La Camera chiusa - Notte di veglia (Due racconti)
Translated by: Marilena Genovese (Università della Tuscia, Italy)
La chambre close - Nuit de veille by Jean Lorraine
Sonyeuse, 1891 - Sensations et souvenirs, 1895
La camera chiusa
Non avevo mai provato tanto profondamente un sentimento di ostilità verso alcune case e alcune camere di provincia, la loro aria funerea e chiusa, come quella triste e piovosa mattinata di ottobre quando la porta della grande stanza, dove il garzone di fattoria aveva poggiato la mia valigia, si chiuse da sola, quasi silenziosamente.
Cos’ ero andato a fare in quell’autunno malato in un padiglione sperduto tra i boschi, io che sono il più scadente cacciatore del mondo, la cui naturale indolenza procede di pari passo con un orrore quasi fisico delle armi da fuoco; quale idea balorda mi aveva spinto a seguire qui le battute nella tenuta del marchese di Hauthère e lasciare Parigi, il boulevard e il giornale per seppellirmi vivo in questa tetra fustaia alla vigilia di Cléopâtre e del grande ritorno sulla scena di Réjane nell’opera di Meilhac?
A costo di sembrare matto, sono convinto che nel giungere quasi involontariamente in quella foresta malandata e così stranamente solitaria, ero lo strumento di una volontà sconosciuta, più potente della mia e che giocavo in quel luogo, inconsapevolmente, un ruolo in un dramma dell’Aldilà!
Chi poteva avere abitato, un tempo, quel vecchio padiglione Luigi XIII, dalla grande copertura di ardesie, ornata di lucernai, e così tristemente isolato sulla riva di quel lago pieno di foglie morte, nella parte più profonda di quella grande foresta?
Apparteneva da secoli alla famiglia Hauthère e il padre dell’attuale marchese l’aveva trasformato nella casa del guardiano; nel periodo della caccia, vi si facevano alloggiare gli invitati che non avevano potuto trovare posto al castello.
Era stato il mio caso: sin dal mio arrivo in stazione, una carretta da fattoria aveva accolto me, la mia valigia e i miei inevitabili effetti personali, e mi aveva condotto per le ceppaie umide, sballottato dagli scossoni della carreggiata, nel tetro crocevia, mezza prateria, mezza radura, in cui sorgeva il padiglione.
La casa del guardiano dei marchesi di Hauthère, con la sua aria strana di miseria e di mistero, in riva a quell’acqua morta, in mezzo a quel prato di fieno e di erbacce che marcivano sotto la pioggia, e le alte banderuole del tetto che gridavano al vento d’ottobre nel silenzio pesante, il silenzio complice delle fustaie assopite come ovattate di bruma, senza eco e senza voce.
Non appena fui entrato nell’alto vestibolo, piastrellato in bianco e nero, la sensazione che stavo penetrando in un dramma sconosciuto si accentuò: la camera che mi avevano assegnato era situata al primo piano e due grandi finestre, drappeggiate con lunghe tende di antica seta stinta, la rendevano vasta e chiara in mezzo alla tristezza di quel cielo carico di pioggia e di quella foresta cupa; e tuttavia, istintivamente, varcando la soglia, avevo camminato più silenziosamente, come se stessi per entrare nella stanza di un malato; vi aleggiava ancora un odore di etere rancido e ovunque, nel lampasso sbiadito delle tende di un tempo, sulle poltrone di un lusso antiquato e freddo, sul baldacchino del letto e sul marmo lucido di una vecchia mensola, la polvere, neve nera degli anni trascorsi, sembrava esser là da molti mesi.
Strana camera: sembrava conservasse un segreto Qualcosa di molto triste, di cui era stanca D’aver visto il mistero in fuga nello specchio…
Questi versi raffinati di Rodenbach mi sono ritornati in mente in un secondo momento a proposito di quella stanza effettivamente strana e che certamente aveva, anch’essa, un segreto, un segreto e un dispiacere sepolti in un’antica malinconia, solitudine e silenzio; quel gran silenzio ostile che disturbava adesso il mio invito in quei boschi. Impressione di breve durata, del resto: al castello mi attendevano per la colazione!
Come mai, dopo una giornata trascorsa a setacciare il bosco e un pasto ai cani di diciassette magnifici caprioli, lo spirito rallegrato dal lieto diversivo di una cena di ventidue portate nel salone di caccia di Hauthère, il sangue ringagliardito dai vini pregiati di una cantina rinomata e il pensiero lontano cento leghe dalle angosciose impressioni del mattino, mi risvegliai a mezzanotte nella mia stanza della casa del guardiano, con la nuca madida di sudore e il cuore stretto dal più indicibile malessere ? Raggelato da un brivido lungo la schiena, mi drizzai a sedere: avevano dimenticato di chiudere le tende delle due finestre ai piedi del letto e, nella stanza ingigantita dal silenzio, il chiarore della luna, entrato dai vetri, cadeva mollemente sul pavimento; nel cielo mosso come il mare, la battaglia delle nuvole cacciate dal vento dell’ovest e, contro i vetri, il tamburellio della pioggia autunnale, della monotona pioggia … D’improvviso, nella camera vicina si levò un vecchio motivo di gavotta; un’aria di clavicembalo così dolente e tenue da sembrare risvegliato da mani invisibili; qualcuno era là, nella stanza affianco, dietro il tramezzo, ne ero sicuro, e ora, nel silenzio e nella notte della casa deserta, la musica inizialmente titubante, si librava in ritmi sfumati e precisi, musica di un tempo, riesumata lentamente, arietta o musica da ballo, dalle grazie leziose e fievoli, antico motivo imbellettato dell’altro secolo.
E che si crederebbe aver imparato dalle labbra dei ritratti
Ma a poco mi servivano, quella notte, le reminiscenze dei poeti! Con terrore crescente, ascoltavo, drizzato sui due pugni contratti sul cuscino, e il sudore lungo la schiena, con l’angoscia atroce che qualcuno stesse per entrare, qualche essere ignoto, che si aggirava lì vicino e le cui mani d’ombra indugiavano, in quel momento, su di un clavicembalo dimenticato nella stanza accanto; e prossimo a venir meno, sentivo il cuore ballare nel petto e i miei occhi spalancati per la paura divenire sonnambuli, quando un grande respiro sfiorò il mio volto e, attraverso la seta delle tende del letto stranamente gualcite, un lamento, una voce dell’animo pianse tra i miei capelli di colpo drizzati:
«Portatemi via! Portatemi via!»
La voce pronunciò la frase due volte: folle di terrore, ero balzato nudo in mezzo alla stanza; allora, sentii, oh! molto distintamente, il rumore di passi in fuga sul pavimento, lo sbattere di una porta che si richiude, lo stridio di una chiave che gira nella serratura, e fu tutto; il clavicembalo aveva smesso di suonare e nella mia stanza rischiarata dalla luna, le tende della finestra di un rosa lucido, cadevano dritte, senza una piega… Fuori, la pioggia era cessata e, nel cielo notturno di un grigio latteo e pallido, tre grandi faggi cresciuti nei pressi della casa del guardiano agitavano le loro cime rumorose nel vento fresco della notte.
Avevo recuperato il mio sangue freddo; con la rivoltella in pugno andai diritto alla porta di comunicazione con la camera vicina; tentai invano di aprirla; era chiusa a doppia mandata e resistette ad ogni sforzo; allora andai a quella del corridoio; la chiave che avevo messo io stesso dall’interno non era più nella serratura e cercai allora di aprirla, ma invano: ero bloccato, la camera era chiusa.
Convulsamente, accesi una candela, indossai i pantaloni, una giacca, misi le pantofole e, avendo chiuso le due porte, una con un comò posto di traverso, l’altra con una grande poltrona arabescata di rosa e verde pallido, mi sistemai su un’altra poltrona all’altezza della spalliera del mio letto e, con i piedi avvolti in una coperta, aprii l’ultimo libro di Anatole France, fermamente deciso a vigilare fino all’alba… e mi risvegliai alle dieci del mattino, svestito e coricato nel mio letto; in piedi al mio capezzale, il garzone di fattoria, destinato come cameriere alla mia persona, in quella strana casa del guardiano attendeva, rispettosamente quieto, i miei ordini.
- «Ma che ore sono?» gridai appena sveglio.
- «Le dieci e mezza veramente».
- «Le dieci e mezza! Allora gli altri cacciano!»
- «Oh! dalle sette, il signore può sentire i colpi di fucile da qui!»
- «Come! E voi mi avete lasciato dormire?»
- «Oh! Il signore riposava così bene, il signore aveva l’aria così affaticata e così felice di dormire, era così pallido, in fede mia, che non ho osato svegliare il signore, e l’ho lasciato dormire. Ecco il cioccolato del signore».
E con un gesto maldestro, il ragazzo mi indicava il vassoio appoggiato sul mio comodino. Evidentemente, avevo sognato; tuttavia, un dubbio restava e mentre finivo la mia toletta, con il ragazzo che andava e veniva nella mia camera:
- «E la camera accanto?» cercai di dire casualmente, e mi fermai, sgomentato io stesso della brusca alterazione della mia voce.
- «La camera accanto!» farfugliava il ragazzo.
- «Sì, la camera accanto, qualcuno ci dorme, ci ha dormito questa notte?»
- «La camera accanto, oh! certo che no signore, nessuno ci dorme più; le porte sono murate. Oh! no, nessuno ci dorme più, nella camera della Signora marchesa».
- «La camera della Signora marchesa!»
- «Si è là che è defunta la madre del Signor marchese; oh! è successo tempo fa; oh ! sì, sarà una trentina d’anni!»
Fu tutto quello che potei sapere dal ragazzo. Lo congedai e, una volta solo, cercai di avvicinare ben bene l’occhio ai buchi delle serrature; fatica inutile, le persiane della camera vicina dovevano essere chiuse o le porte arredate con della tappezzeria: impossibile distinguere qualcosa, la mia curiosità si scontrò con una muta oscurità di tomba. La notte seguente, dormii al castello: a colazione, dove trovai il modo di arrivare in ritardo, il marchese, dopo essersi informato su come avevo trascorso la notte in quel padiglione isolato della foresta, si scusò di esser stato costretto a darmi un così cattivo alloggio.
- «Ma», aggiunse con un sorriso equivoco, «uno dei miei ospiti è partito questa mattina, la sua camera è libera, e Francesco, porterà qui il vostro bagaglio nel pomeriggio: dormirete al castello “questa notte”».
E questo fu tutto … ero stato probabilmente vittima di un’allucinazione, il mio temperamento eccitabile, impressionato dall’aspetto di miseria e di tetro abbandono di quel padiglione solitario, aveva lavorato durante il sonno, e il mio incubo non era stato, in fin dei conti, che ciò che sono tutti gli incubi, il prolungamento triste, oltre lo stato di veglia, di una sensazione di angoscia.
Eppure, da quando so che la marchesa Simonne-Henriette d’Hauthère, la madre del mio ospite, è morta a vent’otto anni, quasi folle, o perlomeno la famiglia lo ha sostenuto, alcuni hanno detto sequestrata per colpa della gelosia di un marito di altri tempi in quell’isolato e così stranamente cupo padiglione, mi sono chiesto se non fossi entrato mio malgrado (sono i casi della vita) in qualche terribile mistero, se non fossi stato immischiato, una notte della mia vita, in qualche dramma dell’Aldilà!
E poi … nel tumulto dei miei ricordi di ieri, ma che mi sembrano già lontani, oh! sì già lontani… avevo dimenticato di dire… La mattina della mia terribile notte visionaria, aggirandomi per la camera, sopra il marmo polveroso di una delle mensole che cosa avevo trovato?... Una rosa, una pallida rosa bianca, completamente bagnata dalla pioggia, con i petali umidi, dal lungo stelo, flessuoso, priva di spine, adagiata nella polvere e, nella polvere, l’impronta di cinque dita … Quel fiore e quell’impronta, da chi erano stati messi?
Notte di veglia
Mia madre stava molto male; a quel tempo abitavamo in provincia in un grande padiglione Luigi XIII, situato un po’ fuori città. Fiancheggiato da un avancorpo, stagliava i suoi alti tetti d’ardesia sullo sfondo di un grande giardino dalle cime fruscianti; il vento del mare non le lasciava mai immobili, e sotto questo incessante assalto gli abeti, i castagni e le betulle avevano finito con l’ inclinarsi in direzione della vallata, un paesaggio affascinante dal nome ancor più attraente: Fécamp.
Oltre un ponte, che le acque del mare bagnavano due volte al giorno, sorgevano il campanile di Saint Etienne e i tetti della città; una grande strada costeggiava la proprietà, e sebbene fossimo cinti da grandi mura, questa tenuta dalle fronde eternamente fruscianti, è rimasta tuttavia uno dei terrori della mia infanzia; lì mi sentivo troppo solo, troppo lontano dal movimento peraltro assai tranquillo di quella città costiera, piccolo porto di pescatori che si risvegliava soltanto durante i tre mesi invernali, al rientro delle navi di Terranova, per ripiombare nel suo torpore una volta ripartiti i Terranoviani. E se mi aggiro per il mondo gravo di un inquieto nervosismo un po’ morboso, se la mia vita da oltre trent’anni non è altro che una sorta di convalescenza, ritengo sia per l’aver ascoltato troppo il vento gemere tra i grandi alberi di quel giardino isolato e profondo.
Il mio spavento istintivo per quei prati in abbandono e per quegli ortaggi che fiorivano tardi in primavera, e arrugginivano presto in autunno, era aggravato dall’angoscia in cui mio padre e io vivevamo già da due mesi al capezzale di mia madre. Potevo avere sedici anni, un ragazzone cresciuto troppo in fretta, delicato e sfaticato nelle mani di un professore. Il medico, temendo di attristare il morale dell’ammalata con la presenza di una suora, aveva ritenuto giusto nominarmi suo custode. Era allora al culmine della febbre tifoidea, e il delirio non le dava tregua; nella grande camera a tre finestre dell’avancorpo del padiglione, a notti alterne mio padre ed io ci davamo il cambio accanto a lei; la mia immaginazione esaltata dava allora un significato sinistro anche alle cose più insignificanti. Non avevo mai visto mia madre così sveglia e viva, né nessun altro d’altronde, in un tale stato di prostrazione, e mi aggiravo intorno al suo letto solo con occhi colmi di lacrime, persuaso che presto non l’avrei più rivista. Non l’abbandonavo mai con lo sguardo, sistemato accanto al suo letto, sfogliando un romanzo che non leggevo e con il cuore gonfio, così gonfio che non avevo neppure la forza di soffocare i singhiozzi che lei, povera creatura, fortunatamente non poteva sentire; un terrore smisurato, notte e giorno, mi tormentava ancor più quando non ero accanto a lei e quando mio padre, prendendo il mio posto, mi obbligava ad andare a dormire nella stanza accanto.
Ero appunto di guardia quella notte. Mio padre, abbracciandomi prima d’andare a riposare di là, mi aveva stretto più forte del solito al suo petto, e con voce strozzata mi aveva detto: «Va’ figlio mio, per qualsiasi cosa chiamami. Non si sente bene questa sera».
E sebbene mi avesse attirato nell’ombra, avevo capito bene che anche lui si sentiva soffocare dalle lacrime. Tornai dunque a sedermi nell’alcova, presi la sua povera mano bruciante nella mia, e non allontanai lo sguardo da quel volto amato, alzandomi solo per andare a mettere un ceppo nel fuoco, un grande fuoco che ardeva nell’ampia e triste camera notte e giorno poiché era pieno inverno e il cielo terso e freddo scintillava di stelle; il giardino era immobile in una profonda quiete; non un rumore nella dimora assopita, e si sentiva che fuori doveva essere molto freddo; quindi tornai accanto alla mia ammalata e, non so come, finii anch’io con l’ assopirmi.
Al suono della pendola mi svegliai. Erano le due. La camera, in cui ardeva una debole fiammella, era come morta tant’era profondo il silenzio, e fatta eccezione per il respiro affannoso, un po’ rauco, della cara ammalata, si udiva soltanto il ronzio della fiamma e del pentolino d’acqua calda che bolliva lì per le infusioni. Fu realmente lo scoccare delle due nella notte (dal momento che dormivo profondamente) o fu piuttosto una pressione alquanto forte delle dita della sua mano lasciata nella mia, fatto sta che mi drizzai con un sussulto, quindi mi chinai su quel povero corpo dolente, su quel dolce volto estenuato.
Anche lei dormiva, quando un ciocco di legno, emanando un bagliore più intenso, rischiarò d’un tratto tutta la stanza, quindi il chiarore ricadde all’istante, ma non così rapidamente da non lasciarmi scorgere una cosa che mi agghiacciò. Non eravamo più soli nella stanza. Qualcuno era lì, uno sconosciuto di cui non potevo scorgere il volto e la cui presenza mi aveva soffocato la voce in gola. Non seppi mai se si trattava di un uomo o di una donna. Appostata all’angolo del camino, nella grande poltrona dove spesso andavo a sedermi per controllare l’infusione di una tisana, la figura sconosciuta mi dava le spalle; ma nella penombra della stanza distinguevo perfettamente le sue mani tese verso la fiamma; nere, esse si stagliavano sulle braci del focolare, e nella posa comune alle anziane donne accovacciate davanti al fuoco, restava immobile e muta come in attesa, e non era una vana allucinazione della mia mente sovreccitata, poiché ad un certo punto prese le molle del camino e attizzò le braci, facendone rotolare alcuni pezzi sul tappeto.
Un’angoscia atroce mi serrava la gola, mi ero alzato e non potevo fare a meno di guardarla; era una donna, ma una donna dalle grandi sembianze, e quando il fuoco si ravvivava vedevo distintamente il piccolo chignon di capelli grigi attorcigliati sulla sua nuca magra, e non riuscivo né a chiamare né a gridare tanto il mio spavento cresceva, tanto si consolidava in me la convinzione che quella strana presenza non poteva che essere maligna per l’ammalata che assistevo.
Rimasi così per ben tre minuti; un sudore freddo mi colava sulle tempie. M’imposi infine di avvicinarmi alla terribile sconosciuta. Camminando sul tappeto con passo felpato, mi precipitai su di lei e posai le mani sulle sue spalle; lo spettro era scomparso. Ero stato vittima di un’allucinazione, di un sogno; annichilito, mi lasciai cadere sulla poltrona in cui, sino a poco prima, avevo creduto di vedere la serva della Morte e, con le mani tese macchinalmente verso la fiamma, nella stessa posa del fantasma, cominciavo appena a riprendere i sensi quando, nel silenzio della grande stanza della veglia la voce della mia malata si levò rauca, strozzata: mia madre delirava.
«Jean, le senti salire? Non voglio che salgano, soprattutto che non entrino!».
E, levatasi a sedere, tendeva un orecchio inquieto e fissava nell’ombra con due occhi spaventati, smisuratamente dilatati; avevo preso nelle mie mani quelle della delirante e, interamente chino su di lei tentavo di rassicurarla.
«Ah! Quante ce ne sono! E continuano a salire, la scala ne è piena… una su ogni scalino; perché le avete fatte entrare in casa? Soprattutto che non entrino qui!».
Oh! Il sommo terrore che emana la voce sonnambula dei febbricitanti nelle lunghe notti di veglia, nel silenzio delle dimore assopite! La mia povera madre mi aveva comunicato il suo terrore, e anch’io mi sentivo immerso nel soprannaturale, nell’incubo, ma volendo apparire forte:
«Ma chi c’é sulle scale? Stai sognando, io non sento nulla».
«Chi? Ma le cicogne, ti dico che ce ne sono su tutti gli scalini; ah! Quei lunghi becchi, che gozzi che hanno!»
E si aggrappava con violenza alle mie mani.
«Ma no, te l’assicuro, è un incubo, povera mamma, non sei in te. Vuoi che vada a vedere?».
«Oh no! No, no, entrerebbero qui! Almeno la porta è chiusa bene?».
E, vinto dallo stesso spavento, andai ad assicurarmi che i chiavistelli fossero stati messi bene e, prestando attenzione con l’orecchio ai rumori confusi della notte, a mia volta sentii distintamente sugli scalini dei rumori di passi. Allora, riaffiorò in me una vecchia devozione e, inarcato contro la porta minacciata, ricordo perfettamente di avervi tracciato una croce. In quel momento i passi si allontanarono, o per lo meno così mi parve, e tornato accanto alla mia ammalata le dissi:
«Se ne sono andate, andate! Non torneranno!».
E a sua volta, mi diceva:
«Chi?».
«Ma lo sai bene, le cicogne, le malvagie cicogne, le ho cacciate!».
«Ah, sì! Le cicogne».
E la sua voce già sonnecchiante si spegneva, dopo essere ridiventata infantile, l’orrendo incubo infine l’aveva abbandonata. Coprii con il lenzuolo quel povero petto sospirando:
«Se potesse dormire!».
Fu una delle notti più terribili della mia vita. La trascorsi interamente seduto nella grande poltrona a intrattenere la debole fiamma, con l’orecchio teso, il cuore stretto dalla paura e tutta la carne che fremeva di un’angoscia indescrivibile; ero io ora ad essere tormentato dalle cicogne e, per tre volte, sino al sorgere dell’alba, sentii battere alle persiane come dei fruscii di ali spaventose nella notte. Il mio supplizio terminò solo quando fu giorno, quando il domestico venne a portarmi la colazione:
«Ah! Signore, che sciagura! Mi disse quel bravo ragazzo, stanotte è morta la moglie del giardiniere, una donna così giovane, ventitré anni, e non si sa di cosa; stava così bene ieri, il dottore ha detto ch’è stata un’embolia; e la signora come si sente questa mattina?».
«Ma come ieri, grazie, mio buon Sosthène».
La morte si era aggirata intorno a noi tutta la notte.
©inTRAlinea & Marilena Genovese (2011).
"La Camera chiusa - Notte di veglia (Due racconti)". Translation from the work of Jean Lorraine.
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