella di “stangona”, “chiacchierona”, “pupporona”, “labbrona”)[23]. L’aderenza alla lettera e allo spirito del testo lucreziano è conservata, e l’effetto è senz’altro godibile.

5. Conclusioni. Traduzione e “intensità”

Di fatto […] le versioni di testi poetici sono, nella loro maggioranza, parafrastiche (soprattutto quando dispongono il testo a fronte) tuttavia mantenendo indicazioni grafiche come l’“a capo” corrispondenti ai versi e le divisioni strofiche; mentre in quelle che si classificano “poetiche” si verranno evidenziando livelli ulteriori, la cui presenza può aumentare gradatamente. Al di sopra di una certa intensità (più o meno intenzionale) si può parlare di “ricreazione” e di autonomia poetica. (Fortini 1989: 97)

Fortini, che nelle sue Lezioni sulla traduzione (1989) si sofferma più volte a riflettere sullo statuto della traduzione poetica, constata il prevalere di modalità “parafrastiche” di traduzione della poesia, caratterizzate da un formato che rispecchia ‒ nel numero di versi e nelle divisioni strofiche ‒ quello del testo di partenza riportato a fronte, e sostiene che invece una traduzione poetica, per potersi definire tale, deve consentire “livelli ulteriori” di analisi, superando una certa soglia di “intensità”.

L’esame delle traduzioni di De Angelis dal De rerum natura ha messo in luce come avviene, in questo caso, il superamento della soglia. Innanzitutto, l’operazione traduttiva viene presentata, dallo stesso De Angelis, come il risultato di un incontro personale fra poeta tradotto e poeta-traduttore, nel nome di una vicinanza nel modo di intendere e di fare poesia; in secondo luogo, il poeta-traduttore prende chiaramente le distanze dalle modalità convenzionali (o “parafrastiche”) di traduzione della poesia classica: nella selezione e nella classificazione personale dei passi da tradurre, in contrapposizione a una traduzione integrale o dei soli brani più celebri; nella scelta della prosa, che paradossalmente, anziché negare la poeticità della traduzione, la garantisce, impedendo una convenzionale corrispondenza verso a verso con il testo a fronte; nella focalizzazione sulla resa di pensieri ed emozioni, piuttosto che di singole parole ed espressioni (e di certo non parola per parola); nell’adozione infine di uno stile poetico personale riconoscibile, non standardizzato. Di conseguenza, tale operazione trasforma profondamente il testo originale ‒ “mutandolo perché possa vivere altrove” (Napoli 2005: 105) ‒ e ha come esito un testo poetico nuovo, con caratteristiche lessicali, sintattiche, retoriche proprie. In questo Lucrezio c’è quindi molto, moltissimo di De Angelis. Resta un interrogativo, e cioè se questo stile traduttivo così personale e così ‘intenso’ possa essere conservato anche in una traduzione integrale dell’immensa opera lucreziana.

Bibliografia

Afribo, Andrea (2015) “Deangelisiana”, in Poesia italiana postrema. Dal 1970 a oggi, Roma, Carocci, 2017: 107-126.

Arvigo, Tiziana (2011) “Piccola cosmogonia portatile: Sanguineti lettore e traduttore di Lucrezio”, Nuova corrente LVIII, 58: 81-104.

Bertoni, Alberto (2020) Lucrezio milanese. Interpretazioni, letture, riscritture di Milo De Angelis e Giancarlo Pontiggia, in Ragione e furore. Lucrezio nell’Italia contemporanea, Francesco Citti, Daniele Pellacani (eds), Bologna, Pendragon: 221-37.

Broccio, Emanuele (2018) “Jolanda Insana: una lingua per scuotere le menti”, Mantichora 8: 128-41.

Canali, Luca (1990) (trans) Tito Lucrezio Caro, La natura delle cose, Milano, Rizzoli.

Condello, Federico (2005) “‘Impuro specchio’. Sul Lucrezio di Sanguineti”, il verri XXIX, 29: 123-31.

--- (2007) “La Venus e l’Iphianassa di Lucrezio-Sanguineti, il verri XXXV, 35: 123-30.

--- (2008) “Lucrezio, Catullo, Orazio e Sanguineti: esercizi di ‘pseudotraslazione’”, Poetiche X, 3: 423-67.

--- (2009) Tradurre la lirica, in Hermeneuein. Tradurre il greco, Camillo Neri e Renzo Tosi (eds), Bologna, Pàtron: 31-65.

--- (2021) Forme della fedeltà. Ancora su traduzione, ‘traduttese’, scuola, in Paradigmi d’identità. Tradurre e interpretare i classici, Marzia Bambozzi (ed), Ancona, Edizioni Ae: 99-146.

Crocco, Claudia (2014) “Dialogo con Milo de Angelis”, Semicerchio LI: 61-75.

De Angelis, Milo (2005) Sotto la scure silenziosa: frammenti dal De rerum natura, Milano, SE.

--- (2013) Colloqui sulla poesia, Isabella Vicentini (ed), Milano, Book Time.

De Angelis, Milo e Pontiggia, Giancarlo (1978) “Lucrezio. Atomi, nubi, guerre”, Niebo 2, 4: 62-79.

Fellin, Armando (1963) (trans) Lucrezio, Della natura, Torino, Unione tipografico editrice torinese.

Festival del Classico (2020): De rerum natura, il poema dell’infinita tempesta. Su Lucrezio e i disastri della natura, https://festivaldelclassico.it/de-rerum-natura-il-poema-dellinfinita-tempesta/ (26/01/2020).

Fortini, Franco (1989) Lezioni sulla traduzione, Maria Vittoria Tirinato (ed), Macerata, Quolibet, 2011.

Insana, Jolanda (2008) “Traduzioni da Lucrezio”, il verri 36: 85-88.

Lorenzini, Niva (2021) Il Lucrezio di Edoardo Sanguineti nell’approdo a Varie ed eventuali, in Lucrezio, Seneca e noi. Studi per Ivano Dionigi, Centro Studi “La permanenza del classico”, Bologna, Patron: 131-38.

Napoli, Francesco (2005) Novecento prossimo venturo. Conversazioni critiche sulla poesia (Carifi, Conte, Cucchi, D’Elia, De Angelis, Magrelli, Mussapi, Viviani), Milano, Jaca book: 97-113.

Pellacani, Daniele (2017) Le traduzioni poetiche, in AA.VV., Vedere l’invisibile. Lucrezio e l’arte contemporanea, Bologna, Pendragon: 27-33.

Pellacani Daniele (2020) Deviazioni e incontri: il De rerum natura tra letteratura e arte, in Ragione e furore. Lucrezio nell’Italia contemporanea, Francesco Citti, Daniele Pellacani (eds), Bologna, Pendragon: IX-LXIX.

Rapisardi, Mario (1880) La Natura, libri VI di T. Lucrezio Caro, tradotti da Mario Rapisardi, Milano, Brigola.

Sanguineti, Edoardo (2005) “Lucrezio. Un oratorio materialistico”, il verri 29: 5-11.

Verdino, Stefano (2017) Postfazione a De Angelis, Milo, Tutte le poesie. 1969-2015, Milano, Mondadori: 429-442.

Zucco, Rodolfo (2007) “Aspetti della lingua poetica di Jolanda Insana”, Istmi 19-20: 201-218.

Note

[1] Il volume è intitolato De rerum natura di Lucrezio ed è uscito nel 2022.

[2] Lo scritto è stato pubblicato nel 2008, con il titolo Lucrezio, la notte, l’incubo, in La scoperta della poesia, Carla Gubert e Massimo Rizzante (eds), Pesaro, Metauro: 45-49.

[3] Questa edizione del 2005, che comprende 51 frammenti, costituisce un ampliamento della raccolta pubblicata nel 2002 (dal titolo Sotto la scure silenziosa: trentasei frammenti dal De rerum natura).

[4] Cfr. Festival del Classico 2020 (l’intervento è disponibile online).

[5] Sulle traduzioni lucreziane comparse su Niebo, cfr. Bertoni 2020.

[6] È possibile che la scelta di quest’ultimo aggettivo sia stata anche influenzata da un’interpretazione etimologica del latino profundus come “senza fondo” (e dunque senza misura).

[7] Cfr. Fellin 1963: “al modo alato delle fiamme”; Canali 1990: “simili a fiamme volanti”.

[8] Cfr. Fellin 1963: “che incede tra splendidi onori”.

[9] Sono queste le soluzioni adottate da Fellin 1963 e da Canali 1990.

[10] Cfr. Fellin 1963: “cercando di sfuggire gli abissi d’Acheronte”.

[11] Cfr. Fellin 1963: “temendo la soglia di morte”.

[12] Il tema viene affrontato, in dialogo con De Angelis, in Crocco 2014: 69-70.

[13] Cfr. Fellin 1963: “in nessun momento cessava d’apprendersi dall’uno all’altro il contagio del morbo insaziabile”.

[14] Cfr. Fellin 1963: “Né alla misera poteva giovare in un tale momento l’aver dato per prima al re il nome di padre». L’amaro commento di Lucrezio si trasforma, nella traduzione deangelisiana, nell’ultimo disperato tentativo di Ifigenia di toccare il cuore del padre.

[15] Cfr. Fellin 1963: “Tanto grandi delitti ha potuto ispirare la religione”.

[16] In effetti De Angelis ha ricordato in più occasioni come il suo incontro con Lucrezio sia stato influenzato dal saggio di Luciano Perelli, Lucrezio poeta dell’angoscia (1969), che proponeva una lettura del De rerum natura in chiave esistenzialista: cfr. De Angelis 2013: 78-79 e Pellacani 2020: XXIX-XXX.

[17] Cfr. Fellin 1963: “Qui sulla terra s’avvera per gli stolti la vita d’Inferno”.

[18] Su Sanguineti traduttore di Lucrezio, cfr. Condello 2005, 2007, 2008; Arvigo 2011; Lorenzini 2021.

[19] Cfr. Condello 2021: 115 “Se si traduce un classico, tutto – almeno tendenzialmente ‒ va tradotto: ogni parola, ogni congiunzione, ogni particella. Almeno tendenzialmente, è vietato omettere; ed è vietato sintetizzare, cioè rinunciare alla corrispondenza aritmetica fra testo-fonte e testo d’arrivo. Semmai, si può aggiungere, e indulgere alla perifrasi. Per questo motivo i nostri classici tradotti straripano non solo di ‘da una parte […], dall’altra’, ma anche di ‘appunto’, di ‘invero’, di ‘effettivamente’, nonché – va da sé ‒ di ‘infatti’”.

[20] Cfr. Condello 2021: 111-13 (sulla predilezione dei traduttori per l’arcaismo lessicale) e 122-123 (sulla tendenza all’impiego di stilemi disomogenei).

[21] Rimangono comunque alcuni casi in cui le soluzioni adottate sono affini o coincidenti, come per le “femminee membra di un fanciullo” (Canali) e per il “corpo femmineo di un fanciullo” (De Angelis); cfr. Fellin 1963: “fanciullo di membra femminee”.

[22] Si tratta di un’espressione toscana che era già stata adottata, nella traduzione di questo verso lucreziano, da Mario Rapisardi (“una che tiene / l’alma co’ denti”: cfr. Rapisardi 1880).

[23] Sull’importanza della componente fonica nella poesia di Insana, cfr. anche Zucco 2007.

About the author(s)

Elena Coppo is a post-doc researcher at the Department of Linguistic and Literary Studies (DiSLL) of the University of Padua, where she earned her PhD in 2019. Her thesis was about the origins of free verse in French and Italian poetry, while her current research project (Tradurre i classici in Italia. Per una storia della lingua letteraria del Novecento attraverso le traduzioni dal latino) concerns the translation of Latin literature by Italian writers and poets. Her main scientific interests include Italian and French poetry of the 19th and 20th century, stylistic and metric analysis and literary translation.

Email: [please login or register to view author's email address]

©inTRAlinea & Elena Coppo (2022).
"Tradurre i classici da poeta Su Milo De Angelis e Lucrezio"
inTRAlinea Volumes
Edited by: {specials_editors_volumes}
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2589

Go to top of page