Epitesto e traduzione per l’infanzia e l’adolescenza

By Mirella Piacentini (Università degli Studi di Padova, Italia)

Abstract

English:

Following the consolidation of children’s literature and the growing attention that Translation Studies are paying to it, it seems appropriate to dwell on the reflections carried out by translators operating in this field. Contemporary children’s fiction shows that translators rarely take the floor in the peritext. However, as virtual spaces of expression are proliferating, a virtual epitext seems to be emerging and taking form, where (children’s literature) translators have a chance to make their voices heard, and achieve increased visibility. These epitextual spaces can profitably contribute to Translation Studies, notably in the sense of a process-oriented approach in children’s literature translation.

Italian:

Nella narrativa per l’infanzia e l’adolescenza contemporanea, traduttrici e traduttori possono raramente prendere la parola nel peritesto. Tuttavia, la dilatazione degli spazi virtuali di espressione e di condivisione genera un epitesto pubblico, variamente configurato, nel quale questa categoria di traduttori trova occasioni di espressione e di condivisione. L’analisi di questi spazi epitestuali consente di passare al vaglio della pratica professionale lo stato dell’arte della traduttologia per l’infanzia e l’adolescenza, incoraggiando approcci traduttologici process-oriented.

Keywords: traduzione per l’infanzia, traduzione per gli adoloscenti, paratesto, epitesto, translating children's literature, paratext, epitext

©inTRAlinea & Mirella Piacentini (2023).
"Epitesto e traduzione per l’infanzia e l’adolescenza"
inTRAlinea Special Issue: Tradurre per l’infanzia e l’adolescenza
Edited by: Mirella Piacentini, Roberta Pederzoli & Raffaella Tonin
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2620

Premessa

Nelle pagine che seguono, affronteremo il tema del paratesto del traduttore con l’intento di interrogarci sulla parola di una specifica categoria di traduttrici e traduttori, invisibile e silenziosa quasi per antonomasia: ci riferiamo agli “invisible storytellers”[1] che operano nel settore della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. A fronte di una consolidata prassi editoriale che raramente concede la parola a traduttrici e traduttori di libri destinati ad un pubblico giovane a margine del testo, rendendo di fatto particolarmente arduo l’accesso alla voce e alle ragioni di chi traduce in questo settore, ci proponiamo qui di spostare l’attenzione dal peritesto all’epitesto. Con intento esplorativo, programmatico e certamente non esaustivo, mostreremo il delinearsi di forme epitestuali variamente configurate, che si impongono all’attenzione della traduttologia in quanto strumento di accesso alla “little black box del traduttore” (Holmes 2000 [1988]: 177). L’epitesto, ovvero quello spazio virtualmente illimitato che si colloca genettianamente “anywhere out of the book” (Genette 1987: 316) si configura come luogo privilegiato, se non unico, nel quale sentire la voce di chi traduce libri per l’infanzia e l’adolescenza. In questo contributo si ipotizza il delinearsi di diverse tipologie di epitesto pubblico nel quale il traduttore (per l’infanzia e l’adolescenza) prende la parola. Queste tipologie vengono studiate ed esemplificate nell’intento non già certo di esaurirne l’analisi, ma di provocarla e di stimolarla.

1. Contro l’invisibilità: paratesto e traduzione

Come noto, nella sua opera dedicata alla disamina delle ‘soglie’ del testo, Genette (1987) non si sofferma sugli spazi paratestuali nei quali può trovare espressione la voce di chi traduce. Sembra legittimo associare questa omissione alla controversa e ampiamente discussa questione dell’invisibilità del traduttore[2]: prima che Venuti (1995) ne fornisse la sua ben nota rilettura, l’idea che una traduzione riuscita dovesse non sembrare una traduzione elevava questa invisibilità a requisito quasi indispensabile per poter produrre una traduzione di qualità (e quindi per poter essere un buon traduttore). Non è difficile immaginare che una figura a cui si chiedeva (e si chiede?) di non lasciare traccia in un testo – di cui tuttavia potrebbe rivendicare l’autorialità o almeno la co-autorialità –, dovesse assicurare pari discrezione nelle soglie di quello stesso testo.

Con la nascita dei Translation Studies, l’attenzione alla traduzione si è spesso risolta in analisi condotte da una prospettiva product-oriented. Si può indubbiamente ritenere che al diffondersi di un approccio process-oriented (Holmes 2000 [1988]: 176-177) abbia fatto ostacolo l’oggettiva difficoltà di accesso alla già menzionata “little black box of the translators’ ‘mind’”. Nell’ottica di un’evoluzione process-oriented degli studi traduttologici, assume dunque particolare rilievo il moltiplicarsi delle ricerche su paratesto e traduzione[3]. Ci limitiamo in questa sede a fare solo qualche rapido riferimento agli studi condotti in questa direzione negli ultimi decenni. Vale la pena di sottolineare che le ricerche sul paratesto del traduttore non contribuiscono esclusivamente a dare visibilità ad una figura tradizionalmente invisibile: poiché l’atto traduttivo si compie entro un contesto (storico, sociale, culturale, editoriale) che ne condiziona il compimento, e di cui rimane traccia nella parola del traduttore, quest’ultima si configura come elemento decisivo nella ricostruzione e nelle ridefinizioni dell’habitus del traduttore e della doxa traduttiva[4]. Ne trae vantaggio la ricerca traduttologica che, potendosi dotare di elementi di analisi che le consentono di spostare l’attenzione dal prodotto al processo, potrà poi, circolarmente, ritornare al prodotto, descrivendo e valutando strategie e scelte traduttive alla luce di un nuovo, decisivo parametro, in grado di contrastare l’arbitrarietà della valutazione, spesso inevitabile anche laddove l’approccio si voglia risolutamente descrittivo[5].

In Italia, con uno sguardo alla traduzione dal francese all’italiano, Elefante (2012) amplia l’orizzonte delle ricerche condotte sul paratesto, interrogando un ampio corpus[6] al fine di rinvenire tracce della voce di chi traduce.

Nel 2013 e 2015 due convegni sono organizzati dal gruppo di ricerca TRACT in seno al progetto del laboratorio PRISMES (EA 4398 Sorbonne Nouvelle-Paris 3) Textes théoriques sur la traduction. In questo progetto si inserisce il numero monografico della rivista Palimpsestes, “Quand les traducteurs prennent la parole: préfaces et paratextes traductifs”; rimandiamo all’introduzione (Génin 2018) per approfondimenti sulle iniziative di questo gruppo di ricerca, e ci limitiamo qui a ricordare che la “missione principale” del progetto risulta essere la creazione di un sito che raccolga testi redatti da traduttori tra il XVI e il XX secolo, in lingua inglese o francese, ed aventi come tema la traduzione[7]. Questo spazio virtuale, che scorpora elementi peritestuali, li allontana dal testo, ma al contempo ne accresce la visibilità e l’accessibilità, richiama alla mente il più ampio movimento che vede nel mondo virtuale un ‘luogo’ che amplifica e legittima la parola di chi traduce: blog, pagine personali, rubriche di riviste o spazi editoriali virtuali ospitano con sempre maggiore frequenza la parola del traduttore, contribuendo a legittimarla.

Oltre a sottolineare la solo apparente marginalità di un testo che per definizione si situa in posizioni periferiche, le curatrici di un recente numero monografico della rivista InTRAlinea descrivono il paratesto del traduttore come “il luogo in cui teoria e prassi della traduzione vengono a coincidere nel gesto critico che raccoglie il senso e lo consegna alla storia” (Catalano e Marcialis 2020), evidenziando di fatto il ruolo che il paratesto può assumere nel superamento dell’opposizione, spesso massimamente improduttiva, tra pratica traduttiva e riflessione traduttologica. Se è vero, come sottolineano ancora le curatrici nell’introduzione, che il paratesto si configura come il luogo “dove il traduttore prende posizione rispetto al testo a cui ha dedicato il suo paziente lavoro, dove si confronterà in maniera diretta con l’autore”, i diversi contributi ne delineano altresì la natura di spazio dove chi traduce dialoga e si confronta con il lettore, e che può diventare l’occasione per un riposizionamento del proprio ruolo e della propria funzione. Emerge il ricorrere di una retorica paratestuale che sembra potersi declinare entro le varie sottocategorie in cui si frammenta la pratica traduttiva. Esaminando i paratesti teatrali in cui prende la parola il traduttore, Dufiet (2020) mostra di fatto come gli esiti discorsivi della stessa siano mediati dalle peculiarità dell’ambito in cui si muove il traduttore: nella fattispecie, preso tra l’oggettività di una posizione culturalmente e professionalmente debole e il desiderio soggettivo e legittimo di riconoscimento, il traduttore teatrale si esprimerebbe, secondo Dufiet (ibid.), adottando strategie retorico-discorsive attraversate da un “fondo polemico implicito a proposito della funzione e del riconoscimento dei traduttori”, che configura i paratesti traduttivi teatrali contemporanei come “testi polemici che non utilizzano le strategie retoriche della polemica aperta perché preferiscono quelle della valorizzazione del proprio operato”.

Il recente volume Présences de traducteurs, coordinato da Véronique Duché e Françoise Wuilmart (2021), ci parla della volontà di far emergere il traduttore dalle nebbie dell’invisibilità in cui per troppo tempo è rimasto avvolto. In questa stessa direzione va il numero della rivista Meta, pubblicato nel mese di aprile 2021, Archives de traduction/Translation Archive: aprire l’archivio del traduttore significa dare voce ed importanza alle sue riflessioni, alle sue ragioni, e risalto ad una professione che fatica ancora ad essere riconosciuta come tale. Aprire questi archivi significa anche fornire agli studi di genetica del testo degli esempi di quella tipologia di epitesto privato che Genette definisce “avant-texte” e che ci porta oltre i confini del paratesto de jure, configurandosi come “paratexte involontaire et de facto” (Genette 1978: 363).

Questi rapidi rimandi a recenti ricerche condotte sulla parola di chi traduce ci invitano a riflettere sull’opportunità di proseguire nel solco tracciato dagli studi sinora condotti, al contempo aprendo e circoscrivendo il campo di indagine. Nell’esplorazione del rapporto tra paratesto e traduzione, l’inclusione di un parametro che consenta di rileggere le riflessioni del traduttore alla luce delle specificità dell’ambito in cui opera permetterebbe di verificare l’incidenza dello stesso sulla postura traduttiva. In quest’ottica, diventa interessante interrogare il paratesto nella traduzione della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. Appare lecito chiedersi – e ricercare una risposta nelle parole stesse del traduttore – in che misura, ad esempio, la controversa specificità di questa letteratura incida sulle scelte traduttive e più generalmente sulla percezione che di sé ha chi traduce in questo ambito, occasionalmente o stabilmente.

Come anticipato nella premessa, ci soffermiamo su una figura di traduttore che, in materia di invisibilità, vanta un triste primato. L’assunto da cui Lathey prende le mosse nelle ricerche condotte sul ruolo del traduttore per l’infanzia e l’adolescenza (2010; 2016) risulta proprio essere la straordinaria e paradigmatica invisibilità di questa specifica categoria di traduttori, per motivi che la studiosa riconduce alla posizione periferica che la letteratura giovanile occupa nel polisistema letterario: “As a result of the peripheral position of children’s books within the literary system (Shavit 1986) and the resulting lack of status for translators, translators for children seem to be the most transparent of all” (2010: 5)[8]. Tuttavia, come vedremo, nella narrativa contemporanea rivolta ad un pubblico di giovani lettrici e lettori la voce di chi traduce si fa sentire, in spazi che si allontanano dal testo, secondo configurazioni composite, accomunate da una matrice epitestuale.

2. Oltre il testo: configurazioni epitestuali

Abbiamo già avuto modo di soffermarci (Piacentini 2019) sui paradossi e sugli stereotipi di cui soffre una pratica traduttiva che tuttavia contribuisce alla vitalità e alla dinamicità di un settore editoriale trainante, capofila nel processo di internazionalizzazione dei principali mercati editoriali europei. A fronte di una visione spesso ancora fortemente stereotipata del lavoro che svolge il traduttore per l’infanzia e l’adolescenza, la forza di questo settore editoriale ha accresciuto l’interesse nei confronti di questa pratica traduttiva, con conseguente maggior coinvolgimento di traduttrici e traduttori in tutti quei contesti, compreso quello accademico, in cui si alimenta il dibattito sulla traduzione per l’infanzia e l’adolescenza.

Indubbiamente, navigando tra i siti delle principali case editrici italiane specializzate nella pubblicazione di libri per l’infanzia e l’adolescenza, si ha l’impressione che questa specifica figura di traduttore rimanga ancora poco valorizzata: si nota l’assenza del nome del traduttore nella scheda di presentazione del testo che l’editore mette a corredo dell’immagine di copertina[9]; inoltre, mentre è comune per gli editori includere nel sito una pagina secondaria dedicata agli autori, molto raramente appaiono pagine secondarie dedicate ai traduttori. Una disamina più attenta e più estesa dei contenuti di questi siti editoriali potrebbe smentire l’impressione di una scarsa valorizzazione del lavoro del traduttore; tuttavia, la natura di ‘vetrina’ del sito reca con sé un implicito fondamentale, che vuole che le informazioni ritenute essenziali siano messe in evidenza e rese facilmente ed immediatamente reperibili[10].

Rare sono certamente ancora le occasioni di espressione peritestuale che vengono concesse al traduttore di libri per l’infanzia e l’adolescenza[11]. La scelta editoriale di non ‘appesantire’ un testo destinato ad un pubblico di giovani lettrici e lettori con prefazioni, postfazioni o note (siano esse poste a piè di pagina o a margine del testo) risulta in certa misura comprensibile; tuttavia, è chiaro che l’assenza di altri spazi finirebbe per tenere il traduttore per l’infanzia e l’adolescenza imprigionato in una sorta di invisibilità senza ritorno.

Una prima disamina, esplorativa e ovviamente non esaustiva, del panorama paratestuale nella letteratura per l’infanzia e l’adolescenza contemporanea[12] conferma che all’effettiva, preannunciata scarsità peritestuale, fa da contraltare una presa di parola epitestuale in senso genettiano, ovvero collocata in spazi fisicamente distanti dal testo da cui emana.

L’analisi dell’epitesto prodotto da chi traduce, non filtrata dal nostro parametro di riferimento, consente una prima considerazione di carattere generale. Se è vero, come detto, che l’epitesto si allontana dal testo ma al contempo ne dilata i confini, ricorre, nelle diverse configurazioni epitestuali che abbiamo identificato, la progressiva focalizzazione sul processo traduttivo e sul soggetto che ne assume la responsabilità e la paternità. La parola di chi traduce, portatrice di un dato empirico che ne costituisce il valore aggiunto, è inevitabilmente paratestuale, essendo emanazione di un testo da cui prende le mosse per sviluppare un discorso che può darsi forme e finalità differenti[13]. La relazione che la lega al testo (fonte), evidente ed inevitabile quando la parola di chi traduce si configura come peritestuale, può farsi più rilassata quando assume contorni epitestuali: una prima disamina delle diverse espressioni epitestuali della parola di chi traduce mostra una tendenza da parte del traduttore a legittimarsi il diritto ad una presa di distanza dal testo fonte, con conseguente focalizzazione sul processo di cui è artefice e da cui è scaturito un nuovo testo, la traduzione. Si può assistere così ad una sorta di rovesciamento di ruoli, tale per cui non è più chi traduce ad assumere un ruolo ancillare rispetto al testo, e quest’ultimo diventa argomento che consente a chi traduce di riflettere più genericamente sulla propria pratica e di posizionarsi, più o meno esplicitamente e consciamente, rispetto ad una doxa traduttiva, entro cui iscrive la propria parola e che in qualche modo contribuisce a delineare o a ridefinire. Si possono così desumere dall’epitesto prodotto dal traduttore delle implicazioni pragmatiche e funzionali paragonabili a quelle che Genette evidenzia nel configurare l’epitesto autoriale, almeno per ciò che concerne il diluirsi della funzione prettamente paratestuale ed il conseguente indebolimento del legame diretto con il testo da cui emana[14].

Un primo tentativo tassonomico potrebbe portarci a distinguere in endogena (o volontaria) ed esogena (o indotta) la presa di parola epitestuale del traduttore. Questa distinzione permetterebbe di separare l’epitesto generato da una presa di parola non stimolata da istanze terze da quelle forme epitestuali che sono l’esito di una sollecitazione esterna. Un ulteriore parametro classificatorio, di tipo diamesico, potrebbe essere introdotto, per effetto della natura squisitamente ed esclusivamente virtuale di alcuni contenitori epitestuali (blog, siti)[15].

2.1. Epitesti virtuali endogeni

La presa di parola virtuale del traduttore, che ritorna sulle proprie scelte di traduzione, motivandole o semplicemente condividendole, può configurarsi secondo una modalità che potremmo definire endogena poiché la presa di parola avviene per decisione autonoma, non indotta, in uno spazio creato dal traduttore stesso. In questa categoria possono essere fatti rientrare i blog e i siti[16] animati da traduttrici e traduttori: nel loro essere vetrine tramite le quali farsi conoscere da un pubblico di possibili committenti[17], questi luoghi virtuali sono anche l’occasione per condividere riflessioni, talvolta sollecitate dai lettori.

A titolo di esempio, due traduttrici italiane che vantano una solida esperienza nella traduzione di libri per l’infanzia e l’adolescenza –Valentina Daniele e Samanta Milton Knowles – animano spazi virtuali personali, che sarebbe decisamente riduttivo considerare come semplici biglietti da visita.

Navigando tra le pagine del blog della traduttrice Valentina Daniele (https://valentinadaniele.com/) si nota la particolare dinamicità della sezione dedicata alla letteratura per l’infanzia e l’adolescenza[18]. Colpiscono le osservazioni meticolose dei lettori e la curiosità che viene risvegliata da alcune scelte della traduttrice. Ne è un esempio un “pensiero” postato il 2 gennaio 2021 da una lettrice incuriosita dalle scelte di traduzione dei nomi propri nel romanzo di J. K. Rowling, L’Ickabog: dopo essersi documentata andando a confrontare le soluzioni di Daniele con i nomi originali ed essersi complimentata “per l’ottimo lavoro”, ha un ultimo dubbio, che chiede alla traduttrice di chiarire[19]. Le risposte della traduttrice, pur nei limiti imposti dalla natura stessa del canale utilizzato, si configurano come ‘pillole’ traduttive, che certamente condensano discussioni e dibattiti di ampia portata, col rischio di sminuirli, ma hanno il pregio di restituire al lettore un’immagine estremamente concreta del lavoro del traduttore. Nella sua concisione, la risposta di Daniele a questo specifico “pensiero” sintetizza in maniera efficace non solo il processo che ha condotto alla scelta del nome per il quale la lettrice chiedeva chiarimenti, ma la complessità dell’intero processo di traduzione del romanzo in questione, a causa dei tempi ristretti di lavorazione e delle continue modifiche che si rendevano necessarie[20]. Il blog permette inoltre a Daniele di rimandare i lettori ad alcuni suoi articoli, di cui fornisce gli estremi nella sezione “Articoli e interviste”, facendo quindi di questo spazio, a tutti gli effetti, un luogo virtuale dedicato alla traduzione editoriale e in cui depositare e condividere degli “appunti sulla traduzione”[21].

Anche lo spazio virtuale animato da Samanta Milton Knowles (https://www.samantakmiltonknowles.eu/) si articola in più sezioni, alcune delle quali decisamente configurabili come veri e propri contenitori epitestuali. Se nella sezione “Traduzioni” Milton Knowles elenca i numerosi titoli tradotti, suddividendoli per genere ed ampliando di ognuno il paratesto grazie ai numerosi rimandi ipertestuali, la sezione “Interviste” permette di sentire la voce della traduttrice, nel senso più autentico e letterale laddove il rimando non è ad un testo scritto, ma ad un file audio o video. Di particolare interesse è poi la sezione dedicata ad Astrid Lindgren, di cui Milton Knowles ha ritradotto per Salani l’intramontabile Pippi Långstrump. Nel momento in cui scriviamo, questo importante lavoro di ritraduzione non viene menzionato; tuttavia, Milton Knowles rimanda ad un documento che testimonia il duraturo rapporto che la lega alla scrittrice svedese: il titolo della sezione, “Tradurre Astrid Lindgren”, riprende quello della tesi magistrale di Milton Knowles ed è ancora grazie ad un rimando ipertestuale che l’epitesto si amplifica fino a dare al lettore la possibilità di scaricare l’intera tesi della traduttrice. Milton Knowles condivide così col lettore delle riflessioni che, seppur condotte in un periodo antecedente all’avvio della sua carriera di traduttrice, non sono prive di interesse ed anzi assumono particolare rilevanza alla luce del percorso professionale successivamente intrapreso.

I profili di queste due traduttrici sono da considerarsi esemplificativi di un atteggiamento che non è ancora particolarmente diffuso tra i traduttori[22] e forse per questo colpisce che lo si riscontri in traduttrici che si muovono essenzialmente, se non esclusivamente, nell’ambito della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza.

Ciò che preme segnalare qui è l’emergere di spazi virtuali, che il traduttore stesso crea ed organizza secondo criteri personali e nei quali lascia traccia della propria impronta traduttiva. Questi spazi prefigurano il delinearsi di un epitesto virtuale, da intendersi non già come semplice metamorfosi digitale o digitalizzata di ciò che tradizionalmente si considera epitesto, ma come luogo virtuale che emana dal traduttore. Se certo questi luoghi virtuali si connotano come siti vetrina[23], è innegabile che, da un punto di vista traduttologico, contribuiscano ad un ampliamento e ad una ridefinizione del concetto stesso di paratesto traduttivo. Laddove la prassi editoriale poi non contempli spazi peritestuali deputati ad accogliere la parola del traduttore, come spesso succede nella letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, questi contenitori virtuali vengono a costituire una risorsa particolarmente significativa per il traduttore che voglia investirsi in riflessioni tratte dalla propria pratica. Che queste riflessioni interessino solo gli ‘addetti ai lavori’ è almeno parzialmente contraddetto dai commenti che i lettori lasciano negli spazi in cui il traduttore li invita a prendere la parola.

2.2 Epitesti esogeni

Il contributo epitestuale indotto è innanzitutto rappresentato da quelle forme mediate di espressione che sono le interviste. Il diritto di parola viene innegabilmente concesso prioritariamente a quei traduttori che, in virtù di precise scelte editoriali, finiscono per essere identificati come la ‘voce’ vicaria di un autore di fama internazionale. Con l’imporsi (sul mercato editoriale) della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, anche le traduttrici e i traduttori che operano in questo ambito vengono invitati a prendere la parola. Se certamente l’imporsi di alcuni casi editoriali permette di intravedere un processo simile a quello descritto per la letteratura generale, ovvero l’identificazione del traduttore come ‘voce’ di un autore di spicco, nelle interviste rivolte a chi opera in maniera specifica nel settore dell’infanzia e dell’adolescenza l’interesse sembra ancora principalmente rivolto ad indagare le eventuali peculiarità di questo specifico ambito della traduzione. Ne derivano considerazioni slegate da eventuali cifre autoriali o narrative e che più frequentemente portano sul destinatario, con conseguente posizionamento (esplicito o deducibile) del traduttore rispetto ad un’idea specifica di infanzia e adolescenza. Il web ha senz’altro ampliato la varietà di supporti disponibili per diffondere questi scambi. Non si deve dimenticare, poi, che queste prese di parola mediate ed indotte trovano un canale di diffusione non solo sui supporti resi disponibili dalle istanze mediatrici, ma anche nei canali di ‘autopromozione’ del traduttore stesso: l’epitesto esogeno attinge dunque anche a risorse endogene per diffondersi.

Di natura esogena poiché indotta è anche il contributo che il traduttore porta in consessi accademici, sotto forma di conferenze o partecipazioni a convegni. La consacrazione della traduzione per l’infanzia e l’adolescenza come ambito traduttologico specifico ha visto moltiplicarsi le iniziative convegnistiche dedicate. In linea generale, il coinvolgimento del traduttore si risolve in testimonianze tratte dalla pratica traduttiva, che chi traduce accetta di condividere in consessi accademici, salvo poi declinare l’invito a lasciarne traccia in successive pubblicazioni[24]. Tuttavia, risulta sempre meno raro trovare contributi di traduttori professionisti in volumi collettanei[25]. Le riflessioni del traduttore, che ritorna sulle proprie scelte e ne condivide genesi e motivazioni con la comunità scientifica accademica, danno origine ad una tipologia discorsiva che diluisce la riflessione rigorosamente traduttologica, generando una tipologia paratestuale configurabile come espressione discorsiva epitestuale, che potremmo ulteriormente categorizzare attribuendole la qualifica di accademica, poiché viene di fatto adattata ed adeguata alle norme della comunicazione accademica formale, pur non conformandosi necessariamente al rigore metodologico richiesto alla ricerca scientifica pura. Questa forma epitestuale esogena si può solo accessoriamente definire virtuale e questo tratto le potrebbe essere attribuito esclusivamente per effetto del progressivo trasferimento dei prodotti della ricerca accademica su supporti digitali.

2.3. La rubrica “Quinta di copertina” della rivista tradurre

Mentre scriviamo, viene pubblicato l’ultimo numero della rivista tradurre. Scompare un luogo deputato al dibattito e allo scambio sulla traduzione[26], e in particolare una rivista promotrice di un’iniziativa degna di nota: a partire dal numero 11, pubblicato nell’autunno del 2016, tradurre mette “una nuova rubrica a disposizione del traduttore”. Questa la descrizione dello spazio denominato “Quinta di copertina”[27] e destinato, nelle intenzioni del comitato editoriale della rivista, a recuperare quella pagina che manca in ogni traduzione:

In ogni libro tradotto, c’è una pagina mancante. È la pagina in cui il traduttore racconta come e perché dal testo originale, attraverso molteplici stesure, parole scritte e cancellate, appunti su taccuini e letture di contorno, ha scelto le parole che, a una a una, nero su bianco, compongono il libro che tenete in mano. […]  Ora «tradurre» vuole inaugurare la sua galleria di «quinte di copertina», pagine aggiunte a libri tradotti di recente pubblicazione in cui il traduttore racconta il senso del suo lavoro. […] La nostra nuova rubrica offre la parola ai traduttori perché ci raccontino le loro scelte nello spazio di una pagina. E intende farlo all’insegna della più grande varietà possibile di lingue, voci e generi letterari, purché di un libro si tratti. Accogliamo proposte[28].

Dalla sua inaugurazione, questa rubrica ha accolto mediamente cinque contributi per ogni numero, per un totale di quarantadue quinte di copertina[29]. Quando le ‘quinte’ si osservano più da vicino e dalla prospettiva che ci interessa, notiamo che solamente sei danno conto di esperienze di traduzione nell’ambito della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza[30]. Ci pare tuttavia degno di nota che tre di questi sei contributi si collochino nell’ultimo numero della rivista, pubblicato nell’autunno del 2021, quasi a significare un’accresciuta propensione ad aggiungere quella “pagina mancante” anche da parte di chi traduce libri per l’infanzia e l’adolescenza.

Il corpus che si può ricavare dalla rubrica “Quinta di copertina” è certamente modesto, ma non per questo meno interessante. Le ‘quinte’ prefigurano una tipologia che scompagina e combina i tratti a cui abbiamo fatto ricorso per abbozzare una prima classificazione epitestuale: al contempo endogena ed esogena, poiché indotta e tuttavia frutto di una precisa scelta del traduttore di accogliere la proposta del comitato editoriale, confonde parimenti i confini della virtualità, trattandosi di contributo diffuso da una rivista nata sul web, ma presente nelle biblioteche anche in forma cartacea[31].

Le “quinte di copertina” della rivista tradurre constano di resoconti sintetici di una specifica esperienza di traduzione. Questa sinteticità le configura a tutti gli effetti come pagine singole[32], frammenti di una storia dimenticata al momento della pubblicazione del testo tradotto, eppure così intimamente legata alla sua ‘rinascita’ in una lingua altra. La posizione della redazione è chiara rispetto all’autorialità del traduttore[33]: ogni ‘quinta’ ha un titolo, seguito dal nome del traduttore, presentato come “autore”[34]. Non ci addentriamo qui nell’annosa questione dell’autorialità del traduttore; preme tuttavia sottolineare che la lettura di queste “pagine mancanti” mostra con assoluta chiarezza che l’atto traduttivo equivale a tutti gli effetti ad una riscrittura del testo fonte: la trasposizione linguistica, che genera e giustifica l’atto di traduzione, rimane sullo sfondo, mentre emerge e si impone all’attenzione di chi legge l’evidenza di un lavoro minuzioso, fatto di meticolose ricerche atte a restituire non già e solo la materialità linguistica del testo, ma un intero mondo, dal quale il traduttore si è lasciato attraversare e che ha respirato per poterlo ri-creare. Non ci riferiamo alla ricreazione come tecnica imposta da alcune sfide – con le quali chi traduce libri per l’infanzia e l’adolescenza si è dovuto quasi certamente confrontare – che impongono riscritture del testo fonte, ma di un vero e proprio atto di appropriazione di questo testo, che si risolve nella creazione di un testo al contempo identico e dissimile, poiché inevitabilmente altro rispetto alla fonte.

2.3.1 Schemi sequenziali retorico-discorsivi nelle “quinte di copertina”

Le “quinte di copertina” della rivista tradurre rispettano uno schema retorico-discorsivo ricorrente, che presenta solo qualche leggera variante. Questa almeno apparente omogeneità si può certamente ascrivere all’esiguità del corpus esaminato, ma non possiamo escludere che sia frutto di un adeguamento ad uno schema suggerito ai contributori dal comitato editoriale[35].

Prima di soffermarci sulle ‘quinte’ che riportano esperienze di traduzione riconducibili all’ambito che ci interessa, proponiamo una disamina della morfologia testuale-discorsiva del corpus da cui sono tratte.

In un’ottica pragmatica e testuale, le ‘quinte’ possono essere esaminate come sequenze di atti discorsivi pragmaticamente accomunati da una forza illocutoria che, nel caso specifico, è tesa ad orientare lo sguardo del lettore, rendendolo consapevole della presenza e del lavoro compiuto dal traduttore. La coerenza illocutoria che accomuna questi testi si esplica, dal punto di vista della struttura testuale, attraverso organizzazioni sequenziali articolate secondo schemi prototipici (Adam [1997] 2008; 1999). Procedendo ad un’analisi per sequenze prototipiche, è possibile veder emergere delle dominanti, che consentono di accomunare alcune ‘quinte’.

Il modello discorsivo-testuale delle ‘quinte’ è caratterizzato da un nucleo stabile, invariante, fatto di sequenze prototipiche descrittive. Questa affermazione potrebbe farci pensare ad una risoluzione tipologica orientata nel senso di una categoria epitestuale prossima alla tipologia peritestuale informativo-descrittiva identificata da Elefante (2012: 104-107). Tuttavia, questa invariante descrittiva non sembra sufficiente a giustificare astrazioni tipologiche che ci permettano di vedere nelle ‘quinte’ una variante epitestuale di questa tipologia peritestuale informativo-descrittiva.

In tutte le ‘quinte’, le sequenze descrittive (o informativo-descrittive) sono generalmente – seppur non necessariamente – collocate in apertura: il traduttore elenca e descrive in maniera più o meno dettagliata le sfide traduttive poste dal testo in questione. La loro enumerazione può essere messa in relazione allo stile dell’autore e/o alle peculiarità dell’opera in questione, ma l’effetto “contestualizzante”[36] risulta sempre funzionale alla descrizione/enumerazione delle sfide traduttive.

Le sequenze testuali descrittive risultano strettamente connesse a sequenze prototipiche argomentative, dominate dall’esemplificazione, che si configurano anch’esse come invarianti, nella misura in cui sono raramente assenti. Queste sequenze funzionano a tutti gli effetti come dispositivi retorici atti a chiarire e a dimostrare concretamente il senso delle sfide e delle difficoltà precedentemente descritte. In queste sequenze, che possono essere variamente articolate, il traduttore esemplifica le sfide precedentemente elencate, aprendo così la strada a sequenze di tipo esplicativo-argomentativo, nelle quali spiega quali strategie e risorse abbia messo in campo per superare la sfida posta dal testo, esponendo le ragioni delle scelte operate. Questa riflessione retrospettiva non si inserisce in un quadro teorico e metodologico definito e si percepisce anzi, in alcuni casi, una sorta di diffidenza nei confronti della traduttologia. In questo senso, una delle ‘quinte’ che possiamo catalogare come riconducibile all’ambito che ci interessa contrappone in maniera netta la ricezione del traduttologo da quella del lettore: in quanto “traduttrice che mette becco”[37], Paola Mazzarelli si dice consapevole che gli interventi apportati al testo fonte – seppur a suo avviso migliorativi rispetto ad una scrittura originale “dignitosa”, ma “ripetitiva”[38] – farebbero storcere il naso ai traduttologi. Mazzarelli punta alla ricezione del lettore e rivendica il diritto alle libertà che si concede:

Tanto vale che lo dica subito: la mia traduzione non passerebbe lo scrutinio di nessuna lente traduttologica. Via, cassata! Temo che non passerebbe nemmeno lo scrutinio di un editore meno liberale e illuminato del mio. E allora? Passerà lo scrutinio dei lettori. E se qualcuno di loro, chissà quando, chissà dove, si ricorderà di quell’espressione idiomatica, di quel giro di frase, di quell’aggettivo, magari perfino un po’ letterario, che gli è colato dentro inavvertitamente, e lì è rimasto… be’, la mia traduzione avrà anche assolto al suo compito.

Solo in un numero limitato di casi si riscontrano variazioni su questo schema di fondo.

L’effetto contestualizzante assume talvolta un sapore epidittico e si risolve nella retorica dell’omaggio all’autore del testo fonte, con sequenze che possono essere inserite nel segmento contestualizzante introduttivo, quando presente, oppure in conclusione. Nel primo caso, il traduttore fornisce un succinto quadro contestuale[39], che si fa omaggio al testo e all’autore soprattutto laddove – e non è infrequente – il traduttore-scout sia all’origine del progetto di traduzione ed abbia suggerito all’editore la pubblicazione di un titolo o di un autore per i quali ha evidente ammirazione[40]. Se in questo primo caso il focus è sul testo fonte, nel secondo caso, quando il riferimento al testo e all’autore appaiono in chiusura, l’attenzione si sposta sulla traduzione: quasi retrospettivamente, il traduttore mette la propria traduzione in relazione al testo fonte e al suo autore, di cui implicitamente elogia le qualità nel momento in cui conclude la ‘quinta’ con l’augurio che la traduzione abbia saputo rendere omaggio o giustizia al testo originale e all’autore.

Un numero sparuto di ‘quinte’ non si colloca entro lo schema sequenziale[41] sopra definito, distinguendosi altresì per la diversa forza illocutoria che viene impressa alla presa di parola: sono ‘quinte’ in cui le sequenze descrittive ed esemplificative si rarefanno e il discorso si incentra più genericamente sulla figura del traduttore e sulla traduzione[42].

A questo istinto che astrae ed universalizza, ma al contempo fornisce suggerimenti procedurali che ci riportano alla concretezza dell’atto di traduzione, fa da contraltare la voce di chi invoca l’irripetibilità di ogni esperienza traduttiva[43].

Il rapporto del traduttore col testo può risolversi in ‘quinte’ più introspettive, dominate dalla relazione intima ed emotiva che si instaura tra il testo e chi lo traduce[44]. Pur ancorate e ricondotte alle specifiche sfide del testo in questione, ed intrecciate a sequenze descrittivo-esplicative, queste ‘quinte’ sono dominate da sequenze che potremmo definire narrative. Occorre precisare che la dominante introspettiva di queste ‘quinte’ non alimenta quella visione talvolta quasi esoterica della traduzione come atto riservato a pochi eletti. Riescono, al contrario, a mostrare molto chiaramente come la traduzione non si risolva in una semplice azione del traduttore sul testo fonte, ma in uno scambio, talvolta emotivamente intenso, che fa sì che il testo lasci una traccia altrettanto profonda in chi lo ha tradotto. Se è vero che la traduzione non equivale a risolvere problemi di natura strettamente linguistica, risulta altrettanto vero che la lingua è il veicolo attraverso cui chi traduce entra nel testo e nel mondo che quel testo crea. Ed è sempre attraverso una lingua, altra rispetto alla fonte, che dà forma al rapporto che ha costruito con il testo, immortalandolo nelle scelte traduttive. La “paura” di Eva Allione, che induce cautela ad un primo contatto con The House of Hunger di Dambudzo Marechera (La casa della fame, Roma, Racconti edizioni, 2019) [45], si trasforma in “baldanza” grazie al rapporto emozionale che la traduttrice stabilisce tra due forme di “schizofrenia linguistica”. Questo rapporto non rimane fine a sé stesso, ma libera la traduttrice che, a quel punto, può finalmente vedere, scegliere, riscrivere: questa triade ci sembra riassumere il senso più pieno dell’atto traduttivo. Dietro ad ogni scelta – stilistica, sintattica, lessicale – c’è il rapporto che il traduttore ha creato con il testo e con l’autore di quel testo, sapendo che non traduciamo un autore, ma una manifestazione della parola di quell’autore, ed è di questa specifica manifestazione che dobbiamo appropriarci per poterla restituire. In quest’atto di restituzione-riscrittura il testo prende forma incarnandosi in una lingua altra, portando con sé traccia dell’altro che lo ha riscritto.

2.3.2. ‘Quinte di copertina’ e traduzione per l’infanzia e l’adolescenza

Delle sei ‘quinte’ di copertina riconducibili alla traduzione per l’infanzia e l’adolescenza, colpisce la varietà delle problematiche evocate, a dimostrazione di come le esperienze traduttive condotte a partire da testi per l’infanzia e l’adolescenza costituiscano un banco di prova importante, per l’ampio paradigma di sfide che pongono al traduttore[46].

La già citata ‘quinta’ di Mazzarelli (2017) ha un andamento strutturalmente compatibile con lo schema individuato e sopra esposto: dopo alcune sequenze contestualizzanti, la traduttrice si sofferma su quello che definisce il problema dei “dettagli”, descritti come “delizia e tormento del traduttore”: è l’occasione per esemplificare alcune scelte lessicali che, secondo Mazzarelli, forniscono al traduttore l’occasione di partire alla volta di una “sorprendente caccia al tesoro”. Nessuna traccia, dunque, di quel dubbio che può attanagliare il traduttore consapevole di rivolgersi ad un lettore in possesso di competenze lessicali in divenire, e che può indurlo a semplificazioni non sempre necessarie ed auspicabili. Il titolo della ‘quinta’, “Una traduttrice che mette becco”, sposta significativamente l’attenzione e le attese sulla traduttrice, preannunciandone il modus operandi. In Mazzarelli, questo “vizio di mettere becco” sembra configurarsi come postura traduttiva trasversale ai diversi generi tra cui si muove. Tuttavia, Mazzarelli vede in questa postura un atteggiamento traduttivo particolarmente confacente alla “letteratura per ragazzi”; l’intervento del traduttore diventa addirittura necessario per conferire letterarietà ad un testo (fonte) che evidentemente non viene percepito come letterario, o come realmente e totalmente tale. In questa operazione globalmente migliorativa, la traduttrice trova il senso stesso del compito che la sua traduzione deve assolvere.

Questo mio vizio del mettere becco è utile – anzi, direi indispensabile – nel tradurre letteratura di genere, e a maggior ragione letteratura per ragazzi: già che scrivo, tanto vale mettere sul piatto dei giovani lettori una scrittura che, zitta zitta e senza parere, abbia un vago profumo di letteratura. O magari soltanto di “cosa scritta in buon italiano”. Lo faccio sempre e l’ho fatto anche qui. Il che poi significa che di fronte a due scelte ho optato di solito per quella più incisiva o più precisa o più elegante o più idiomatica. O più ancorata alla tradizione letteraria italiana. Prendendomi le libertà del caso. Stiamo dicendo che la traduzione risulta magari, qui e là, “migliore” dell’originale? Mi sa di sì. Aiuto! Lo so, mi sto cacciando in un ginepraio…

L’utilità della distinzione tra scrittura tout court e scrittura per ragazzi viene messa in discussione da Ilaria Piperno (2020)[47]. Ne consegue un approccio traduttivo che non sembra guidato da considerazioni legate alla giovane età del destinatario. La ‘dominante’ dirimente nel trattamento riservato ai riferimenti culturospecifici rimane l’aspirazione a “non rendere spoglio un contesto in originale ricco di citazioni e informazioni […] a renderlo non solo dotto ma ugualmente comunicativo”. La ricerca di soluzioni atte a mantenere il testo “accessibile” non appare tesa a facilitare il giovane lettore, ma ad offrire più genericamente un’esperienza di lettura “che avesse lo stesso ‘effetto Madeleine’ sul lettore italiano”. Interventi più decisi sul testo non sono parimenti ricondotti al genere, ma alla ricerca constante del “giusto peso” evocato dal titolo. Il tema dell’emancipazione, centrale nel romanzo di Heurtier, si fa metafora dell’azione del traduttore, che deve rendersi autonomo dal testo per ricrearlo e creare le condizioni migliori “per non tradire l’originale”. Questa metafora produce una ‘quinta’ strutturalmente originale, che si sposta sapientemente dalla materialità del testo all’intreccio narrativo, dalla scrittura dell’autrice alla riscrittura traduttiva, producendo una riflessione giustamente pesata, come l’esperienza di traduzione da cui emana.

Il compromesso è al centro della riflessione di Paola Cantatore (2021) ed è un compromesso che ci porta al cuore di una delle sfide traduttive maggiori e specifiche della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, generata dal rapporto tra testo e immagini e tipicamente rappresentata dall’albo illustrato. Questa ‘quinta’, strutturalmente riconducibile al modello individuato, presenta un nucleo centrale esemplificativo che occupa buona parte della riflessione, concludendosi con l’auspicio di aver saputo rendere giustizia “a quella fantasmagoria di battute, riferimenti, rimandi e rimbalzi di lingua” che caratterizzano Het grootse en leukste beeldwoordenboek ten wereld, (Il più folle e divertente libro illustrato del mondo di Otto, Modena, Franco Cosimo Panini, 2018) di Tom Schamp.

Alle sfide dell’albo illustrato si affiancano quelle della ritraduzione nella ‘quinta’ di Lisa Topi. Lungo tutta la nota, che si dipana attorno alla ritraduzione di Where the Wild Things Are di Maurice Sendak (Nel paese dei mostri selvaggi, Milano, Adelphi, 2018), il contrappunto tra sfide e soluzioni si snoda su una partitura che mantiene in sottofondo quel “coro indignato” che reclama a gran voce la “ridda selvaggia” di Antonio Porta. Come a dire la responsabilità di chi non solo traduce, ma ri-traduce, muovendosi al cospetto di scelte ratificate da generazioni di lettori, tra la grandezza di Sendak e lo “spirito colto e letterario” della traduzione di Porta, nella quale Topi intravvede tuttavia un “accento didattico” che la spinge, a cinquant’anni dalla pubblicazione dell’albo, pur conscia del calibro di chi l’ha preceduta, a “riportar[n]e a galla la forza nuda e viva”[48] del testo fonte. Le esemplificazioni sono contenute, mentre le considerazioni sulla relazione tra linguaggio verbale ed iconico si arricchiscono di un elemento caro alla riflessione traduttologica sull’albo illustrato, ovvero l’imprescindibile riferimento alla lettura ad alta voce. La sequenza conclusiva, incentrata sulla resa del titolo, o meglio sulla decisione – che Topi si intesta – di non modificare il titolo di Porta, non è motivata dalla semplice volontà di conservare un titolo già noto ai lettori, ma dall’assenza di alternative convincenti, che giustificassero variazioni al titolo con cui tradizionalmente le avventure di Max sono conosciute dal pubblico italiano[49].

La già citata ‘quinta’ di Laura Cangemi (2021) aderisce al modello strutturale individuato, con una solida sezione esemplificativa. Di Mitt storslagna liv (La mia vita dorata da re) di Jenny Jägerfeld Cangemi apprezza il suo essere “umoristico e spiazzante, ma anche profondo, autentico e commovente”. Più generalmente, dell’autrice Cangemi ammira “la naturalezza con cui affronta temi spinosi”. La comicità con cui Jägerfeld li alleggerisce costa fatica al traduttore, e Cangemi ne offre delle interessanti esemplificazioni. Nella ‘quinta’ di Cangemi diventa possibile cogliere il valore che porta alla traduzione della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza lo sguardo di chi – forte di una lunga esperienza nel campo e sul campo – si spende per traghettare parole, ma anche temi, compresi quelli “spinosi”.

Si fatica ad etichettare la ‘quinta’ di Camilla Pieretti (2021), traduttrice di Michael Rosen, autore di un testo (Michael Rosen’s Book of Play; Il libro dei giochi. 101 modi per divertirsi di più nella vita, Milano, Il Saggiatore, 2020) che Pieretti definisce come “una via di mezzo tra un saggio sulla creatività e una guida al gioco per grandi e piccini”. La ‘quinta’ di Pieretti si conforma al modello discorsivo-retorico dominante, con una parte esemplificativa in cui si sofferma sulle risposte date alle sfide poste dal saggio di Rosen. L’originalità del suo contributo risiede in una sorta di introspezione che la porta ad invertire i termini del discorso e a condividere con i lettori delle riflessioni che ci parlano non tanto dell’azione del traduttore sul testo, ma del testo sul traduttore. La relazione qui non tocca le corde della sensibilità del traduttore, come già visto per alcune quinte sopra esaminate, e l’azione del testo e dell’autore sul traduttore ha un sapore che potremmo definire didattico.

Traducendolo ho capito, una volta di più, che la lingua è qualcosa di plastico e mutevole, e che parole e frasi sono come mattoncini di Lego con cui giocare, scomponendoli e ricomponendoli. Non solo: ho imparato a guardarmi attorno con occhi diversi, cercando in ogni cosa uno spunto nuovo, una nuova prospettiva, reinterpretando ciò che vedo (e sento) in chiavi diverse e non soltanto in quella più ovvia. Tra rime, limerick, assonanze, filastrocche, titoli storpiati e vocaboli inventati è stato come sottoporre il mio cervello a intense sessioni di allenamento, che lo lasciavano ogni sera spossato ma sempre più “in forma”. Con il passare delle settimane (e delle sfide linguistiche da affrontare) mi è sembrato che diventasse sempre più elastico, sempre più pronto a rispondere alle mille sollecitazioni a cui veniva sottoposto.

Conclusioni

Dopo aver tratteggiato una prima categorizzazione delle forme dell’epitesto del traduttore, conformemente alla finalità progettuale, esplorativa e non esaustiva di questo contributo, abbiamo scelto di soffermarci su una tipologia che confonde le categorie individuate, la “quinta di copertina”, tipologia eponima della rubrica della rivista tradurre.

Il pur esiguo numero di ‘quinte’ riconducibili alla letteratura per l’infanzia e l’adolescenza risulta interessante per almeno due motivi. Da un lato, queste ‘quinte’ presentano una maggiore dinamicità in termini traduttologici: se si considera l’insieme delle ‘quinte’ che hanno alimentato la rubrica dalla sua inaugurazione, si può notare che alcuni dei grandi temi che attraversano il dibattito traduttologico trovano maggior riscontro ed esemplificazioni nelle riflessioni tratte da esperienze di traduzione di narrativa per l’infanzia e l’adolescenza. Dall’altro, addentrandoci nel dibattito che più precisamente anima la traduttologia per l’infanzia e l’adolescenza, queste ‘quinte’ forniscono dati interessanti rispetto ad alcune questioni ricorrenti (la dibattuta specificità della traduzione per l’infanzia e l’adolescenza; le conseguenze traduttive della controversa letterarietà della narrativa per l’infanzia e l’adolescenza; il ruolo svolto dalla traduzione nella diffusione non solo di autori e di testi, ma di temi) e ad alcune sfide specifiche (la resa dei culturemi; i giochi di parole; il rapporto tra testo e immagini e tra testo e voce nella traduzione degli albi illustrati).

Nello spazio delle poche ‘quinte’ tratte da esperienze di traduzione riconducibili al nostro ambito di interesse, si delineano profili estremamente diversi. Questa eterogeneità può dipendere da un diverso approccio alla traduzione, ma ci sembra soprattutto sintomatica di uno specifico (ancorché non necessariamente deliberato) approccio del traduttore alla letteratura per l’infanzia e l’adolescenza: nel suo essere sottinteso, dibattuto o eluso, il rapporto con le specificità del testo e dei suoi destinatari segna la pratica traduttiva e si riverbera nelle risposte alle sfide del testo.

La concretezza dei dati che si possono desumere da queste riflessioni fanno dello studio del paratesto del traduttore un complemento analitico indispensabile al progresso degli studi sulla traduzione. Nel caso specifico della traduzione per l’infanzia e l’adolescenza contemporanea, il vuoto peritestuale rende l’analisi dell’epitesto fondamentale per poter sottoporre a verifica alcune delle ipotesi che la ricerca ha finora inevitabilmente condotto da una prospettiva parziale, focalizzata sul prodotto a scapito del processo.

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Note

[1] Il riferimento è qui al sottotitolo del volume di Lathey (2010).

[2] A fronte di soluzioni che evitano quanto più possibile l’uso del maschile sovraesteso, vi ricorriamo in alcuni punti del testo per esclusive questioni di leggibilità.

[3] Ci focalizziamo in questo articolo sulla presa di parola del traduttore, sapendo che la ‘scatola nera’ del traduttore è stata ed è anche oggetto dell’attenzione delle studiose e degli studiosi che svolgono le loro ricerche nell’ambito dei Cognitive Translation Studies.

[4] Sulla reinterpretazione in chiave traduttologica e paratestuale dei concetti bourdesiani di habitus e di doxa si rimanda ad Elefante (2012: 36-38). In ottica argomentativa, ci sembra che la nozione di ethos si configuri come ugualmente adatta a rendere conto della postura traduttiva, così come si presenta e si definisce in discorsi paratestuali dai quali emerge un’immagine definita, seppur variamente sfaccettata, del locutore-traduttore.

[5] Cfr. Bramati (2013).

[6] Elefante svolge la sua indagine su un corpus di 200 testi di autori francesi e francofoni, tradotti verso l’italiano. Da un punto di vista cronologico, il corpus di Elefante si estende sino ad includere i primi mesi del 2012, ponendosi come terminus a quo la fine degli anni Settanta, che l’autrice individua come momento caratterizzato da profondi assestamenti del mondo editoriale (2012: 22-23).

[7] Le traducteur traduit (questa la nuova denominazione attribuita al progetto pilota nel momento in cui la direzione dello stesso passa a Charles Bonnot e Sarah Montin) è uno spazio virtuale ([url=http://ttt.hypotheses.org/]http://ttt.hypotheses.org/[/url]) che accoglie testi teorici sulla traduzione. Le lingue coinvolte sono l’inglese e il francese. Il materiale raccolto (prefazioni di traduttori, saggi, corrispondenza) viene tradotto, commentato e contestualizzato. La costituzione di questo corpus bilingue inglese-francese permette di “ripercorrere la nascita e l’evoluzione del pensiero traduttologico, con particolare riguardo per il mondo anglofono” (traduzione nostra, https://ttt.hypotheses.org/a-propos). Non solo dunque esigenza di far emergere queste voci, ma volontà di accrescerne la visibilità, grazie alla creazione di uno spazio virtuale che ne amplifichi la risonanza, in virtù certo dell’immediata accessibilità e condivisione che la Rete consente, ma anche grazie al lavoro di chi, traducendolo, dilata i confini del paratesto traduttivo.

[8] Occorre ricordare, con Lathey, l’adesione di una famosa traduttrice come Anthea Bell alla “school of invisibility” (Lathey 2010: 191-192).

[9] Ricordiamo che il nome di chi traduce deve comparire nel paratesto (generalmente viene collocato nel frontespizio) per obbligo contrattuale.

[10] Tra le eccezioni, menzioniamo Beisler e Camelozampa. Nei siti di queste due case editrici, la scheda di ogni titolo tradotto menziona il nome del traduttore. Inoltre, nelle sezioni “I nostri traduttori” di Beisler (https://www.beisler.it/traduttori/) e ‘Traduttori’ di Camelozampa (https://www.camelozampa.com/bio-category/traduttori/) sono disponibili dei brevi profili delle traduttrici e dei traduttori che hanno collaborato e collaborano con le due case editrici. Nel caso dell’editore Camelozampa, sembra lecito chiedersi se l’attenzione di questo editore per la traduzione e per il traduttore dipenda dalla sensibilità e dalla formazione di Sara Saorin, che dirige le edizioni con Francesca Segato, ma che è anche traduttrice di diversi titoli presenti in catalogo. Più in generale, le edizioni Camelozampa dimostrano un’attenzione non comune alla valorizzazione della traduzione. Vincitrici nel 2017 del bando Creative Europe, che promuove la circolazione di opere in traduzione, le editrici mettono a disposizione di editori e traduttori, nel loro sito, uno spazio pensato per incoraggiare traduzioni in altre lingue dei dieci titoli che Camelozampa ha potuto tradurre verso l’italiano grazie al finanziamento europeo. Nel momento in cui scriviamo, non si registrano scambi in questo spazio deputato all’incontro tra traduttori. Preme comunque segnalare che, qualora questo spazio venisse animato da scambi attorno alle sfide traduttive poste da uno specifico titolo, i contenuti costituirebbero frammenti di un discorso traduttivo di natura epitestuale.

[11] Cercare tracce della voce e della parola del traduttore nel peritesto della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza contemporanea è impresa ardua e solo in pochissimi casi – che possono coincidere con delle ritraduzioni – il testo è accompagnato da brevi prefazioni o postfazioni firmate da chi traduce.

[12] Preme sottolineare che porsi da una prospettiva che esplora il paratesto traduttivo nella letteratura per l’infanzia e l’adolescenza contemporanea non significa ignorare l’importanza di uno studio analitico del paratesto del traduttore nelle prime espressioni della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. 

[13] Dimitriu (2009: 195-201) individua tre ‘funzioni’ riscontrabili nelle prefazioni esaminate (esplicativa; normativo-prescrittiva; informativo-descrittiva). Elefante (2012: 99-110) distingue per tipologie i peritesti esaminati, sottolineando, preliminarmente alla descrizione dei cinque tipi individuati, l’instabilità dei confini tracciati, a causa del sovrapporsi di elementi comuni alle diverse categorie individuate.

[14] “[…] l’épitexte est un ensemble dont la fonction paratextuelle est sans limites précises, et où le commentaire de l’œuvre se diffuse indéfiniment dans un discours biographique, critique ou autre, dont le rapport à l’œuvre est parfois indirect et à la limite indiscernable” (Genette 1978 : 318).

[15] Questa ipotesi tassonomica trova conforto nella distinzione genettiana, interna alla categoria epitestuale autoriale pubblica, tra forme epitestuali spontanee e mediate. Risulta meno feconda, nel caso dell’epitesto traduttivo, l’integrazione di un parametro di tipo diacronico, poiché difficilmente le occasioni temporali dell’epitesto traduttivo possono collocarsi anteriormente alla pubblicazione dell’opera o in concomitanza con la stessa. Il tratto “ultérieur ou tardif” (Genette 1987: 323) si può dunque considerare come intrinseco all’epitesto del traduttore.

[16] Non ci soffermiamo qui sulla differenza tra questi due canali, strutturalmente simili, ma diversi in termini di dinamicità.

[17] L’ipotesi che questi luoghi siano da intendersi principalmente come vetrine sembra parzialmente contraddetta da alcuni dei traduttori menzionati (v. nota 23).

[18] Nei siti di traduttori che operano tra “adulti” e “ragazzi” è ormai frequente separare questi due universi. Ce ne fornisce un esempio anche Michele Piumini (https://www.michelepiumini.com/), traduttore di narrativa, saggistica e musica, con un’ampia esperienza nella traduzione di libri per l’infanzia. Di questa esperienza Piumini rende conto – tramite una semplice elencazione dei numerosi titoli tradotti (64 mentre scriviamo) – in una sezione specifica “Traduzioni Ragazzi” (distinta dalla sezione “Traduzioni Adulti”). La presenza di queste sezioni dedicate sembra portare argomenti a sostegno della specificità di questa traduzione, specificità testimoniata peraltro anche dal moltiplicarsi di percorsi di formazione alla traduzione per l’infanzia (nel momento in cui scriviamo, nel sito di Michele Piumini troviamo in prima pagina il rimando ad un corso online “Tradurre per l’Infanzia”).

[19] “L’unico collegamento che non riesco a capire è la traduzione di Dovetail in Di Maggio… Saresti disponibile a spiegarla? Il lavoro di traduttrice mi incuriosisce molto e sarei proprio felice di saperne di più!” (https://valentinadaniele.com/traduzioni-per-ragazzi/).

[20] Queste poche righe bastano altresì a mettere in discussione, se non a decostruire, lo stereotipo del traduttore che lavora in totale isolamento e che è responsabile di tutte le scelte operate: nella fattispecie, Daniele sottolinea la collegialità delle scelte dei nomi propri nel romanzo di J. K. Rowling, frutto di un lavoro di squadra con la redazione e con il compianto Luigi Spagnol, direttore editoriale di Salani (si rimanda alla sezione 2 di questo numero monografico ed in particolare al resoconto critico a cura di chi scrive).

[21] Traduzione editoriale e appunti sulla traduzione è il ‘sottotitolo’ del blog.

[22] Uscendo dal vincolo della traduzione per l’infanzia e l’adolescenza, segnaliamo che Franca Cavagnoli, nota traduttrice, ma anche scrittrice ed accademica, ha un suo sito (http://www.francacavagnoli.com/), organizzato in diverse sezioni, secondo una suddivisione che ricalca le sue diverse ‘anime’ e al contempo permette di cogliere la centralità della traduzione nella sua produzione: nella sezione “Libri”, la saggistica si compone principalmente di titoli di taglio squisitamente traduttologico; la sezione “Traduzioni” rimanda ad un elenco dei titoli tradotti da Cavagnoli (il modello richiama quello della sezione “Traduzioni” del sito di Milton Knowles, ma sono assenti i ricchi rimandi ipertestuali che in Milton Knowles ampliano quasi a dismisura questa sezione), mentre nella sezione “Ricerca” Cavagnoli rimanda ad articoli e saggi di cui è autrice e che sono principalmente dedicati a riflessioni traduttive e traduttologiche. Questa sezione assume sembianze paratestuali composite: accanto a rimandi ad elementi peritestuali (prefazioni o postfazioni che Cavagnoli ha posto a corredo di alcune sue traduzioni), nell’elenco appaiono riferimenti ad articoli in riviste (talvolta immediatamente consultabili grazie a rimandi ipertestuali) o in volumi miscellanei. Questi articoli, di indubbio taglio accademico e scientifico, ci sembrano potersi configurare anche come espressioni epitestuali, trattandosi di fatto di osservazioni che Cavagnoli trae dalla propria pratica traduttiva, ovvero che traggono spunto ed ispirazione da testi che vengono analizzati in quanto traduzioni, ad opera del traduttore stesso.

[23] Daniele ne parla proprio in questi termini: “L'idea del blog mi è venuta sette o otto anni fa, quando in effetti l'età d'oro dei blog era già passata, soprattutto per avere un posto che fosse una vetrina del mio lavoro e anche un luogo dove lasciare qualche considerazione sulla traduzione in genere”. Il sito di Milton Knowles è invece attivo dal 2019, mentre, nella sua forma attuale, il sito di Piumini è attivo dal 2018 (il traduttore ci dice però che una versione più rudimentale, costruita tramite un’applicazione gratuita, esisteva già dal 2007). Se in Piumini l’idea nasce “quasi per gioco” e stimolata da conoscenze di video-impaginazione, l’idea di fondo, che lo accomuna a Milton Knowles, è quella di fare di questo spazio virtuale, in prima battuta, una sorta di “database” (Piumini) o “portfolio” (Milton Kowles), grazie al quale tenere traccia della propria attività (di traduttore, ma anche di docente di corsi di traduzione nel caso di Piumini). In entrambi i casi, solo in seconda battuta si manifesta la volontà di farne uno “strumento più agile rispetto al CV per farmi conoscere e presentarmi ai miei (potenziali) allievi e agli editori” (Piumini), ovvero “uno strumento rapido per un potenziale committente” (Milton Knowles). Risale al 2019 anche il sito di Franca Cavagnoli, nato dal desiderio della traduttrice di riunire in un unico ‘contenitore’ tutte le informazioni sulla sua sfaccettata attività professionale. Le informazioni fornite in questa nota sono tratte da scambi con i traduttori, avvenuti via mail nell’ottobre del 2022. A tutti i traduttori citati vanno i più sinceri ringraziamenti di chi scrive, per la collaborazione e sempre squisita disponibilità.

[24] La decisione è spesso motivata da un’oggettiva indisponibilità di tempo da dedicare alla stesura di un contributo che riprenda i contenuti della comunicazione.

[25] Da segnalare il caso di figure ibride, rappresentate da accademici che svolgono anche attività di traduttori. Ricordiamo che Translating for Children, indubbiamente uno dei volumi che ha maggiormente contribuito al riconoscimento epistemologico della traduttologia per l’infanzia e l’adolescenza e all’avanzamento delle ricerche in questo ambito, nasce dalle riflessioni di Riitta Oittinen, traduttrice oltre che accademica.

[26] Con rammarico leggiamo nella nota “In chiusura” che la redazione ritiene di non aver saputo “instaurare un dialogo vero con il mondo accademico”: più precisamente, pur avendo potuto contare sulla collaborazione di nomi anche prestigiosi provenienti da questo mondo, la redazione prende atto con dispiacere di non aver saputo “sdoganare l’idea che la separazione fra modo ‘accademico’ e ‘non accademico’ di parlare di traduzione non dovrebbe esistere” (https://rivistatradurre.it/un-saluto/).

[27] Il progetto che sta alla base di questa rubrica fa eco all’iniziativa che portò nel 2004 alla creazione della rivista online N.d.T. La Nota del traduttore e che si dava come obiettivo dichiarato “la visibilità del traduttore letterario nel panorama editoriale”. Oltre a configurarsi, nelle intenzioni della fondatrice, Dora Agrosì, come “microgenere letterario”, le “note” pubblicate dalla rivista costituiscono un altro esempio di presa di parola epitestuale in uno spazio virtuale (https://lanotadeltraduttore.it/it/chi-siamo). La parola del traduttore si esprime nella ‘Nota’, ma in forma mediata la si sente anche nella sezione “Focus” (“L’intervista”) della rivista. Degno di nota l’aggiornamento che porta alla creazione di una nuova Nota del traduttore: “La rubrica storica, La Nota del Traduttore, è stata migliorata e ogni romanzo accoglie due articoli affiancati: nella colonna di sinistra una nota del traduttore e nella colonna di destra una recensione; due punti di vista da parte di due lettori differenti” ([url=https://lanotadeltraduttore.it/it/articoli/editoriali/la-nuova-nota-del-traduttore]https://lanotadeltraduttore.it/it/articoli/editoriali/la-nuova-nota-del-traduttore[/url]). Va da sé che un’analisi approfondita di questo spazio rientra tra gli interessi di chi scrive, ma deve essere oggetto di uno studio dedicato.

[29] La nostra disamina si è di fatto svolta su quarantuno ‘quinte’: nel numero 16 del 2019, la ‘quinta’ di Elisa Tramontin (“Lascia fare al traduttore”) non risulta accessibile.

[30] La lingua dominante di queste ‘quinte’ è l’inglese, ovvero tre delle sei quinte dedicate alla traduzione per l’infanzia e l’adolescenza riportano esperienze di traduzione dall’inglese. Le rimanenti tre danno conto di esperienze di traduzione dal francese, dall’olandese e dallo svedese.

[31] Si potrebbe certamente riconoscere alla rivista la natura di contenitore eminentemente virtuale, dal momento che la versione cartacea non è disponibile per tutti i numeri e di fatto consta di un volume unico, coordinato da Gianfranco Petrillo (2017) e che accoglie una selezione dei contributi pubblicati on line dalla nascita della rivista fino al 2014. La volontà di lasciare una traccia cartacea dei dibattiti e delle riflessioni sulla traduzione che questa rivista ha incoraggiato e accolto viene ribadita nella nota di chiusura: auspicando una sopravvivenza dei contenuti prodotti dalla rivista sotto forma di archivio digitale, la redazione annuncia anche la pubblicazione di un numero cartaceo, a cura di Paola Mazzarelli.

[32] La lunghezza media delle quinte è di circa 4000 caratteri. 

[33] In pochi casi di traduzione collaborativa la ‘quinta’ è scritta a più mani.

[34] Le sole eccezioni sono rappresentate dalle ‘quinte’ di Claudia Zonghetti, Katia De Marco e Marco Fumian, presentati come curatrici/curatori delle opere oggetto delle loro riflessioni.

[35] Nel presentare la rubrica, la redazione afferma di voler aprire questo spazio a “libri tradotti di recente pubblicazione”, scritti nelle lingue più varie, senza limiti di genere (nelle ‘quinte’ pubblicate la narrativa rimane predominante). Non ci è dato sapere se i traduttori che si sono proposti siano stati guidati nella redazione della ‘quinta’ e sarebbe certo interessante sapere se e quali modifiche siano state richieste ed apportate alle proposte giunte in redazione.

[36] Il riferimento è ancora ad Elefante e alla tipologia che identifica come “contestualizzante” (2012: 99-100).

[37] “Una traduttrice che mette becco” è il titolo della ‘quinta’ nella quale Paola Mazzarelli ritorna sulla sua traduzione di Little Town on the Prairie di Laura Ingalls Wilder (Piccola città del West. La casa nella prateria 5, Roma, Gallucci, 2017).

[38] “La scrittura è più che dignitosa (cosa non ovvia nella letteratura di genere). A volte, forse, un po’ ripetitiva. Più ripetitiva nell’edizione americana che in quella italiana, comunque. Come è possibile? Be’, perché sono una traduttrice che mette becco” (Mazzarelli 2017).

[39] Una percentuale importante (circa il 70%) delle ‘quinte’ presenta un segmento introduttivo nel quale vengono presentati l’opera e l’autore. Questa presentazione ha valore di transizione verso il nucleo che abbiamo definito invariante, ovvero in questa breve presentazione il traduttore evidenzia un tratto stilistico o narrativo, che mette rapidamente in relazione con le sfide traduttive sulle quali intende soffermarsi.

[40] Laura Cangemi (2021), nota traduttrice dallo svedese, è all’origine del progetto di traduzione di cui ci parla (Mitt storslagna liv di Jenny Jägerfeld): “Chiunque affianchi alla traduzione lo scouting editoriale sa quanto è grande la soddisfazione che si prova vedendo accolta la propria proposta e, soprattutto, traducendo il libro di cui si è suggerito l’acquisto. Con La mia vita dorata da re è stato un colpo di fulmine: lette le prime cento pagine (meno di un terzo del totale), ho chiamato la direttrice editoriale di Iperborea e le ho detto che doveva comprare quel libro. Cristina Gerosa si è fidata e ha avviato le trattative con l’agente senza nemmeno avere in mano la mia scheda di lettura”.

[41] Il ricorrere delle sequenze che abbiamo definito come invarianti rende la maggior parte delle quinte sovrapponibili ed accomunate da una dominante descrittivo-esplicativa che genera effetti di tipizzazione discorsiva. L’ipotesi di una struttura di fondo, giustificata dall’effettiva presenza di sequenze ricorrenti, configurabili come invarianti, non esclude variazioni (per ampiezza e posizionamento delle singole sequenze).

[42] Nella ‘quinta’ di Marco Fumian (2018), curatore dei racconti di Yan Lianke (Il podestà Liu e altri racconti, Roma, Asiasphere, 2017), dominano sequenze descrittivo-procedurali, che si fanno quasi prescrittive nel momento in cui il traduttore sembra alle prese con la definizione di una sorta di prassi traduttiva, calata certo nella specificità del testo, ma che talvolta se ne allontana e si fa più generale, quasi universale. In particolare, Fumian tratteggia un insieme di pratiche che ritiene propedeutiche all’atto traduttivo ed imprescindibili laddove chi traduce voglia legittimarsi quella “libertà creativa” che “per il traduttore, deve essere […] massima, ma solo se direttamente proporzionale al rigore con cui ha osservato e interpretato il mondo del suo autore”.

[43] Dopo essersi soffermata sui punti critici della sua traduzione di Cuaderno de faros di Jazmina Barrera (Quaderno dei fari, Roma, La Nuova Frontiera, 2021), Federica Niola (2021) elenca una serie di passi che il traduttore deve compiere, tutti introdotti da un impersonale, generalizzante e prescrittivo “bisogna”, che si stempera, in conclusione, nella consapevolezza di un atto in ultima analisi soggettivo e singolare: “‘Bisogna’ per modo di dire, ovviamente. Per dire che io ho fatto così, stavolta”.

[44] Grande ammiratrice di Mihail Sebastian, Maria Luisa Lombardo (2018) ritiene che lo “sforzo extra” che le richiede la traduzione di De două mii de ani… (Da duemila anni, Roma, Fazi, 2018) derivi principalmente dalla “difficoltà emotiva”, ovvero da “quel nodo allo stomaco che si materializza quando bisogna ricreare con la stessa tragicità e lucidità quel terribile e al contempo consolatore sentimento della solitudine ebraica”. Seppure abbia un sapore ed un istinto contestualizzanti e presenti rimandi ad alcune sfide specifiche e alle soluzioni adottate, questa ‘quinta’ rimane fortemente attraversata, sino ad esserne dominata, dal legame emotivo che la traduttrice ha instaurato col testo. Di “difficoltà emotiva” parla altrettanto esplicitamente Alberto Prunetti (2020) a proposito della sua traduzione di Chav Solidarity di D. Hunter (Chav. Solidarietà coatta, Roma, Edizioni Alegre, 2020): sgomberato il campo da difficoltà di tipo linguistico, Prunetti ritiene di poter definire Chav Solidarity come il libro più difficile che abbia mai tradotto per motivi che il traduttore ascrive al forte investimento emotivo, necessario in particolare per rendere una scena di stupro.

[45] Alla sensazione di “paura” di fronte ad un testo che “da subito […] si sgretola in un maelstrom di immagini, di flashback e di flashback nei flashback” (Allione 2019), imponendo alla traduttrice un concreto problema di scelta del tempo verbale adeguato, si somma una difficoltà a suo dire ancora maggiore, causata da un senso più intimo di inadeguatezza (“Che cos’ho in comune io, ragazzina privilegiata, con uno scrittore nero nella Rhodesia di Smith? Come posso, con la mia voce pasciuta, rendere la sua rabbia?”).

[46] Cfr. Bazzocchi (2012).

[47] Nel soffermarsi sulla scrittura di Annelise Heurtier, di cui Piperno ha tradotto La fille d’avril (La ragazza con le scarpe di tela, Roma, Gallucci, 2020), la traduttrice tratteggia Heurtier come un’“autrice che definirei anche per ragazzi – ammettendo che una tale distinzione abbia senso” (Piperno 2020).

[48] “Appena cominciato a tradurre Where the Wild Things Are di Maurice Sendak, un coro indignato che chiedeva indietro la ‘ridda selvaggia’ ha preso a ronzarmi in testa. […] Generazioni di lettori hanno conosciuto il libro fondante il canone della letteratura per ragazzi attraverso la traduzione di Porta, di cui quella ‘ridda’ condensa lo spirito colto e letterario e al cui cospetto la paura può addirittura produrre delle voci” (Topi 2018).

[49] A questo proposito, preme osservare che altre ‘quinte’ si soffermano sulla resa del titolo ed è interessante notare che tutti i traduttori se ne intestino la responsabilità. Il nostro corpus non ci consente certo di trarre conclusioni in questo senso, ma è pur vero che queste affermazioni sembrano contraddire la convinzione che il traduttore non abbia voce in capitolo nella scelta del titolo e che questa scelta sia prerogativa esclusiva dell’editore.

About the author(s)

Mirella Piacentini è docente di Lingua, Linguistica e Traduzione francese presso l’Università di Padova (Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari). All’attività accademica affianca la traduzione di libri per l’infanzia e l’adolescenza. Ha ideato e coordina presso il DiSLL dell’Università di Padova il ciclo di seminari permanenti “Tradurre per l’Infanzia e l’Adolescenza. Incontri per una sfida culturale e professionale”. Per la sua traduzione del romanzo Trop de Chance di Hélène Vignal (it. Troppa Fortuna, Camelopardus, 2011) riceve nel 2012 il premio IBBY (International Board on Books for Young People) come miglior traduttrice per l’Italia. Tra i suoi interessi di ricerca, domina l’attenzione allo studio delle dinamiche traduttive nell’ambito della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. É autrice della monografia Le paradigme culturel au prisme de la traduction pour la jeunesse, (Mantova, Universitas Studiorum, collana ‘Strumenti’, 2020). É membro della SoFT (Société Française de Traductologie), dell’ANRAT (Association Nationale de Recherche et d’Action Théâtrale), del Centro di documentazione e di Ricerca per la didattica della lingua francese nell'Università italiana (Do.Ri.F.) e della Società Universitaria per gli Studi di Lingua e Letteratura Francese (SUSLLF). Collabora con il CETL (Centre Européen de Traduction Littéraire).

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©inTRAlinea & Mirella Piacentini (2023).
"Epitesto e traduzione per l’infanzia e l’adolescenza"
inTRAlinea Special Issue: Tradurre per l’infanzia e l’adolescenza
Edited by: Mirella Piacentini, Roberta Pederzoli & Raffaella Tonin
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2620

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