Un deserto tutto per noi

By Roberto Menin (Università di Bologna, Italy)

©inTRAlinea & Roberto Menin (2019).
"Un deserto tutto per noi"
inTRAlinea Commemorative Issue: Beyond the Romagna Sky
Edited by: Roberto Menin, Gloria Bazzocchi & Chris Rundle
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2455

Le pagine che seguono sono  il frutto di due giornate di studio e spettacolo dedicate a Giovanni Nadiani e tenute a Forlì negli spazi del Museo di San Domenico il 21 e 22 settembre 2017. Per quell’evento utilizzammo il titolo Beyond the Romagna Sky, tratto dal titolo di una raccolta di testi poetici di Nadiani pubblicata nel 2001. Usando l’inglese Nadiani voleva esprimere la pluralità delle lingue, saltando a piè pari la lingua nazionale, l’italiano, che identificava come il codice maggiore, a cui sovrapponeva il minore, le lingue sconfitte, minoritarie, i regioletti, gli idioletti, i rituali del parlato.

Questo numero speciale di Intralinea ospita gli interventi dei partecipanti a quelle emozionanti giornate di rievocazione. Si scoprirà come Nadiani sia stato una figura poliedrica, che ruota attorno al dialetto (romagnolo), ma da lì si alimenta delle relazioni tra le lingue, dei problemi della traduzione letteraria e multimediale, passa alla riflessione sulle forme della poesia e della narrativa breve, nelle performance a teatro e con orchestre jazz. Senza mai dare l’impressione di occuparsi d’altro, Nadiani raccontava in dialetto romagnolo o parlava di traduzione poetica a Turku, si produceva in indimenticabili performance al Teatro Diego Fabbri o assieme al gruppo musicale Faxtet, oppure insegnava traduzione dal tedesco al Dipartimento di Interpretazione e traduzione dell’Università di Bologna, che ha ospitato diversi convegni da lui promossi.

Le ragioni di una coerenza che si alimenta nella diversità, con esiti multiformi, variegati e poliedrici può essere cercata nelle relazioni che seguono, che nella loro polivocità tratteggiano l’immagine dell’uomo, del ricercatore e del poeta. A cominciare da Davide Argnani, poeta e critico, che va al cuore del problema del dialetto. Nadiani non è un cultore che voglia difenderne la purezza contro le evoluzioni della modernità globale, nemmeno come studioso. C’è un bisogno in lui di anti-idillio, dice Argnani, e soprattutto dal destino moderno del dialetto ne esce una lingua nomade, che si mescola ad altri idiomi, alimentata e anche sporcata dai linguaggi specialistici, ma mai cancellata. E c’è anche una forte componente personale, come per tutti coloro che si occupano di un problema che li vede pienamente coinvolti. Le preoccupazioni di Nadiani ruotano attorno alle sorti del dialetto e di chi lo parla, compreso lui stesso. C’è una totale identificazione tra la caducità di quella  lingua che rischiando la sparizione, rischia di cancellare anche il passato di chi è cresciuto con lei, nelle campagne di Faenza. E’ questo vissuto in pericolo, la ferita aperta, che spinge il poeta a farsi traduttore, studioso di altre lingue, a raccontare la sofferenza del quotidiano, ma in dialetto.

Gianfranco Miro Gori, poeta e critico anch’egli, indaga sul lemma dialettale invel (in nessun luogo) nella poesia omonima di Nadiani, da lui tradotta nella variante dialettale di San Mauro Pascoli, e che ritorna in tante composizioni poetiche. Parola modernissima, invel diventa testimonianza per Gori dello spaesamento. La “lingua di sopravvissuti da un'altra era del passato diventa miracolosamente e paradossalmente lingua di apolidi, esuli, senza patria, senza radici se non quelle dialettali.”

Christine Heiss ci conduce su un altro territorio, quello della traduzione multimediale che è terreno di incontro tra la parola e altri sistemi di segni, che approdano al cinema, alla televisione o ai videogiochi. Nadiani ha sondato a lungo la traduzione filmica cercando anche nel cinema le tracce del dialetto e delle sue traduzioni in altre lingue, che studiava con passione, come per il tedesco. Dalle note di Heiss emerge come il dialetto nel cinema è portatore di valori e significati che faticano a varcare i confini e spesso, per le convenzioni attuali del doppiaggio, tendono a essere sacrificati.

In questo e nell’intervento successivo di Irmeli Helin emerge il Nadiani studioso e organizzatore culturale attorno al problema della traduzione del dialetto. Fu promotore e coordinatore del MultiMedia Dialect Translation (MMDT),[1] un forum internazionale che tenne a Forlì due convegni, nel 2007 e nel 2010 e che ha coinvolto e coinvolge ancora studiosi da diversi paesi europei. L’ultimo intervento di Nadiani come relatore fu a Turku nel 2012 e la Helin ricostruisce la pervicace e creativa ricerca di soluzioni all’annoso problema della traduzione di elementi del cosiddetto colorito locale in altre lingue nazionali o in altri dialetti. Come è noto, l’ostacolo principale alla traduzione di elementi dialettali o gergali  è proprio la cooperazione interpretretativa del lettore. Sapendo che si tratta di un’opera tradotta, quindi proveniente da una lingua e da un paese straniero, il lettore accoglie con difficoltà una storia (filmica) della bassa baviera recitata con accenti napoletani o veneziani, perché l’effetto è lo spaesamento. Ne è ben consapevole Nadiani e la Helin ricorda come “spesso il risultato degli sforzi di tradurre il parlato dialettale in un unico dialetto del contesto di arrivo porta “fuori strada, perché il destinatario identifica gli attori con i parlanti del dialetto di arrivo e con i loro contesti di esistenza, cosa che è fuorviante”. Per questa ragione Nadiani proponeva una sorta di ‘lingua artificiale’ formata non da un dialetto ma da diverse parlate regionali, che evitassero l’identificazione parlante=zona di residenza. Oppure era necessario cercare nel contesto linguistico di arrivo di riprodurre le particolarità estranee tramite slang, scelte ritmiche o lessicali substandard. L’importante era comuque ‘salvare’ il portato dialettale nel contesto di arrivo, trovare una soluzione, per quanto straniante suonasse. Nell’ultima parte del suo intervento Helin ricorda un’altra ipotesi che Nadiani negli ultimi tempi difendeva, e che era legata sempre al problema della sopravvivenza dei dialetti e delle lingue delle minoranze. Quest’ultima opzione è una scelta più radicale, che sta avendo diversi riscontri, e cioè la traduzione in dialetto delle opere letterarie della lingua nazionale di riferimento. Il passaggio di valori letterari alti dalla lingua nazionale al dialetto poteva mantenere viva la forza espressiva delle lingue minoritarie, e soprattutto coinvolgeva il lettore in una dimensione di partecipazione critica. In questo caso, il minore (dialetto) era chiamato a rispondere alle sfide estetiche del maggiore (lingua), con la partecipazione del lettore che ne accettava la dimensione di finzione. Immaginare un Torquato Tasso in romagnolo, pur nello straniamento anche comico, non può che costituire una sfida vitale. Esperimenti di questo tipo, tra l’altro in ambito teatrale, ne sono stati fatti con diversi dialetti italiani.

A seguire, Gianni Jasimone, poeta, ricorda in un ciclo di poesie i momenti drammatici della perdita dell’amico, At salut Zvan [Ti saluto, Giovanni], col ricordo personale di Giovanni malato (Le fatiche di Giona) l’invocazione a resistere e il lavoro del lutto e della solitudine di chi resta, che cerca di riprendere la vita. In queste parole, di puro lirismo, si vede quanto Nadiani fosse appassionato combattente capace di entrare nelle corde e negli affetti di molti di coloro che incontrava.

Anche Dante Medina, poeta e critico messicano, ricorda l’amico e ne tesse una laudatio passando in rassegna diverse liriche, cercando in esse la lingua degli angeli, come dice esplicitamente. Riprende anche lui la parola invel (in nessun luogo) diventato simbolo dello spaesamento, ma riesce a darci anche un’immagine della complessità e della densità di Nadiani poeta: “È difficile spiegare la ruvidezza terrena nella tenerezza dei versi di Giovanni Nadiani. Le sue parole tagliano come coltelli, ma hanno petali; sanguinano, ma profumano; feriscono come il piacere amato” (Lo difícil es explicar la rudeza terrenal en la ternura de los versos de Giovanni Nadiani. Cortan como cuchillos, pero tienen pétalos; sangran, pero perfuman; hieren como el placer amado…)

Matthias Politycki, poeta e scrittore tedesco, continua sulla linea del ricordo dell’amico e traduttore, che aveva volto in italiano alcune sue liriche. Tra cui una sulla corsa. E la maratona è al centro del suo intervento. Ricordando così Giovanni maratoneta, la sua tenacia, che lo aveva aiutato nelle fasi più difficili della vita. E Politycki racconta come lui corresse la maratona anche per l’amico malato, finché un crollo fisico e psicologico lo costringe alla resa durante una competizione, mentre l’amico soffriva in ospedale per la corsa della sua vita. La poesia, in questo caso, diventa affettuoso racconto di empatia.

Ai poeti si aggiungono l’irlandese William Wall, quindi Nevio Spadoni che pubblicò il suo primo testo  grazie all’incoraggiamento dell’amico Giovanni e infine Michele Zizzarri che ci dà un saggio straordinario di traduzione in napoletano di liriche di Nadiani, a testimonianza della fecondità e dell’importanza dell’interscambio di esperienze tra dialetti.

Chiude, idealmente questa sezione, l’intervento di Christian Wehlte, collega di Nadiani nella sezione di tedesco del Dipartimento di Interpretazione e Traduzione che ricorda l’incontro tra lui, ricercatore del nord della Germania e Nadiani, un po’ folletto e poeta italiano che aveva tradotto proprio i poeti della sua regione e della sua ‘parlata’, il basso tedesco. Un incontro fatto di acuta osservazione, in cui Giovanni viene ritratto nella passione che aveva per il lavoro, per i suoi studenti e per quello che insegnava: tradurre.

C’è un libro importante di Giovanni Nadiani  che raccoglie i suoi principali interventi critici e da studioso, Un deserto tutto per se. Il titolo era ripreso da una nota di Deleuze e Guattari che commentavano l’importanza, per gli scrittori di comunità linguistiche minoritarie, di scrivere nella loro lingua, “Scrivere come un cane che fa il suo buco, come un topo che scava la sua tana. E, a tal fine, trovare il proprio punto di sotto-sviluppo, un proprio dialetto, un terzo mondo, un deserto tutto per sé.” Questo deserto è il luogo della solitudine, perché ormai il tuo dialetto non lo capisce e non lo parla quasi nessuno, e resti tu, solo. Giovanni se ci ha lasciato qualcosa è anche questa consapevolezza, un deserto tutto per noi.

E nella parte finale dell’happening in sua memoria davanti al Museo di San Domenico,  nel 2017, avevamo voluto far risuonare lo spirito che esce da queste parole di Giovanni Nadiani: “Ciò comporta, come afferma lo scrittore creolo, Édouard Glissant, che si abbandoni il monolinguismo, l’altro grande feticcio del maggiore, che si parli e scriva in presenza di tutte le lingue del mondo.”

Ispirandoci a lui abbiamo deciso di tradurre la sua toccante poesia Ciò nonostante, tratta dalla raccolta Ridente town, in alcune delle lingue presenti nel suo Dipartimento di Traduzione a Forlì, ovvero  in bulgaro, ceco, cinese, francese, giapponese, inglese, portoghese, russo, slovacco, tedesco.

Quelle traduzioni, lette allora sul palco dai rispettivi autori, sono ora raccolte nella Seconda sezione di questo numero monografico di Intralinea. I traduttori sono tutti colleghi di Nadiani, che lo hanno apprezzato e amato sul lavoro, e questo è il loro saluto, quel at salut  così importante nelle lingue minori, nei dialetti, nelle campagne del mondo.

La terza e ultima sezione cerca di dare un’immagine di Nadiani come uomo di spettacolo. E’ stato uno dei coautori della riscrittura di Re Lear in romagnolo, una rivisitazione del dramma elisabettiano con vicende della riviera, tra un ex albergatore caduto in disgrazia e le sue figlie che, tranne una, gli portano via tutto, mentre lui si riduce a barbone. E’ la vicenda di LEARdo e’ RE, scritto a tre mani da Mantegazza, Nadiani e Pizzol e messo in scena dallo stesso Pizzol, un brano di repertorio che vive tutt’ora sui palcosccenici italiani, oltre Imola, Rimini e il ravennate. L’intervento di Pizzol nella terza sezione di questo speciale ricostruisce la genesi ma anche la portata di questo Shakespeare in lingua romagnola.

Infine, non poteva mancare un omaggio musicale che costiuisce un coronamento e anche una sintesi di tutto quello che ho cercato di presentare. Chris Rundle presenta la sua lunga collaborazione con Giovanni Nadiani in ambito blues. Ricorda gli spettacoli in cui si sono esibiti insieme alla sua band, ma ricorda anche l’intreccio e la polivocità di quella collaborazione: il musicista che prende spunto dalla lirica del poeta e ne fa una nuova canzone in inglese, e il poeta che, oltre a salire sulla scena con lui, ritraduce il pezzo blues nella sua lingua. Alla fine il lettore può ascoltare uno dei brani che Rundle ha composto, ispirandosi alla poesia di Giovanni “Arzir”: Johnny’s Blues. Che diventa produzione circolare di testi che si generano a vicenda, lingue che combaciano o divergono, si allontanano e ritornano.

Note

[1] Si vedano le tre Special Issue pubblicate su inTRAlinea che sono frutto di questo progetto: Marano, Nadiani & Rundle (2009); Nadiani & Rundle (2012); Brenner & Helin (2016).

About the author(s)

Roberto Menin è Professore ordinario di Lingua e traduzione tedesca presso il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione dell'Università di Bologna (sede di Forlì). Traduttore di testi di drammaturgia contemporanea di area tedesca si è occupato di traduzione e linguistica testuale.

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