Tradurre i linguaggi incrociati in un gotán: El chamuyo di Yacaré

By Simona Forino (Università di Parma, Italy)

Abstract

English:

This article represents a translatological challenge of the lunfardo sonnet composed by Felipe Fernández in art Yacaré, the first to use this metric form to tell the Buenos Aires of the first half of the XX century. With an interpretative-communicative method, typical of the lunfardesque poetry we immersed ourselves in the Chamuyo “four” rhythm, a gotán able to mix personal life and national history in a colorful, lively and “vesre” lexicon, looking for a possible version and a convincing language for a stylistic result that was not a pure and simple "chat".

Italian:

Questo articolo rappresenta una sfida traduttologica del sonetto lunfardo composto da Felipe Fernández in arte Yacaré, il primo ad utilizzare questa forma metrica per raccontare la Buenos Aires della prima metà del Novecento. Con un metodo interpretativo-comunicativo, tipico della poesia lunfardesca ci siamo immersi nel ritmo “a quattro” del Chamuyo, un gotán in grado di mescolare vita personale e storia nazionale dentro un lessico colorito, vivo e “vesre”, alla ricerca di una versione possibile e di un linguaggio convincente per un risultato stilistico che non fosse una pura e semplice “chiacchiera”. 

Keywords: linguaggi incrociati, gotán, Chamuyo, Yacaré, lunfardo, cross-cultural lenses

©inTRAlinea & Simona Forino (2019).
"Tradurre i linguaggi incrociati in un gotán: El chamuyo di Yacaré"
inTRAlinea Special Issue: Le ragioni del tradurre
Edited by: Rafael Lozano Miralles, Pietro Taravacci, Antonella Cancellier & Pilar Capanaga
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2386

La sangre de mi espíritu es mi lengua
y mi patria es allí donde resuene
soberano su verbo, que no amengua
su voz por mucho que ambos mundos llene
Miguel de Unamuno[1]

Se la traduzione si può definire come un “viaggio transculturale”[2] alla ricerca delle affinità e delle solidarietà tra due universi linguistici, la distanza tra italiano e lunfardo ci risulta geograficamente confinante e storicamente familiare. Sinora, questo “controlinguaggio” è costituente significativa dell’argentino rioplatense poiché combina voci di lingua indigena americana, lessico di provenienza africana, nonché un folto repertorio lessicale di origine europea e il suo destino si incrocia fatalmente con la diffusione del tango. La comunione tra tango e lunfardo comincia con l’arrivo dell’immigrazione massiva e si evolve gradatamente come segno d’identità: un bivio di fonti telluriche ed esotiche che coesistono in maniera spontanea e moderna, un riflesso di usi e costumi popolari e una reazione sociale in opposizione alla cultura dominante.

Prima di arrischiarci in una nuova esperienza traduttiva, è utile fare una breve digressione sull’ammissione di lunfardismi e voci della parlata locale o nazionale argentina, sull’uso del portegno castiglianizzato o dei forestierismi che sono logica conseguenza dei sentimenti di un popolo e della terra argentina, di una regione non solo latina, indo-americana o ispano-americana ma fucina di circostanze proprie, locali, regionali e nazionali.[3] E qui entra in gioco la storica e amara definizione di Jorge Luis Borges sull’accettazione del lunfardo nel lessico popolare e nei testi di «esa guarangada del tango»:

El lunfardo es un vocabulario gremial como tantos otros,  es la tecnología de la furca y de la ganzúa. Imaginar que esta lengua técnica –lengua especializada en la infamia y sin palabras de intención general- puede arrinconar al castellano, es como trasoñar que el dialecto  de las matemáticas o de la cerrajería puede ascender a único idioma. Ni el inglés ha sido arrinconado por el slang ni el español  de España por la germanía de ayer o por el caló agitanado de hoy […] Despertar porque sí de la casi universalidad del idioma, para esconderse en un dialecto chúcaro y receloso –jerga aclimatada en la infamia, jerigonza carcelaria y conventillera que nos convertiría en hipócritas al revés, en hipócritas de la malvivencia y de la ruindad- es proyecto de malhumorados y rezongones (Borges 1998:146-149).

Sull’altro versante, José Gobello, il compianto portavoce della Academia Porteña del Lunfardo che “sdoppia” quel linguaggio, come si suole fare per la lingua ufficiale quando attraversa due o più periodi storici, nel tentativo di mostrare la propria identità:

Ahora parecería pretenderse que no es sólo uno el lunfardo sino dos, que el delictual está muerto y no sobre su tumba sino sobre predios anexos donde brotan las nuevas voces que florecen y se marchitan en boca del pueblo. Se habla así de un lunfardo histórico y un lunfardo actual, lo que es por lo menos tan absurdo como suponer que el romance del Mío Cid es patrimonio de la historia y que el castellano de Borges o de García Márquez no tiene nada que ver con él (Gobello, Oliveri 2005: 9-10).

Il dibattito sintetico sul lunfardo si conclude con il criterio diacronico di Oscar Conde, che mette fine ad ogni pregiudizio culturale sull’origine del termine e restituisce agli argentini un corpus lessicale interamente attualizzato: «El lunfardo es un repertorio léxico integrado por palabras y expresiones de diversa origen, utilizadas en alternancia con las del español estándar y difundido transversalmente en todas las capas sociales y centros urbanos de la Argentina».[4]

Nel tempo, il paradigma “lunfardo=gergo criminale” cederà il passo a un fenomeno linguistico decisamente unico: il “protolunfardo” rurale o “gauchesco”, attraversando quella pletora di voci provenienti dalla grande immigrazione di fine XIX secolo, si integra con il “neolunfardo”, prodotto diretto dei linguaggi specialistici.[5] Le sue origini popolari si spinsero ben oltre l’oralità, alimentando il sainete nel teatro, il romanzo in letteratura e in maggior misura la stampa. Se Mi noche triste di Pascual Contursi è il primo tango-canzone interamente scritto in lunfardo,[6] il vero precursore della lingua viva del popolo si può ritenere Felipe Fernández, meglio conosciuto come “Yacaré”, in virtù di quella straordinaria padronanza del gergo della suburra portegna; così profonda la sua conoscenza della miseria e dell’emarginazione umana, che sembrava uscito di galera o da un affollato e decadente conventillo e lo stile “sgrammaticato” costituiva il suo stesso sviluppo artistico: un creolo mescolato a reminiscenze gardeliane.

Nato a General Hornos –prov. di Buenos Aires- Felipe H. Fernández comincia a scrivere all’età di vent’anni collaborando con giornali come Crítica, dove firma i suoi primi lavori sotto pseudonimo di “Yacaré”. Fu un intellettuale bohémien che lesse Darío e Valle Inclán ma anche il primo ad utilizzare il sonetto nel lunfardo come provocazione per raccontare la vita quotidiana, essendo «el soneto de difícil empresa “se dio el lujo de sonetear en lunfardo” y nos dejó muestras encomiables de las que pinta, además, interesantes tipos ciudadanos: El punguista, El curdelón, El estufao, La papirusa, La chaluda, El pechador, La rana, La percanta y otros» (Alposta 2007: 16).  Nel suo primo libro, Versos Rantifusos dimostra di essere un osservatore implacabile e raffinato della realtà immorale e ripugnante di quegli anni attraverso un vocabolario proprio, aggiornato, crescente come la musica della Baires del Novecento.[7]

Rovistando tra quei versi cordiali e leggermente festosi, ci siamo imbattuti in un componimento decisamente sperimentale benché segua le regole tradizionali della metrica: El Chamuyo, un tango in grado di “cantare” simultaneamente esperienza personale e circostanze nazionali, intriso di lessico lunfardesco come pure di quella popolesca anima argentina.  

La “canzonetta” che qui tradurremo per la prima volta è formata da due quartine e due terzine perfettamente rimata e musicalizzata in lunfardo. Il testo a fronte ad hoc rispetta lo schema originale composto da rime incrociate ABBA nelle due prime quartine e CCD nelle due seconde terzine.

Pur consapevoli delle inevitabili infedeltà che questo avrebbe comportato, ci siamo confrontati con il metodo interpretativo-comunicativo, vale a dire quello incentrato sulla comprensione della poesia “lunfardesca” –nell’accezione di Daniel Vidart per indicare un uso intellettuale di vocaboli lunfardi- e la sua successiva riformulazione in un italiano pseudo-popolare-gergale, al fine di conservare la finalità e l’effetto sul lettore. Per mantenere costante ogni tipologia di equivalenza traduttiva, ci siamo impegnati a ricercare i significati di questo “socioletto speciale” attraverso i principali dizionari monolingui, in cambio di una sola “versione” a nostra disposizione.[8] Infine, una volta stabilito che il lunfardo non è lingua, né dialetto, né tantomeno un argot –sebbene ciascuno di questi sistemi linguistici abbia contribuito all’evoluzione del suo vocabolario- ma “l’insieme di forme linguistiche utilizzate in maniera ideale da membri di una comunità per comunicare tra loro” (Conde 2011: 30-32), ci siamo immersi nel gioco della tanghitudine con ritmo “a quattro” per svelare metafore, “vesre” ed elementi prosodici.

El chamuyo

Música y Cante: Edmundo Rivero

Letra: Felipe H. Fernández “Yacaré”

 

Se bate, se chamuya, se parola,

se parlamenta reo, como grilo 

y aunque bufa la barra y le da estrilo

el lenguachín es un bacán de bola.

 

Si es vichenzo el cafaña y no la rola

lo catan p’al fideo…¡manco dilo!

¡y hay cada espaventoso tirifilo

más puntiagudo que zapallo angola!

 

El chamuyo cafiolo es una papa

cualquier mistongo el repertorio añapa

¡y es respetao cuando la parla un macho!

 

A veces si otro camba me lo emparda

hay programa de espiche en la busarda

o se firma de un feite en el escracho.

La chiacchiera

Musica e Voce: Edmundo Rivero

Testo: Felipe H. Fernández “Yacaré”

 

Blablà…si fa un gran chiacchierare

si parla male come solo la mala sa fare

e anche se la banda bardassa lo fa incazzare

il mariuolo è uno che ti sa infinocchiare.

 

Se è un povero fesso non la spunta

lo prendono per i fondelli…senza sosta!

barbaramente impettito apposta

quanto le spine della zucca a punta!

 

Il linguaggio galante è cosa facile

ogni sfigato si può fregare

ma il vero macho si fa rispettare!

 

Capita che provino a vincerlo

così gli cava le budella intanto

o sul grugno lascia uno sgarro da mostrare.

 

Da una prima lettura, la poesia mostra immediatamente la dominante semantica inerente alla storia: apologia della malavita dominata da gangs che si scontrano oltre che a livello fisico, anche sul piano orale con le “armi” colorite e complesse dei costrutti lunfardeschi. È qui che compare la dominante stilistica, dove il ritmo musicale si fonde con le scelte lessicali dell’autore, creando un risultato artistico unico. Non è un caso se il testo, che appare “instabile” sin dal primo momento, a causa delle diverse combinazioni di cui è capace il lunfardo, si può trovare sul web con evidenti alterazioni morfologiche e verbali.

La nostra traduzione possibile parte dal titolo: El chamuyo è la conversazione convincente, il linguaggio ingannevole e il discorso carismatico -quello per intenderci usato dai politici per attirare voti o di cui il maschio latino si serve per sedurre una donna-, analogo di “parlare a vanvera”, seppur intraducibile in poesia non-lunfarda, l’abbiamo trasfigurato in “chiacchierare”. Segue una terzina con una serie di forme sinonimiche del verbo “dire” che accorperemo in un unico suono onomatopeico, “blablà”: il verbo batir, dal gergo delinquenziale “battere”, “divulgare notizie”, “cantare”, di conseguenza “fare la spia” e “rivelare cose segrete”[9] e il verbo parolar, variante di parlamentar uscito direttamente dal Parlamento italiano. Il termine grilo/griyo, comunemente la “tasca laterale dei pantaloni”, per metonimia si riferisce a grillero, allo “scippatore” o “borseggiatore” e per analogia diretta lo abbiamo stravolto in “mala” -da malavita-.[10] Bufa, forma apocopata di bufarrón, “finocchio”, “checca” e “pederasta attivo”[11] sta innanzi alla barra, in origine la “sbarra del bar” quella riservata alla vendita di alcolici che per relazione contigua trasferisce il suo significato al “gruppo di amici”, nella fattispecie, alla compagnia di malviventi e dunque alla “ghenga” o al più comune termine inglese “gang”. Si tratta di due sostantivi, introdotti da una preposizione concessiva –aunque- retta da una principale che svela il soggetto –lenguachín- solo alla fine della quartina. Il verbo all’indicativo –da- ci ha fatto pensare a una ipotetica che abbiamo reso con “se” e la sequenza eufonica originale –bufa/barra- si fa allitterazione “banda bardassa”. Il termine estrilo, direttamente dalla grande immigrazione che esprime la “rabbia” e l’“ira”,[12] lo abbiamo involgarito con “incazzare”. Nella versione web esaminata, siamo incappati in El lengo‘e chile, dove lengo è il “fazzoletto da collo” e chile, che non compare in nessuno dei nostri dizionari, potrebbe corrispondere all’attributo di una persona. Il climax ascendente si esprime con Bacán[13], l’uomo “elegante” per antonomasia, aggettivo con valore positivo sia nella cultura popolare argentina che ispanica in generale ma inserito in un tessuto criminale è il proxeneta, “lenone” o “magnaccia”; accompagnato dai suoi svariati epiteti ne rintracciamo almeno due: il primo, riportato nella versione da noi scelta è bacán de bola[14] che traduce letteralmente l’“uomo con testicolo” e l’espressione volgare “con le palle”, contiene bola che deriva da boludez, “stupidità”, che a sua volta riconduce a boludo[15], la parola-parolaccia che meglio rappresenta i parlanti argentini. Una seconda interpretazione web è bacán de gola ovvero di “gola” o di “voce” che per metonimia potrebbe indicare il “prepotente” e il “macho forte”. Eppure, bola in castigliano è anche “chiacchera” o “pettegolezzo”,[16] familiarmente “ballista”, che nello scenario bonaerense ben si presta a una possibile traduzione, ecco perché abbiamo scelto il più familiare “infinocchiare”, verbo all’infinito che non tradisce la rima.

La seconda quartina, introdotta dalla preposizione si, presenta di nuovo una sequela di due sostantivi: vichenzo lo “stolto”, il “credulone”, che secondo Dellepiane[17] deriverebbe dall’italiano gergale vincenzo[18], “incauto”, “facile da derubare” e cafaña, “uomo rustico” o di bassa condizione, il “cafone” utilizzato principalmente nel Meridione d’Italia e, a seguire, un verbo all’indicativo introdotto dalla congiunzione y che mantiene il ritmo costante: il cripticismo rola/grola-, “vesre” mutilato di logra, -dal verbo lograr, “riuscire”- si misura con il verbo rolar, che tra i suoi contenuti semantici presenta quello di “funzionare”, per cui l’abbiamo traslato con “avere la meglio” e perciò “spuntarla”.[19] Il verbo catar, usato secondo la sua origine latina come “captare”, “afferrare”, nella sua versione popolare si articola in catar para la farra o catar para la butifarra, “rendere qualcuno vittima di scherno”[20] o, come avviene qui, in catar para el fideo, -qui è sineresi p’al fideo-  “prendere in giro” o “per i fondelli qualcuno”.[21] ¡Manco dilo!, dalla forma italiana “manco a dirlo” è stato trasformato in “senza sosta!” per rispettare la rima incrociata. La nostra scelta su espaventoso, che spesso si alterna a espamentoso, -dallo spagnolo aspaviento e alla “reazione esagerata” di uno stato d’animo- cade sull’iperbole “barbaramente”[22], mentre tirifilo, -con i suoi omologhi lunfardi papanatas, pavo o bobo-, “l’ingenuo che si lascia accalappiare”, è pure un pisaverde, ossia un “impettito” che per sua rigidità e sporgenza annuncia la prossima similitudine poetica: zapallo angola.

Zapallo, termine quechua e variante dello spagnolo peninsulare calabaza, è qui di tipo “angola”, una zucca tipica dei paesi del Río de la Plata, grossa nella sua base che si va stringendo in punta.[23] Secondo la descrizione botanica, questa pianta è formata da spine molto taglienti e da punte corte e ramificate e per questo la rima gioca sulla similitudine spuntoni vegetali/protrusioni comportamentali e pertanto “impettito/zucca a punta!”

Nella prima terzina ritroviamo il titolo El chamuyo e la “conversazione confidenziale” sulla bocca del cafiolo, tipico uomo con un’alta autostima e figura caratteristica dell’ambiente tanghero; lo “stoccafisso” talmente freddo e duro da sembrare un “ruffiano agghindato” assume, così, il valore di aggettivo con valore di “vestito con cura” o “elegante”,[24] e con il risultato finale di “linguaggio galante”.      

La papa, da voce di origine spagnola per indicare la “pappa dei neonati”, passa a “questione semplice” e “cosa facile”.[25] Il mistongo[26] è il “miserabile” e l’oscuro personaggio che cade nella trappola criminale conforme al più popolare “sfigato”. Añapa da añapar, a sua volta metatesi del castigliano apañar, con il significato di “togliere”, “derubare”, arricchisce ulteriormente il lessico del malaffare che, nel suo trasferimento linguistico diventa “fregare”. Nell’ultimo verso, un chiaro esempio di laísmola parla- e il sostantivo macho che abbiamo lasciato invariato, sia perché diffuso nella nostra lingua attraverso l’uso messicano, sia per quell’attitudine di virilità esagerata e aggressiva che comunica al verso: la nostra proposta mostra una cesura sintattica con soppressione dell’avverbio di tempo –cuando- pur conservando il tono esclamativo.

Nell’ultima terzina, ci imbattiamo ancora nell’inconfondibile “lunfardismo/vesre” camba/bacán, che qui abbiamo sottinteso per serbare la fluidità del verbo empardar che in Argentina e Uruguay equivale allo spagnolo empatar, “essere pari” nel gioco delle carte[27] e chissà “emulare” se prendiamo a modello qualcuno. La modifica da “impattare” a “vincere” richiama lo spirito competitivo del gioco e in più la sua finalità. L’espiche[28] la “ferita di arma bianca” nelle “budella” o busarda,[29] lascia uno “sgarro” sul viso da “mostrare”[30].

E così ci congediamo da questo chamuyo del corpo che trova nel lunfardo il partner ideale per ricordare la realtà vissuta e immaginare un nuovo universo linguistico. Tradurre un tango antico, significa entrare in una struttura testuale di difficile interpretazione e la natura “multipla” della sua lingua argotica, ci dà l’impressione di dover ricominciare da capo ogni volta che si esprime un parere o che si “arresta” una definizione.[31] Stigmatizzato per più di settant’anni fino al 1953 e alla pubblicazione di Lunfardía di Gobello, attualmente il lunfardo è un lessico d’uso comune diffuso a Buenos Aires e provincia nonché fuori dai confini nazionali; parallelamente, il tango, condannato alla solitudine delle periferie, si esponeva a quel prodigio verbale frattanto che avanzava la sua popolarità. Esperienza transculturale fatta da creature di distinta origine, perse in una città inospitale e anonima, in balìa delle vicissitudini di una storia sociale e politica, il tango predispose la cultura argentina all’ibridazione e alla condivisione con altre espressioni artistiche; da danza o gioco fatto di nostalgia e desiderio, sarebbe diventato anche parola scritta per merito di quell’insuperabile vocabolario di “cultura trasversale” che dai bassifondi finì sulle scrivanie di intellettuali e linguisti, passando per la letteratura popolare, il teatro e infine per la sua poesia alternativa al linguaggio colto ma anche musica contaminate e meticcia che incarnava la diversità e il dialogo non verbale. Sorti in uno spazio specifico, il gergo mescidato del “compadrito” mantenne un dialogo costante con quel “luogo dove ballano i neri al suono dei loro timpani e tamburi”.[32] Assieme, tango e lunfardo circolavano grazie ai mass-media e al contributo di giornalisti dello spessore di Carlos de la Púa o Alfredo Le Pera e neppure la censura radiofonica -prima del golpe del 1943-, riuscì a rompere quella fascinosa affinità elettiva che ha sedotto studiosi e accademici di ogni dove.

E come in una terra di frontiera, la lingua avanzava a ritmo di un passo di danza con perfetto sincretismo: l’Argentina, frutto di un’unità idiomatica tra Europa e America e punto d’incontro di linguaggi incrociati, oggi ci offre il profilo più visibile della sua identità.

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Note

[1] Unamuno 1969: 375.

[2] Per transculturalità si intende il luogo di confine tra due culture diverse che interagiscono tra loro a favore una nuova concettualizzazione della cultura, oltre l’interculturalità e nell’ambito delle scienze sociali, antropologiche e psico-pedagogiche. Il tango, pertanto, si fa testo-pretesto per mettere in luce come l’esperienza formativa di ogni soggetto sia l’esito di un mètissage, cioè di un’ibridazione e di un mescolamento di culture, di esperienze e di valori, cioè transcultura. Si rimanda in particolare a Tumino 2017: 147-163.

[3] Pedro Luis Barcia, ex presidente de La Academia Argentina de Letras, in difesa  della definizione di Dellepiane -«No deben confundirse las voces lunfardas, las creadas por los criminales para su propio uso, pero que a veces suelen popularizarse, con los argentinismos»-, distingue diversi livelli lessicali della lingua, fornendo una motivazione geografica e socioculturale: i lunfardismi diffusi in altri ambiti -compresa la cultura letteraria- e paesi –come Uruguay e Chile- diventano argentinismi. Considerandoli movimenti naturali nella dinamica delle lingue, Barcia precisa che «lo ocurrido es la incorporación de lunfardismos de origen en el habla coloquial porteña, y también en la Argentina general. Este hecho no “lunfardiza” el lenguaje porteño». La diffusione del repertorio lunfardo fuori dai confini nazionali fu prevista da Juan Piaggio nel suo articolo “Caló porteño” del 1887, definendo le voci lunfarde “argentinismi di ceto basso”. Lo stesso Teruggi classifica come “indecifrabile” la differenza tra lunfardismo e argentinismo. Secondo Conde, ogni lunfardismo è un argentinismo ma non viceversa: i termini di creazione locale -di sostrato linguistico aborigeno- sono senza dubbio argentinismi e non lunfardismi, sebbene quelli di origine quechua o guaraní –al pari di italianismi, lusitanismi o gallicismi- siano considerati lunfardismi immigrati e giunti a Buenos Aires attraverso una delle tante migrazioni interne dell’Argentina. Tuttavia, è sempre difficile precisare la differenza tra i due concetti (Academia Argentina de Letras 2004: 38).

[4] Nonostante l’esistenza di vari dizionari e scritti sul lunfardo, Oscar Conde crea il primo vocabolario etimologico che raccoglie lunfardismi della metà del XIX secolo -oggi in disuso ma che spesso riaffiorano sulla bocca delle nuove generazioni-, nuove accezioni per parole già note e termini non registrati in nessun dizionario di lunfardo -o vocabolario di voci familiari, volgari o criminali della regione rioplatense- apparsi maggiormente negli ultimi due decenni. Il lunfardista argentino crede che quelle antiquate raccolte lessicografiche siano deficienti e discutibili nella loro classificazione di alcuni lessemi come “familiare, popolare, criminale, volgare, etc.” (Conde 2004: 7).

[5] «El lunfardo es básicamente un repertorio de términos inmigrados –en especial, originarios de las distintas lenguas de las penínsulas itálica e ibérica-, lo cual lo diferencia de otras hablas populares del mundo, como el cant inglés, el gergo italiano, la giria brasileña, el slang norteamericano, el argot francés, el Rotwelsch alemán o el caló español. Todos ellos son repertorios léxicos creados por el pueblo al margen de la lengua general, pero que básicamente se componen de términos que pertenecen a esa misma lengua. He aquí lo que haría del lunfardo un fenómeno lingüístico único. Con todo, si se hace hincapié solamente en esta característica, se corre el riesgo de pensar que el lunfardo es cosa del pasado y que, una vez extinguido casi por completo el flujo inmigratorio a nuestro país, debió cerrarle sus puertas a todo vocablo surgido con posterioridad –el cual, forzosamente, pasaría a ser estigmatizado con la bastarda condición de poslunfardismo-. Claramente, esto no es así. En efecto, el lunfardo se conformó en su origen con términos traídos por la inmigración, pero en modo alguno es un vocabulario cerrado, después del cual, en orden cronológico, surgió otro. El lunfardo es uno solo, y ese espejismo del neolunfardo […] es exactamente eso: un espejismo, una separación arbitraria que no hace más que complicar las cosas y duplicar el problema. Simplemente aquel “viejo” lunfardo en las décadas sucesivas se vio ampliando con generosidad por medio de las palabras provenientes de diversos ámbitos, casi todas ellas de creación local, y sobre la base de la lengua española. El lenguaje del fútbol y el del turf, las jergas de diferentes oficios o profesiones, los ambientes de la droga, el terrorismo y la represión, el mundillo del rock y de las “tribus urbana”, la jerga de la psicoanálisis, la del boxeo, la del automovilismo, la radio y la televisión, todos ellos han aportado al lunfardo, en mayor o menor medida, una cantidad innumerable de vocablos, extendidos ya a todo el aspecto social de buena parte del país. Incluso, en los últimos tiempos, la televisión por cable se ha constituido en propaganda de muchos de estos términos» (Conde 2004: 10).

[6] «El lunfardo se vincula al tango a partir de las canciones escritas en el argot. […] Además, dada la proscripción que sufrió el tango en sus orígenes, al ejecutarse y bailarse en reductos arrabaleros, quedó expuesto a una fusión con este argot popular. Años más tarde, dada la popularidad del género musical, la expansión del lunfardo no podía ser menor. […] Es interesante marcar que, en sus inicios, los tangos en lunfardos evocaron la vida arrabaleras, la prostitución, el alcohol, el malevaje, y el aire compadre, así como el snobismo del nuevo rico, la tristeza del hombre “amurado” por su mujer, etc. No obstante, a partir de la década del ’30, el tango, a través del lunfardo aunque no exclusivamente, le empieza a cantar a los pormenores generados en la vida cotidiana, golpeada por la crisis económica mundial. La figura del linyera, la crisis económica, el desempleo, la corrupción, los valores desvirtuados en un mundo que se trasforma, inspiran una filosofía pesimista a partir de la cual autores como Enrique Santos Discépolo e Ivo Pelay hicieron del lunfardo y de las canciones un instrumento generador de conciencia y crítica social» (Fraga 2006: 29-30).

[7] «Con este título Felipe H. Férnandez publicó en 1916, por medio de Andrés Pérez, Editor, (Salta 794, Buenos Aires), un tomito de versos (100 páginas), que llama rantifusos, y de los que dice son “letra menuda, arrancada al lunfardismo porteño, en cuyo seno, (y de ello puede dar fe el señor jefe de la policía si no tiene inconveniente), no hemos actuado, más que a manera de espectadores”» (Gobello, Oliveri 2005: 243-244).

[8] Il testo da cui abbiamo estratto El Chamuyo è quello di Miguel Tabares 1989, Los poetas lunfardos, Buenos Aires: Torres Agüeros Editor: 47. Le difformità lessicali delle interpretazioni sul web rispetto all’“originale” sono altrettanto fondate e ben si prestano ad essere affrontate sul piano traduttivo. A tal proposito rimandiamo all’interpretazione vocale di Edmundo Rivero (1968).

[9] Batir deriverrebbe dal furbesco medievale, conosciuto anche come lingua zerga o gergo dal quale il lunfardo avrebbe ereditato molte voci presenti in questo tango rimato come grilo, vichenzo, cafiolo (Conde 2011: 52).

[10] Il fatto di aver utilizzato un gergo al posto di un termine lunfardo non significa che quest’ultimo rientri nella categoria dei gerghi o argot. Secondo le principali discussioni sul tema, un vocabolo argot può avere una dimensione criptica -o di difficile comprensione-, una identitaria -o appartenente a un gruppo determinato- e una terza ludica che trasmette grande voglia di giuocare. Tuttavia, nel tempo la sociolinguistica ne ha ampliato l’uso sulla base della variabilità di una lingua nel tempo – variabile diacronica-, all’interno di gruppi sociali –variabile diastratica- e in determinati luoghi –variabile diatopica-. In questo modo, una linguistica delle varietà crea un superamento rispetto alla prospettiva linguistica tradizionale (Conde 2011: 39-46).

[11] Deformación del cas. bujarrón por cruce con el cast. bufar. Es frecuente el apócope bufa y corre también la forma festiva retambufa (Gobello 2011: 44).

[12] Il termine estrilo compare per la prima volta ne El Porteñito  del 1903 di Ángel Villoldo in cui il lessico proveniente dall’esterno si mescola a parole autoctone e al cosiddetto “gauchesco” (Gobello, 1999: 72).

[13] «El dialecto que mayor número de voces ha prestado al lunfardo es el genovés , y no porque los genoveses hubieran emigrado a la Argentina en mayor número que los italianos del sur, sino simplemente porque su gran mayoría se radicó en Buenos Aires y, lejos de encerrarse en un ghetto, se mezcló con todas las clases sociales establecidas. A fines del denominado siglo XIX toda persona que se radicaba en el barrio porteño denominado La Boca necesitaba aprender algo de genovés. El doctor Alfredo L. Palacios, que fue el primer diputado socialista, elegido en 1904, y a quien correspondió representar a la comunidad de La Boca, para entenderse con su clientela política debía valerse en ocasiones de un intérprete. [entre] Los genovesismos del lunfardo [está] bacán» (Gobello, Oliveri 2005: 88-89).

[14] Bacán dal lunf. “concubinario” suo significato primario ma anche canfinflero, “patrono di una donna” o “uomo che mantiene una donna” in altre parole “protettore”. Inoltre, “individuo facoltoso” o “apparentemente facoltoso”. Secondo Gobello, il termine deriverebbe dal genovese baccan: “signore del luogo”. Il femminile bacana possiede le stesse accezioni del genere maschile (compresa quella di “concubina”). Accrescitivo: bacanazo. Forma vesrica: cambaAbacanar: produrre ricchezza. Bacanería: qualità o condizione di bacán (Gobello 2011: 29).

[15] L’aggettivo boludo, incluso anche nel Dizionario della Lingua della Real Academia Española con connotazione negativa, non è sempre stato associato allo “stupido” argentino, se pensiamo, ad esempio, al linguaggio contadino e all’arte di lotta e caccia praticate dai gauchos. Nel 1810, durante la guerra d’indipendenza argentina, i gauchos si opponevano agli spagnoli con l’utilizzo di grandi pietre dotate di intaglio che permetteva di legarle a una corda. A quei tempi, le bolas boleadoras rappresentavano una vera e propria arma bellica e i ribelli boludos, disposti in file di combattimento, si esponevano coraggiosamente a una morte certa. La sestina del Martín Fierro rende perfettamente l’idea (Hernández 2010).

[16] Da qui l’espressione lunfarda armarse una bola: generare una serie di pettegolezzi o commenti partendo da insignificanti congetture (Conde 2004: 63).

[17] Antonio Dellepiane, penalista e giurista argentino nel 1894 pubblica il libro che da inizio alla serie di studi lessicografici sul lunfardo: Contribución al estudio de la psicología criminal. El idioma del delito. Lui stesso definisce il suo discorso «ligera introducción al Diccionario lunfardo-español que presentamos a la consideración de nuestros hombres de estudios». Il Dizionario contiene 446 voci e 36 espressioni colloquiali distinte tra argentinismos e lunfardismos (Academia Argentina de Letras 2004: 33)

[18] «Tonto, gil, otario. Del ita. jergal vincenzo, individuo fácil de robar. Admite el afectivo vichenchino» (Gobello 2011: 259).

[19] Rolar è camminare in compagnia di qualcuno ma anche dimostrare consenso, inclinazione o simpatia verso l’altro. Nella terza e ultima accezione è “funzionare, espletare le proprie funzioni” (Gobello, Oliveri 2009: 279).

[20] Catar para la farra o catar para la butifarra è “rendere qualcuno vittima di scherno” visto che farra è “baldoria” o “divertimento” e farrear “divertiri durante una baldoria”. Analoghi tomar a uno para la diversión e tomar para la farra. (Gobello, Oliveri 2009: 135).

[21] Agarrar o catar para el fideo ove fideo, è “scherzo”, “burla”. Inoltre, Tirar el fideo: “praticare la fellatio”. (Gobello, Oliveri 2009: 119).

[22] L’avverbio è stato ideato dall’aggettivo argentino bárbaro che ha valore positivo sia nel linguaggio popolare: mi esposa es una mujer bárbara (bella, intelligente) che nelle interiezioni: ¡Bárbaro! (esagerato, eccessivo). Probabilmente per antifrasi di barbaridad (sp.) (Espíndola 2002: 55).

[23] Per forma e dimensioni, lo zapallo nel linguaggio popolare è metafora di cabeza ovvero della “testa” (Espíndola 2002: 86).

[24] Cafiolo e le sue varianti cafishio e canfinflero è il ruffiano che sfrutta le donne, il “magnaccia” o “lenone”. «Procede del ya perdido cafifero y éste de la expresión tirar el cafife, que parece corresponder al germanesco tirar el cairo y al véneto fiolo, muchachito, produjo cafiolo y su regresión fiolo. Por juego paronomástico con el genovés stocchefisce, pez palo. Produjo cafishio, rufián y las variantes cafishocafisio y otras. Cafishio, admite la forma vésrica fioca. Por alusión al acicalamiento de los proxenetas, cafiolo y cafisho asumieron el valor de adjetivo con la acepción de elegante, paquete » (Gobello, Oliveri 2009: 67).

[25] «En otro sentido, tener la papa es estar en conocimiento de un secreto, de algo reservado. Igual que tener la paponia o tener la posta» (Espíndola 2002: 356).

[26] «Mistongo, pobre, de poco valor o entidad. De mishio, más la desinencia afectiva –ongo-, con –t- epentética, aunque no debe descartarse un cruce con mixto. Mistonguería, pobreza. Mistonguero, pobre de poco valor o entidad» (Gobello, Oliveri 2009: 204).

[27] Empardar è “uguagliare” secondo Gobello (Gobello, Oliveri 2009: 123).

[28] «La primera acepción del cast. espiche, arma o instrumento puntiagudo. La segunda no parece proceder del ing. speech, conversación, sino de la expresión cast. soltar el espiche, soltar la estaquilla que se coloca para tapar un agujero, como en las cubas, y fig. soltarse a hablar. [La acepción de “morirse” es castellana]» (Gobello, Oliveri 2009: 130).

[29] Busarda alternato a buzarda è “stomaco”. Dal genovese buzzo, “ventre” con il doppio significato di “bocca”, sicuramente per influenza della “bocca dello stomaco” (Gobello, Oliveri 2009: 55).

[30] «Escracho m. Estafa realizada por medio de un extracto de lotería falsificado. Fotografía, gralmente. del rostro  Tatuaje. posiblemente del argót. escrache: pasaporte, papel, en cruce con el ita. jergal scaracio: billete escrito» (Conde 2004: 152).

[31] Per chiarire il lunfardo, Conde ci rinvia a Francisco de Quevedo e alla sua creazione verbale: tantalear, riferita a Tantalo e all’essere umano in generale. Il personaggio mitologico, che insieme a Sisifo e a Tizio è tra i puniti nell’Odissea omerica, fu condannato dagli dei alla sete e alla fame eterna pur essendo legato a un albero da frutto e immerso sino al collo da un lago d’acqua dolce. Tra le numerose colpe, quella di chiedere a Zeus una vita pari a quella dei divini. La similitudine sta ad indicare l’impossibilità di portare a termine un obiettivo o di raggiungere una meta pur essendo ad un passo da questa. È così che ci sfugge la definizione assoluta di lunfardo e la perfetta traduzione dei suoi vocaboli (Conde 2004: 9).

[32] Il 15 gennaio del 1902, una vecchia signora, discendente da schiavi neri, dichiarava al giornalista di Caras y Caretas: «En 1870, antes de la peste grande, los mozos bien comenzaron a vestrirse de morenos, imitando nuestro modo de hablar, y los compadritos imitaban la milonga, hecha sobre la música nuestra, y ya no tuvimos más remedio que encerrarnos en nuestras casas, porque éramos pobres y nos daba vergüenza». La milonga menzionata dalla nera anziana non era altro che il tango (Gobello 1999: 13-14).

 

About the author(s)

Simona Forino has a PhD in Cultures of the Countries of Iberian and Iberoamerican Languages with a past as a contract professor of Spanish Language and Translation at the University of Naples "l'Orientale", the University of Naples Federico II and University of Parma from the academic year 2006-2007 to the academic year 2014-2015. Currently she is registered with the Role of Experts and Experts of the Chamber of Commerce as well as the Register of Technical Consultants of the Court of Bologna. Today she is a freelance translator.

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©inTRAlinea & Simona Forino (2019).
"Tradurre i linguaggi incrociati in un gotán: El chamuyo di Yacaré"
inTRAlinea Special Issue: Le ragioni del tradurre
Edited by: Rafael Lozano Miralles, Pietro Taravacci, Antonella Cancellier & Pilar Capanaga
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