Tradurre è (anche) giocare, sì o no?
Il trattamento del gioco linguistico in traduzione da parte dei futuri traduttori
By Fabio Regattin (Università degli Studi di Udine, Italy)
Abstract
English:
This contribution is based on an online seminar, held in April 2021, in which I asked the participants to translate some short passages from French into Italian, all of which can be linked to the concept of wordplay. All the excerpts were taken from a series of comics I had just translated at the time. My article will briefly describe the methods and contents of the seminar; it will then provide some quantitative and qualitative data on the versions I received (remembering that it will not be possible to draw generalizations from a sample that has not been selected according to any explicit criteria); finally, it will propose an assessment of the results and will try to provide some explanatory hypotheses.
Italian:
Questo contributo prende le mosse da un seminario online, tenuto nell’aprile del 2021, nel corso del quale ho proposto alle partecipanti di tradurre dal francese all’italiano alcuni brevi brani – estratti da una serie di volumi a fumetti alla cui traduzione avevo lavorato nei mesi precedenti all’incontro – globalmente riconducibili al concetto di gioco di parole. L’articolo esporrà in breve le modalità di svolgimento e i contenuti del seminario; fornirà poi qualche dato quantitativo e qualitativo sulle versioni ricevute (ricordando che non sarà possibile trarre generalizzazioni da un campione che non è stato selezionato secondo alcun criterio esplicito); proporrà infine un bilancio di quanto emerso e proverà a fornire alcune ipotesi esplicative.
Keywords: giochi di parole, didattica della traduzione, Joann Sfar, traduzione francese-italiano, French-Italian translation, wordplay, comics polysystem, traduzione di fumetti, teaching translation
©inTRAlinea & Fabio Regattin (2023).
"Tradurre è (anche) giocare, sì o no?"
inTRAlinea Special Issue: Tradurre per l’infanzia e l’adolescenza
Edited by: Mirella Piacentini, Roberta Pederzoli & Raffaella Tonin
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2615
1. Introduzione: un’inattesa smentita
Nelle righe che seguono tornerò su un corpus di cui mi sono almeno in parte già occupato in passato (Regattin 2019, 2021): una serie di quattro albi a fumetti dedicati all’infanzia di Merlino da Joann Sfar e José Luis Munuera[1] (Sfar e Munuera 1998, 1999, 2000, 2001). Lo affronterò tuttavia da una prospettiva per me nuova. Nell’aprile del 2021 ho avuto l’occasione di partecipare al ciclo di seminari Tradurre per l’infanzia e l’adolescenza. Incontri per una sfida professionale e culturale, organizzato per l’Università di Padova da Mirella Piacentini. In quell’occasione, ho provato a riproporre al gruppo delle partecipanti[2] alcuni estratti che mi avevano particolarmente impegnato nella redazione delle versioni italiane degli albi. I brani scelti, molto brevi, erano tutti globalmente riconducibili al concetto di gioco di parole.
Il file con i brani da tradurre era stato inviato alle partecipanti con buon anticipo, sottolineando che il lavoro era del tutto facoltativo; mi aspettavo quindi che studenti che in buona parte si preparano a diventare traduttrici mostrassero, di fronte a questo compito, due atteggiamenti: tradurre i testi (tutti o soltanto alcuni) giocando a propria volta, oppure non svolgere il compito. Come vedremo, le mie previsioni sono state smentite.
2. Struttura dell’articolo
Nel seguito di questo articolo esporrò in breve le modalità di svolgimento e i contenuti del seminario; fornirò poi qualche dato quantitativo e qualitativo sulle versioni ricevute (ricordando che non ho alcuna pretesa di trarre generalizzazioni da un campione che non è stato selezionato secondo alcun criterio esplicito e la cui composizione resta, in base a molti parametri, imprecisata); proporrò infine un bilancio di quanto emerso e proverò a fornire qualche ipotesi esplicativa.
3. Nota metodologica: somministrazione del test, svolgimento del seminario, modalità di analisi dei risultati, restituzione
Nelle intenzioni iniziali, il seminario si sarebbe dovuto svolgere in maniera frontale: avrei introdotto brevemente la traduzione dei fumetti e dei giochi di parole e avrei poi illustrato alcuni casi specifici tratti dalla mia esperienza – gli stessi su cui abbiamo effettivamente lavorato – assieme alle soluzioni adottate per risolverli.
Una discussione preliminare assieme all’organizzatrice del ciclo, Mirella Piacentini, ha permesso di immaginare alcune modifiche: vista la possibilità non scontata di inviare alcuni materiali alle partecipanti, così da permettere loro di lavorare in anticipo alle traduzioni, abbiamo ritenuto che passare a una modalità davvero seminariale, di confronto delle scelte effettuate, avrebbe costituito una sfida più interessante per le studenti e avrebbe permesso a chi lo avesse desiderato di mettersi alla prova, senza peraltro penalizzare coloro che avessero invece deciso di non eseguire il lavoro a casa e di limitarsi a partecipare all’incontro.
Non potendo dare per scontato che le partecipanti conoscessero il francese, ho preparato un breve handout nel quale invitavo alla partecipazione, in modo piuttosto informale (immagine 1), e indicavo per ogni brano scelto quelle che a me sembravano le principali difficoltà, fornendo inoltre una traduzione letterale e una spiegazione delle eventuali ambiguità del testo. In totale, chiedevo di tradurre sei brevi estratti – per cinque fornivo versione letterale e spiegazione del gioco, mentre il sesto era riservato alle persone che, nel pubblico, fossero state in grado di tradurre autonomamente dal francese. Una volta approntato, il documento è stato caricato sulla piattaforma Moodle dell’iniziativa, con la richiesta di terminare le traduzioni e inviarle al più tardi una settimana prima del seminario. Come si vedrà, non fornivo alcuna indicazione riguardo alle strategie da adottare, né alla tipologia testuale di riferimento. In questo caso, infatti, non ero particolarmente interessato ad aspetti legati più specificamente alla traduzione del fumetto[3]. Un vincolo intuitivo rimaneva a mio parere ineludibile anche senza il bisogno di renderlo esplicito: si trattava del rapporto testo-immagine. La forma iconotestuale era del resto immediatamente visibile a chiunque avesse deciso di lavorare sui testi.
Immagine 1: Pagina di presentazione dell’handout fornito alle partecipanti
Il seminario, svoltosi a distanza sulla piattaforma Zoom, ha visto la partecipazione di una cinquantina di uditrici. La platea, piuttosto diversificata, comprendeva studenti di corsi in mediazione e in lingue, a cui si aggiungevano diverse curiose provenienti da percorsi di altro genere, anche slegati dall’ambito umanistico. Venticinque partecipanti hanno inviato in anticipo le proprie versioni dei testi. Come ho sottolineato in precedenza, questo campione mostrava una notevole prevalenza femminile (24F vs. 1M). Grazie all’intervallo stabilito tra la consegna e lo svolgimento dell’incontro, ho potuto studiare le scelte effettuate dalle traduttrici e discuterne alcune, in forma anonima, con tutte le presenti proprio durante il seminario, procedendo così immediatamente a una prima restituzione informale, e non strutturata, dei risultati.
Prima di passare alla loro esposizione, un’ultima puntualizzazione metodologica: per descrivere le diverse strategie traduttive adottate dalle partecipanti, mi rifarò alla classificazione stabilita da Dirk Delabastita in un volume imprescindibile sulla traduzione dei giochi di parole, There’s a Double Tongue (1993). Nel trattare la traduzione dei pun in un corpus ben definito, quello di un certo numero di traduzioni europee dell’Hamlet shakespeariano, l’autore individua un totale di nove possibili strategie, riassumibili come segue (Delabastita 1993: 153-247):
- La prima strategia prevede uno schema del tipo gioco di parole → gioco di parole. Al suo interno trova spazio un’ulteriore suddivisione tripartita: (1a) traduzione di un gioco nella lingua di partenza con lo stesso gioco nella lingua di arrivo, basato sullo stesso materiale; (1b) traduzione di un gioco con lo stesso gioco, basato però su materiale diverso; infine, (1c) traduzione di un gioco con un gioco di parole diverso.
Le categorie 2-9, che costituiscono il principale elemento di interesse della tipologia di Delabastita[4], fanno invece il punto sulle possibili strategie di traduzione alternative.
- gioco di parole → non-gioco;
- gioco → punoid – l’assenza del gioco di parole nel testo d’arrivo è compensata, nel medesimo luogo, da un dispositivo retorico dotato di una connotazione di un qualche genere. Esempi potrebbero essere la rima, l’allitterazione, e così via;
- gioco → “zero” – il gioco di parole, assieme a tutto il suo contesto immediato, viene eliminato;
- copia diretta – il gioco di parole è lasciato in lingua originale e inserito tale e quale nel testo d’arrivo;
- trasferimento – con un processo simile al calco, si forza la lingua d’arrivo ad accettare un neologismo o a introdurre un’accezione fino a quel momento inusitata per una parola che già esiste. Si gioca poi su questo termine di nuovo conio;
- aggiunta, nella forma non gioco → gioco – il testo d’arrivo contiene un gioco di parole come resa di un passaggio che nel testo originale non ne contiene. Molto spesso si tratta di una forma di compensazione;
- aggiunta, nella forma “zero” → gioco – il testo d’arrivo contiene una o più frasi caratterizzate da un gioco di parole, che non presentano nessuna controparte diretta nel testo di partenza. Qui non è dunque solo il gioco di parole a essere creato dal nulla, ma l’intera porzione testuale che permette di realizzarlo;
- tecniche editoriali – Delabastita si riferisce a tutta la serie di paratesti (note a piè di pagina, introduzioni, e così via) che permettono a una traduttrice di rendere conto di un gioco di parole per cui non è riuscita a (o non ha voluto) trovare una soluzione accettabile, o ancora di spiegare il gioco originale rispetto a quello che ha ricreato nel testo d’arrivo.
La tassonomia di Delabastita è pensata per la descrizione di traduzioni pubblicate e, come vedremo, questo fatto richiederà alcuni aggiustamenti. Il primo è il seguente: considererò come “9- tecniche editoriali” anche le eventuali comunicazioni esterne alla traduzione vera e propria ma dirette a me, e generalmente usate per giustificare scelte traduttive considerate devianti. Segnalo fin d’ora, inoltre, che ho deciso volontariamente di scorporare un’ulteriore sottocategoria delle nove indicate – quella, all’interno della categoria “2- gioco di parole → non-gioco”, a cui ricorre chi annulla il gioco scegliendo di produrre una versione letterale, dizionariale dell’originale (chi legge troverà questo dato tra parentesi, sempre nella colonna che riporta il numero di versioni relative alla categoria 2). Questa sottocategoria mi sembrava di particolare interesse in virtù dello status delle partecipanti al test, perché rispecchia – mi pare – una visione “ingenua” della traduzione come semplice restituzione di significati; una visione che si scontra, proprio nel caso della traduzione del gioco di parole, così come in altre situazioni in cui la forma prende il sopravvento sulla sostanza, con la resistenza delle lingue alla traduzione, scegliendo di risolvere il problema nel modo meno impegnativo.
Alcune precisazioni ulteriori: non tutte le partecipanti hanno lavorato su tutti i testi; diverse si sono limitate a tradurre uno o alcuni degli estratti forniti. Indicherò dunque, per ciascun estratto, anche questo dato. Nonostante questo fatto, in alcuni casi la somma delle diverse strategie adottate potrebbe superare il numero delle partecipanti, per due ragioni distinte. Talvolta una singola partecipante ha fornito, per lo stesso passaggio, più versioni; inoltre alcune soluzioni, come appunto le tecniche editoriali, possono aggiungersi a una delle altre strategie.
I dati relativi alle traduzioni ricevute saranno analizzati caso per caso; per ognuno riporterò inizialmente la pagina ricevuta dalle partecipanti, alleggerita soltanto del riquadro in cui chiedevo loro di inserire la propria versione. In questo modo, anche le lettrici che non abbiano familiarità con il francese potranno capire in che cosa consistano i problemi traduttivi principali dei diversi passaggi.
4. Analisi dei passaggi e dei risultati
4.1. Estratto n. 1: Tartine, Babbo Natale e la poupée-dînette
Immagine 2 – © Dargaud
In questo caso non possiamo parlare propriamente di gioco di parole, ma ci situiamo forse nella categoria del punoid: la neologia di Sfar sfocia in un sostantivo composto che evoca congiuntamente le idee di “spuntino” e di “giocattolo”, ma l’ambiguità è tutta concentrata nella polisemia del termine “dînette”. La traduzione è stata tentata da 22 partecipanti, che hanno adottato le strategie indicate in tabella[5]. Dato che siamo di fronte a un caso di “non gioco”, eventuali istanze ludiche rientreranno nella categoria 7 e non nella 1.
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Si nota, in questo primo caso, come le strategie che rifiutano il gioco siano quantitativamente preponderanti: sono 17, rispetto alle 6 versioni che cercano di produrre una qualche forma di connotazione[6].
Nella categoria 2 (che qui potremmo definire come punoid → non-gioco) rientrano numerose versioni che si limitano a descrivere le caratteristiche della bambola: “bambola commestibile”, “bambola spuntino”, “bambola stuzzichino” e simili. Malgrado la leggera perdita, queste versioni permettono di mantenere un rapporto adeguato all’immagine e alla diegesi. In questa stessa categoria rientrano tuttavia anche alcuni testi le cui soluzioni paiono meno accettabili, anche semplicemente dal punto di vista di chi legge. Ben tre versioni sono variazioni su questo canovaccio[7]:
- Una bambina.
- Ehm… In che senso una bambina?
- Una di pezza, per giocare.
Si nota qui il desiderio salutare di creare un’ambiguità; si perde tuttavia il riferimento al cibo, importante e raffigurato – seppure non molto chiaramente – nell’immagine. In un altro caso il termine scelto è stato semplicemente “bambola”, con un effetto di nonsense probabilmente non voluto…
- Una bambola!
- Ehm… Che cos’è una bambola?
- È una bambola che si può mangiare.
Le versioni raccolte nella categoria 5 rifiutano semplicemente di tradurre. Un esempio per tutte:
- Una poupée-dînette.
- Ehm… E che cos’è questa poupée-dînette?
- È una bambola ma si può mangiare.
Passiamo alle partecipanti che hanno cercato di riprodurre una forma di connotazione. In alcuni casi ci troviamo ancora al di qua del gioco: “poupée-dînette” diviene “bambola con posate” in un caso, “pupainpancia” in un altro, “merendapazzo” (mot-valise di merenda e pupazzo) in un terzo. Ci situiamo qui, mi sembra, nella categoria “punoid → punoid”. Quest’ultimo caso permette di introdurre le traduzioni più creative; due di queste sono anch’esse mots-valises, che tuttavia funzionano meglio rispetto a quella già vista per la maggiore vicinanza formale tra le due parole utilizzate: “mangichino” (“mangiare” e “manichino”) e “pupranzo” (“pupazzo” e “pranzo”). Una maggiore elaborazione è presente nell’ultimo caso, che sposta l’ambiguità su un altro termine:
- Una colazione di bambole!!!
- Ehm… Forse volevi dire “collezione”?
- No, no, proprio una serie di bambole, ma da mangiare.
Si può forse affermare che questi casi, che possono essere fatti rientrare nella tipologia “punoid → gioco”, implichino un miglioramento del testo-source, mostrando come la traduttrice possa essere parte attiva nel successo di un’opera nel sistema editoriale e letterario-cible.
4.2. Estratto n. 2: paronimie favolistiche
Immagine 3 – © Dargaud
Questo gioco di parole – volutamente terribile, visto che i due giullari non brillano per arguzia – si basa su una paronimia e riprende un elemento culturale più noto forse in Francia che in Italia, dato che oltralpe le favole di La Fontaine sono un patrimonio nazionale. Le versioni italiane del passaggio sono in tutto 21. Le strategie adottate sono state le seguenti:
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Una prima nota: ricompare evidentemente la categoria 1, dato che un gioco di parole è presente nel testo-source. Ancora una volta si nota un ricorso sorprendente alla normalizzazione: quasi la metà delle partecipanti traduce letteralmente, con formule del tipo
- Cra! Cra! Cra!
- Qua! Qua!
- Era “Il corvo e l’anatra”.
Viene quindi adottata acriticamente la versione letterale che avevo fornito. In un caso, si è ritornati al titolo italiano senza altrimenti modificare il testo, creando un effetto di nonsense che non mi pare volontario:
- Cra! Cra! Cra!
- Qua! Qua!
- Era “Il corvo e la volpe”.
Forse perché il gioco era qui più immediatamente visibile, è comunque aumentata la percentuale di chi ha tentato una resa ludica: le categorie 1 e 3 ammontano infatti quasi alla metà del totale. In due casi, alla proposta è stata aggiunta una nota che esplicitava il tentativo di produrre un “effetto equivalente” (un fatto che indica come queste strategie siano talvolta considerate qualcosa che va oltre la traduzione e che richiede quindi una giustificazione).
Non è stato semplicissimo distinguere tra gioco vero e proprio, da un lato, e punoid dall’altro, e non sempre la tipologia era correlata alla qualità percepita della traduzione. Ho classificato come punoid solo due traduzioni; la prima giocava sulle sonorità (“Il leone ed il sorcione”, in riferimento alla favola di Esopo “Il leone e il topo”), la seconda parodiava una favola più recente senza che ci fosse paronimia:
- Oink! Oink!
- Oink! Oink!
- Era “I due porcellini”.
In entrambi i casi, la resa era interessante e il tentativo umoristico visibile; rimaneva poi il riferimento, piuttosto esplicito, all’elemento culturale (il titolo di una favola nota). Non è stato così per i casi classificati qui in 1c, gioco diverso (4 degli 8 testi appartenenti alla categoria 1), che riprendevano tutti, con lievi variazioni, la stessa idea:
- Miao! Miao! Miao!
- Squit! Squit!
- Era “Il gatto e il ratto”.
La paronimia, in presenza, è visibile ma si perde – salvo errore da parte mia – il riferimento a una qualche favola esistente. Si tratta ovviamente di un parere personale, ma in questo caso trovo più riuscite le due versioni che ricorrono al punoid.
Infine, quattro versioni giocavano su forme di paronimia capaci di fornire anche un rimando intertestuale, in maniera originale rispetto al testo-source. Ricorrendo a vari versi e onomatopee, le traduttrici hanno giocato su titoli quali “Il cervo e la volpe”, “Il ratto e la volpe”, “Il mito di a-pollo” e “La cicala e l’ortica”.
4.3. Estratto n. 3: musica per bambini (e soldati)
Immagine 4 – © Dargaud
In questo caso, l’umorismo nasce dall’uso di una canzone per bambini doppiamente decontestualizzata: viene cantata da un gruppo di soldati e, cosa forse più importante, di soldati dell’XI secolo. È però, allo stesso tempo, coerente con la situazione rappresentata nelle immagini: una barca è in fiamme, nella canzone si chiamano i pompieri. In francese, il motivetto è noto a tutti, come può esserlo in italiano “Fra’ Martino campanaro”. Le 23 versioni italiane si distribuiscono come segue:
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Numerosissime sono le versioni che riprendono il testo presentato nella mia traduzione letterale, in forme non dissimili da questa: “Ehi, pompieri, la casa che brucia, ehi, pompieri, la casa bruciata”. Talvolta, si nota uno sforzo di adattamento che permette di assegnare la versione sia alla classe 2 che alla 3: il canto o la concitazione dei soldati sono resi evidenti attraverso l’allungamento delle vocali (“Ehiiii, i pompieri, la casa che bruuuuucia, ehiiii i pompieri, la casa che bruuuucia!”), congiunto in un caso all’uso delle maiuscole (“HEY POMPIERI, LA CASA CHE BRUCIAAA! HEY POMPIERI, LA CASA CHE BRUCIAA!”), oppure attraverso un parallelismo ritmico assente nelle altre versioni (“Iuhuuu, pompieri, la casa sta bruciando, Iuhuuu, pompieri, la casa è ormai bruciata!”).
Sono numerose anche le versioni che cercano di mantenere il riferimento canoro al fuoco e alla musica per bambini. In molti casi vengono parodiate canzoni dello Zecchino d’Oro – su tutte “Il cuoco pasticcione”, spesso trasformato in “Il duca pasticcione” – oppure l’inno dei pompieri italiani. Nessuna di queste scelte presenta un grado di familiarità pari a quello della canzone francese: le traduttrici se ne rendono conto e in tre casi uniscono a strategie del primo tipo una nota in cui spiegano che la soluzione trovata non le soddisfa pienamente.
4.4. Estratto n. 4: il lupo, la volpe e il sesso
Immagine 5 – © Dargaud
Quello che propongo qui sopra era senz’altro uno dei casi più spinosi: la battuta del lupo poteva infatti essere interpretata in due modi diversi, frutto – almeno nel francese orale, che perde regolarmente il ne della negazione – di una perfetta omofonia; e c’era la questione della volgarità, la cui resa è sempre complicata per chi si sta formando in traduzione. I dati, quantitativi e qualitativi, non sono facilmente interpretabili. La traduzione è stata tentata da un numero minore di partecipanti: sono state fornite solo 19 versioni. Si tratta del dato più basso in assoluto a eccezione dell’ultimo estratto, che però era accessibile soltanto a chi conosceva il francese; un fatto che sembra coerente sia con la complessità formale, sia con lo scoglio “psicologico” implicato dal passaggio. Tra chi ha tradotto, tuttavia, si nota una polarizzazione interessante.
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I tentativi di riproporre una forma ludica e altrettanto salace sono stati molto numerosi: il numero più alto in assoluto, con il primo caso (ma ne vedremo altri) di “doppia soluzione ludica” da parte di un’unica traduttrice. Tutti ricadono, ovviamente, nella categoria 1c: mantenere un’omofonia perfetta era un’impresa molto complicata in italiano. Tendenzialmente, tutti ricercano una forma di ambiguità a partire da una coppia di paronimi, con risultati spesso molto azzeccati (gli esempi potrebbero essere moltiplicati):
- Accidenti, avete ragione. Me lo sono scopat-… ehm… Scordato…
- Sì, beh, per come stanno le cose non scoperemo per molto tempo, giovanotto.
- Accidenti, avete ragione. Non possiamo scappare.
- Sì, beh, per come stanno le cose non scoperemo per molto tempo, giovanotto.
- Accidenti, mi meriterei una sberla. Ma non darmela!
- Sì, beh, per come stanno le cose non te la darò per molto tempo, giovanotto.
La paronimia “scappare”/“scopare” è stata scelta in numerose versioni. Alcuni casi – come il terzo qui riprodotto – funzionano meno perché sembra che il rapporto sessuale debba avvenire tra i due personaggi, mentre il testo-source rimane più vago limitandosi a indicare la forzata astinenza dovuta alla cattività.
Piuttosto numerosi, come si vede, sono stati anche i casi di resa letterale, molto spesso (in quattro casi su nove) accompagnata dall’indicazione simultanea dei due significati, come nel secondo esempio qui sotto:
- Accidenti, avete ragione… Sono stato preso dal panico.
- Sì, beh, per come si sono messe le cose, mi sa che non scoperemo per molto tempo, giovanotto.
- Accidenti, hai ragione. Sono stata presa dal panico/Non ho scopato.
- Beh, vista la situazione, non scoperemo per molto tempo, ragazzo.
Si potrebbe parlare, qui, di “scelta di non scegliere”: tra i riflessi che si ritrovano nelle traduttrici in formazione, si tratta forse di uno dei più diffusi. L’insicurezza che denota è presente anche in altri due casi – in un certo senso più problematici – dove viene spostata su una semplice coppia sinonimica, senza che si renda conto del significato del gioco di parole, come nel caso qui sotto:
- Accidenti, avete ragione. Sono andato in panico / mi sono agitato.
- Sì, beh, per come stanno le cose non scoperemo per molto tempo, giovanotto.
Una nota sui tre casi di ricorso alle “tecniche editoriali”: in un’occorrenza, queste si aggiungono alla traduzione letterale, fornendo una spiegazione del gioco fuori dal testo (si tratta dunque di una nota pensata per un eventuale lettore); in un caso, si giustifica la scelta di alcuni colloquialismi; nel terzo caso, alla nota è riservato il compito di fornire una proposta di traduzione ludica laddove la versione principale rimaneva letterale.
4.5. Estratto n. 5: il battesimo di Jambon
Questo calembour è di particolare importanza nell’economia del testo: se gli altri sono giochi puntuali, che iniziano e si concludono nello spazio di alcune vignette, qui ci troviamo di fronte a una scelta che avrà conseguenze sull’insieme dei volumi. Il maiale che accompagnerà Merlino e l’orco Tartine ha già un nome, Jean-le-Bon; Merlino lo reinterpreterà tuttavia in ‘Jambon’ (‘prosciutto’), e sarà questo secondo nome a diventare quello usato in tutta la saga. Si nota anche – ma l’occhiolino è secondario – la scelta di un insulto, “tête de lard” (“testa di lardo”), perfettamente idiomatico in francese ma che richiama ancora una volta la carne del maiale.
Immagine 6 – © Dargaud
Il passaggio è stato tradotto da 20 partecipanti; la sua importanza è stata valutata correttamente dall’“intelligenza del gruppo”, che ha tradotto gioco con gioco – mantenendo generalmente la tipologia su un altro materiale: un equivoco basato sulla paronimia – in 14 casi, in un altro caso ha cercato una forma di compensazione che rendesse plausibile la situazione della vignetta e in quattro casi ha deciso di mantenere il bisticcio del francese nella lingua-source (è possibile immaginare che questa scelta, come nel primo estratto, sia dovuta principalmente alla rinuncia a trovare una soluzione in italiano). Solo quattro versioni traducono letteralmente, perdendo l’ambiguità della situazione. Al solito, il conto non torna perché le traduttrici hanno talvolta adottato più soluzioni: in un caso in particolare, sono state fornite quattro versioni possibili da una sola partecipante.
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Guardiamo alcune di queste versioni, partendo dalla prima categoria. Una soluzione adottata da molti rientra nella tipologia 1c, poiché al posto della paronimia è presente un’omofonia perfetta:
Non maiale… Mi chiamo Sal, Sal Amella.
Ah ah! Salamella! Ah ah!
In altri casi, ci troviamo decisamente in 1b; il tipo di gioco paronimico è lo stesso, ma su materiale diverso:
Non porcello… Mi chiamo Sam, Sam-il-Bello.
Ah Ah! Salamello! Ah ah!
Non mi chiamo maiale… Mi chiamo Salomone, il Suino Stregone.
Forse volevi dire Salamone! Ah ah ah!
Le traduzioni letterali che perdono il gioco, e quelle che mantengono i termini francesi, sono forse meno interessanti – per quanto le seconde dimostrino che l’importanza del bisticcio è stata riconosciuta:
Non maiale… Mi chiamo Giovanni, Giovanni il Buono.
Ah ah! Prosciutto! Ah ah!
Non maiale… Mi chiamo Jean, Jean-le-Bon.
Ah ah! Jambon!
Infine segnalo questa versione, piuttosto strana, ma che permette – pur perdendo il gioco – di dare un senso allo scambio tra Merlino e Jambon:
Mi chiamo Jean, Jean-le-Bon.
Ah ah! Come prosciutto saresti buono! Ah ah!
Possiamo considerare di trovarci, qui, nell’ambito della tipologia 3: una connotazione è mantenuta ma il gioco di parole è perso. Anche questo caso mostra comunque la comprensione dell’importanza del gioco in situazione, e giunge a una soluzione plausibile in contesto.
4.6. Estratto n. 6: versi nascosti
Immagine 7 – © Dargaud
L’ultimo estratto era pensato solo per le francesiste, poiché l’aspetto che ritenevo “interessante” non era immediatamente visibile, e volevo capire in che misura sarebbe stato colto. In questa occasione, come in altre nel corso del volume da cui è tratto l’esempio, Jambon parla in alessandrini e spesso in rima[8]. La forma del balloon e la disposizione del testo non rendono evidente questo fatto; diventa quindi necessario ricorrere all’“orecchio interno” (come suggerisce per esempio Hulley 2019), a una recitazione che ascolti ciò che viene detto dai personaggi. Solo questo tipo di attenzione permette di scoprire i versi nascosti, che riproduco qui in una forma più classica, segnalando in grassetto le rime (spesso interne, a fine emistichio, ma pur sempre presenti):
Ma priapique ardeur me fit changer en porc
Par un bigot seigneur jaloux de mes exploits,
Car sa lance toujours restait dans le fourreau
Tandis que ma vigueur repeuplait son château.
Qu’une belle m’embrasse et je redeviendrai
Le prince que j’étais.
Il compito non era facile: era necessario riconoscere la forma del testo-source e poi avere sufficienti competenze scrittorie per proporre una versione corretta dal punto di vista metrico in italiano. Si poneva anche il problema del verso da adottare: l’alessandrino italiano non è molto praticato (per quanto sia ritmicamente presente in alcuni controesempi celebri, come Il Cinque Maggio manzoniano o San Martino di Giosuè Carducci) e forse, se l’obiettivo era far orecchiare alle lettrici la presenza del verso, una buona idea sarebbe stata trasformarlo in endecasillabo, passando dalla “mimetic form” all’“analogical form” evocate da James Holmes (1988). Come era lecito attendersi, il brano è stato tradotto da un numero molto più basso di partecipanti, 11 in tutto. Il fatto che la didascalia ponesse esplicitamente alcune domande è senz’altro la ragione per cui la strategia 9 è stata adottata con maggiore frequenza rispetto ai casi precedenti. Ecco una tabella riassuntiva delle strategie adottate (ho considerato che dovessero rientrare nella categoria 1 tutti i tentativi di produrre una versificazione, anche se irregolare):
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Come si vede, la gran parte delle partecipanti ha annullato l’aspetto ritmico e rimato del testo-source. In alcuni casi, le note che mi sono state indirizzate mostrano la comprensione di alcuni degli aspetti formali del testo: si parla di “linguaggio desueto e allusivo”; si segnala la presenza di “un certo ritmo”, affermando con una bella formula che “Jambon sembra un bardo che canta le sue sventure”; si evocano il “linguaggio aulico” e la presenza di rime. Proprio l’aspetto lessicale è quello che ha maggiormente colpito le traduttrici: la categoria 3 raccoglie quelle traduzioni, altrimenti letterali[9], in cui si nota un ricorso esplicito a termini più “alti” di quanto ci si potrebbe aspettare altrimenti. Si confrontino, per un esempio, queste due versioni:
Il mio ardore priapeo mi fece cambiare in maiale da un signore bigotto geloso delle mie gesta perché la sua lancia rimase sempre nel fodero mentre il mio vigore ripopolava il suo castello. Che una bella mi baci e tornerò il principe che ero.
Il mio fallico vigore mi portò ad essere trasformato in maiale per mano di un signore bigotto e geloso delle mie prodezze, poiché la sua spada sempre restava nel fodero, mentre la mia virilità ripopolava il suo castello. Se una bella dama mi baciasse, tornerei il principe che ero un tempo.
Alcune differenze tra i due estratti, qui segnalate in grassetto, sembrano dettate proprio dal desiderio di conferire una patina medievaleggiante al secondo testo: l’aggettivo anteposto al sostantivo, la polirematica “per mano di”, l’aggiunta del termine “dama” sembrano andare tutti nella stessa direzione.
Due versioni fanno di più, e – pur con una metrica irregolare – cercano di riprodurre anche le rime del testo-source. Meritano di essere citate per intero (anche perché, dal punto di vista delle rime almeno, fanno più del testo-source: un atteggiamento decisamente salutare in un simile contesto!), e mi pare significativo il fatto che in uno dei due casi la scelta sia caduta su una scansione che mostrava anche graficamente il carattere “poetico” del passaggio:
Il mio priapeo ardore in porco mi portò a essere mutato da un bigotto signore invidioso del mio operato. Ciò poiché nel suo fodero il suo gladio restava sempre celato mentre grazie al mio vigore il suo castello veniva ripopolato. Solo il bacio di una bella vera muterà questo porco nel principe che un tempo era.
Il mio priapeo/fecondo ardore
fu causa della mia mutazione in una palla di lardo/in un maialetto
per opera di un bigotto signore
geloso di ogni mio traguardo/di ogni mio progetto.
Infatti la sua lancia migliore
restava sempre nel fodero
mentre il mio (grande) vigore
ripopolava il suo castello povero/becero/misero.
Basta che una bella mi baci davvero
per farmi ritornare il bel principe che ero.
È chiaro che una gabbia metrica perfettamente rispettata sarebbe stata il non plus ultra; queste due versioni mostrano comunque un sicuro impegno e una grande creatività.
5. Un bilancio
Come si è detto, queste righe non permettono di trarre generalizzazioni utili a proposito dell’atteggiamento traduttivo di una categoria precisa di discenti di fronte a un problema specifico. All’eterogeneità del campione, e all’assenza di qualunque criterio di selezione, si sono aggiunte infatti istruzioni piuttosto informali, che lasciavano grande libertà di azione a chi avesse deciso di partecipare a quello che forse andrebbe più adeguatamente classificato, a sua volta, come gioco.
Proverò comunque, in conclusione, a trarre un breve bilancio che guardi le traduzioni ricevute nel loro insieme, e non una per una. Un primo dato quantitativo riguarda il ricorso globale alle diverse strategie. Una semplice somma dei risultati indicati sopra permette di ottenere le cifre seguenti:
1 |
2 |
3 |
4 |
5 |
6 |
7 |
8 |
9 |
45 |
56(52) |
13 |
- |
10 |
- |
3 |
- |
21 |
Per quanto le soluzioni appartenenti alle categorie 1 e 3 – quelle che dunque mantengono un aspetto ludico – siano positivamente numerose, si vede come la categoria di gran lunga più comune sia quella che annulla il gioco di parole, e lo fa quasi sempre attraverso una traduzione “letterale”, che bada alla lingua ma non al testo – ossia al ruolo che un certo uso linguistico svolge in contesto. Tra le spiegazioni possibili per la scelta di non giocare (scelta, ricordiamolo, del tutto facoltativa, dato che per partecipare al seminario non era necessario proporre una traduzione), vanno annoverate quantomeno le seguenti: il tempo a disposizione, il contesto insufficiente, un concetto di traduzione ristretto (nel senso indicato da Peter Alan Low nella citazione che segue).
In my view, claims that jokes are untranslatable have two main sources: either translators’ incompetence (jokes are indeed lost but no serious effort has been made to find equally humorous substitutes) or a narrow notion of translation, combined with an unrealistic standard of success. (Low 2011: 59)
Il primo punto è senza dubbio importante: le partecipanti avevano all’incirca una settimana per portare a termine un compito che, proprio per il fatto di essere facoltativo, è probabilmente passato in secondo piano rispetto a mansioni più urgenti. È anche vero, tuttavia, che la quantità di testo da tradurre era globalmente molto ridotta, e che le condizioni di mercato sono spesso non molto diverse, quando non peggiori (avevo avuto all’incirca un mese per tradurre due dei volumi, di 48 pagine ciascuno, da cui sono tratte le vignette).
La questione del contesto mi pare più rilevante: forse sono troppo immerso nei testi, che conosco per averci lavorato e per averne poi parlato, e non mi rendo conto che gli estratti sono difficilmente traducibili in assenza di un intorno più ampio che permetta di situarli con maggiore precisione. Lascio il giudizio su questo punto a chi legge; spero che la contestualizzazione fornita nel file su cui hanno lavorato le partecipanti potesse essere sufficiente, ma questo non è assolutamente certo.
La “narrow notion of translation” di Low mi pare un aspetto più interessante in ottica pedagogica: la necessità di una agency forte da parte della traduttrice – la necessità della capacità e anche dell’autostima necessarie per intervenire in misura significativa sui testi, sottolineata già dagli anni settanta da Katharina Reiss e Hans J. Vermeer con la loro Skopostheorie (Reiss e Vermeer 2013), va crescendo con il passare del tempo. È importante quindi far sì che le studenti imparino a non temere eccessivamente il distacco dal testo-source, almeno in certi contesti e dove le istruzioni ricevute dal committente lo richiedano[10].
Altra notazione interessante: le categorie previste da Delabastita – di grande efficacia quando si tratta di descrivere traduzioni definitive, terminate, pubblicabili – non sembrano aiutarci molto quando dobbiamo valutare traduzioni in divenire, provvisorie, parziali. Non esiste per esempio alcun modo di descrivere gli errori oggettivi di traduzione. In un’ottica puramente didattica, sarebbe forse più adatta una tipologia simile a quella realizzata dal gruppo Valutrad, che prevede anche categorie di questo genere (Osimo 2013; si vedano però le obiezioni espresse da Martelli 2013). Va ricordato tuttavia che, più che a una valutazione fine sulle tipologie eventuali di errore traduttivo, ero qui interessato all’atteggiamento globale delle future traduttrici e delle altre partecipanti – al loro tentativo di riprodurre il gioco, o alla sua assenza. Proprio in quest’ottica ho deciso, come segnalato, di correggere per le lettrici di questo articolo eventuali refusi o errori formali – refusi o errori che avrei considerato altrimenti, per esempio, nella correzione di una traduzione consegnatami da uno studente a un esame o durante un corso universitario. Mi sembra che, con tutti i limiti dovuti alle condizioni in cui si sono svolti tanto il seminario quanto le traduzioni, il risultato riguardante l’atteggiamento ludico delle partecipanti (e, in molti casi, l’assenza di quest’ultimo) sia comunque degno di interesse[11].
Liberare le future traduttrici, spiegare loro che, almeno in determinati contesti, si può e si deve andare oltre la traduzione (anche a costo di sbagliare: meglio farlo durante gli studi che dopo!) mi pare, in conclusione, un dovere indispensabile per ogni docente di questa pratica.
Bibliografia
Delabastita, Dirk (1993) There’s a Double Tongue. An Investigation into the Translation of Shakespeare’s Wordplay, with Special Reference to Hamlet, Amsterdam, Rodopi.
Henry, Jacqueline (2003) La Traduction des jeux de mots, Paris, Presses de la Sorbonne Nouvelle.
Holmes, James (1988) “Forms of verse translation and the translation of verse form”, in Translated! Papers on Literary Translation and Translation Studies, James Holmes (ed.), Amsterdam, Rodopi: 23-33.
Hulley, Bartholomew (2019) “The inner voice and the inner ear of the comics translator” in Translators of Comics / Les traducteurs de bande dessinée, Véronique Béghain e Isabelle Licari-Guillaume (eds), Bordeaux, Presses Universitaires de Bordeaux: 21-34.
Low, Peter Alan (2011) “Translating jokes and puns”, Perspectives. Studies in Translation Theory and Practice, Vol. 19/1: 59-70.
Martelli, Aurelia (2013) “Di cosa parliamo quando parliamo di approccio scientifico alla traduzione. Risposta a Bruno Osimo”, Tradurre. Pratiche teorie strumenti, Vol. 5, URL: https://bit.ly/3hszE7C (ultimo accesso: 26/05/2022).
Osimo, Bruno (2013) “Per un approccio scientifico alla valutazione delle traduzioni”, Tradurre. Pratiche teorie strumenti, Vol. 4, URL: https://bit.ly/3ApdADv (ultimo accesso: 26/05/2022).
Regattin, Fabio (2019) “Fumetto, intertestualità, giochi di parole… le solite cose (e un giochino per chi legge)”, Tradurre. Pratiche teorie strumenti, Vol. 17, URL: https://bit.ly/3vLRPuV (ultimo accesso: 26/05/2022).
--- (2021) “Se solo l’Arte fosse il bene supremo. Una ritraduzione recente e perché il tutto può essere meglio delle parti”, in L’Europa o la lingua sognata. Studi in onore di Anna Soncini Fratta, Andrea Battistini, Bruna Conconi, Éric Lysøe e Paola Puccini (eds), Città di Castello, Emil: 585-99.
Reiss, Katharina, e Hans J. Vermeer (2013) [1984] Towards a General Theory of Translational Action: Skopos Theory Explained, trad. Christiane Nord, London/New York, Routledge.
Sfar, Joann, e José Luis Munuera (1998) Merlin, Jambon et Tartine, Paris, Dargaud.
--- (1999) Merlin contre le Père Noël, Paris, Dargaud.
--- (2000) Merlin va à la plage, Paris, Dargaud.
--- (2001) Le Roman de la mère de Renard, Paris, Dargaud.
Zanettin, Federico (ed.) (2008) Comics in Translation, London/New York, Routledge.
Note
[1] Colgo l’occasione per ringraziare l’editore francese dei Merlin, Dargaud, che ha gentilmente acconsentito alla riproduzione delle immagini che si troveranno nell’articolo.
[2] Vista la preponderanza della componente femminile nel pubblico, trovo più sensato usare questo plurale. Per praticità, nelle righe che seguono estenderò quest’uso anche agli altri plurali generici e singolari generici. Peraltro, ricorrerò alle forme studente al singolare e studenti al plurale anche per il femminile (la studente, le studenti), secondo un uso che mira a evitare ove possibile il suffisso -essa.
[3] Penso per esempio alla posizione, considerata ormai superata o quantomeno parziale (si vedano, anche per una critica, alcuni degli articoli raccolti in Zanettin 2008), che vede il lavoro in quest’ambito come una forma di traduzione à contrainte, per il rapporto con l’immagine ma anche per lo spazio disponibile nei balloon.
[4] Per confronto, un altro testo di riferimento, La Traduction des jeux de mots (Henry 2003), propone una tassonomia molto più semplice, che confonde in un’unica categoria tutte le strategie traduttive dalla 2 alla 9. La visione prescrittiva è in questo caso evidente: non si contempla realmente la possibilità di tradurre un gioco di parole con qualcosa di diverso da un gioco di parole.
[5] La prima riga riprende i numeri identificativi forniti nella descrizione della tassonomia di Delabastita; nella seconda trova posto il numero di partecipanti che hanno adottato una certa tipologia di soluzioni.
[6] In un caso sono state proposte due versioni: una copia diretta e una traduzione letterale.
[7] Le versioni presentate da qui in avanti sono state talvolta leggermente editate, soltanto per correggere refusi “oggettivi” – assenza di punteggiatura, errori ortografici dovuti a una redazione frettolosa, e così via.
[8] È peraltro interessante notare che i primi traduttori in italiano del volume, Laura Ridoni e Sergio Rossi, non sembrano aver colto – o aver voluto riprodurre – questo aspetto (cfr. Regattin 2021).
[9] Da qui la differenza tra i testi appartenenti alla categoria 2 e la cifra, più alta, tra parentesi.
[10] Diverse studenti mi hanno fatto sapere in privato che spesso non osano proporre soluzioni innovative per paura che queste vengano considerate troppo lontane dal testo-source e dunque errate. Proprio questo fatto mi pare poter spiegare il ricorso relativamente frequente alle “tecniche editoriali” (9), grazie alle quali le traduttrici hanno segnalato con una certa frequenza la volontarietà di determinate scelte traduttive.
[11] Ovviamente, il lavoro sulla correttezza formale è indispensabile per qualsiasi traduttrice professionista. Lo si può tuttavia affrontare in altra sede.
©inTRAlinea & Fabio Regattin (2023).
"Tradurre è (anche) giocare, sì o no?"
inTRAlinea Special Issue: Tradurre per l’infanzia e l’adolescenza
Edited by: Mirella Piacentini, Roberta Pederzoli & Raffaella Tonin
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