Translation, Adaptation and Transformation: una lettura

Laurence Raw (ed.) (2012)

London-New York, Bloomsbury, (paperback, 220 pagine, coll. “Bloomsbury Advances in Translation”)

Reviewed by: Fabio Regattin

Nell’ultima decina d’anni è andato sviluppandosi – tramite monografie, volumi collettanei, nuove riviste, associazioni scientifiche – un nuovo campo d’indagine, quello degli adaptation studies. Translation, Adaptation and Transformation, curato da Laurence Raw, cerca di fare il punto sulla situazione attuale in un’ottica doppia e per certi versi antitetica: segnalando da un lato la continuità tra questo nuovo ambito di ricerca e i translation studies, così come i benefici di una reciproca contaminazione dei due settori, ma ribadendo dall’altro la sostanziale autonomia degli adaptation studies.[1] Coerentemente con questa visione, il volume raccoglie contributi di studiosi provenienti dai due ambiti e dedica molto spazio a questioni teoriche e definitorie.

Quella che segue è una lettura necessariamente superficiale, e da traduttologo (non sapevo molto degli AS prima di questa incursione), del volume; lettura che non tenta in alcun modo di essere onnicomprensiva o imparziale: segnalerò nelle righe che seguono quelle che spesso sono poco più che impressioni e appunti, che non pretendono ad alcuna esaustività. Per la stessa ragione, dedicherò più spazio ai contributi teorici rispetto agli studi di caso: i primi rivestono ovviamente un grande interesse per un profano, mentre un adaptation scholar navigato potrà forse trarre maggior profitto dai secondi, che costituiscono una migliore interfaccia tra la teoria e le realtà che essa cerca di spiegare. Per parlare del volume seguirò l’ordine di presentazione dei diversi contributi, commentandoli uno a uno e non fornendo un bilancio articolato dopo il riassunto dei contenuti. Per non interrompere il resoconto “nudo” dei temi trattati del volume, sposterò nelle note i commenti personali di maggiori dimensioni.

L’introduzione, firmata dal curatore, spiega la ratio del libro e presenta i vari contributi. Secondo Raw (p. 3), le due discipline riguardano processi fondamentalmente diversi ma interrelati, il cui punto in comune risiederebbe nel ricorso di entrambi i paradigmi al modello del “trasporto attraverso una frontiera” (linguistico-culturale, nel caso della traduzione; non solo linguistico-culturale, ma anche generica o più largamente semiotica, nel caso dell’adattamento).[2] A partire da questo nucleo, è possibile secondo Raw analizzare le differenze tra le due pratiche scomponendole – sulla scorta di quanto proposto in Delabastita 2008 –in tre diversi livelli di realtà relativi più generalmente ai fenomeni discorsivi: quelli dello status, dell’origine e delle caratteristiche (features). Secondo Delabastita (2008: 235; enfasi nell’originale),

in our theoretical models of discourse (“translated” or not) scholars have to make a radical analytical distinction between three dimensions of discursive reality: the status of discursive phenomena (what they are claimed or believed to be in a given cultural community), their origin (the real history of their genesis, as revealed by a diachronically oriented reconstruction) and their features (as revealed by a synchronic analysis, possibly involving comparisons).[3]

Sempre secondo Raw, una strada per negoziare le differenze tra i due ambiti potrebbe passare da un ritorno al concetto di traduzione e adattamento secondo Freud e Piaget (p. 13), che vedono queste due attività come processi basilari attraverso i quali ogni individuo impara a venire a patti con il mondo che lo circonda.

Il primo capitolo (Hugo Vandal-Sirois e Georges Bastin, “Adaptation and appropriation: is there a limit?”, pp. 21-41) si concentra unicamente sull’adattamento linguistico, e prendendo le basi da lavori anteriori di Bastin sul tema (per esempio, Bastin 1993) sembra contribuire a sfumare il confine tra traduzione e adattamento: quest’ultimo viene considerato come una possibile strategia da utilizzare – ed effettivamente utilizzata – da parte di qualsiasi traduttore, per far fronte a varie difficoltà testuali. Il secondo capitolo (Katja Krebs, “Translation and adaptation – two sides of an ideological coin”, pp. 42-53) si occupa di questioni definitorie; i due ambiti vengono opposti sulla base della polarità “sameness” vs. “difference” (p. 44), che separerebbe concettualmente traduzione e adattamento.[4] Più che sottolineare le differenze tra i due ambiti, secondo Krebs i ricercatori dovrebberocercare di cogliere i punti in comune tra processi e prodotti traduttivi e adattativi, e condividere metodologie e approcci. La mia impressione è che questa condivisione avvenga per ora soltanto nella direzione TS > AS, come dimostra anche la collana in cui esce il volume, “Bloomsbury Advances in Translation”. Il terzo capitolo (Cynthia S.K. Tsui, “The authenticity in ‘adaptation’: a theoretical perspective from translation studies”, pp. 54-60) sembra rispondere all’invito di Krebs; partendo dai TS, identifica i punti in comune tra le due attività e insiste sulla necessità di determinare in modo più preciso che cosa costituisca l’unicità dell’adattamento (la convocazione di sistemi semiotici diversi? Il ruolo creativo degli adattatori?). Il quarto capitolo (João Azenha e Marcelo Moreira, “Translation and rewriting: don’t translators ‘adapt’ when they ‘translate’?”, pp. 61-80), un po’ come il primo, si occupa dell’adattamento in traduzione.[5] Traduzione e adattamento vengono visti come momenti complementari dell’operazione traduttiva, e vengono quindi testati su un caso pratico (l’analisi comparativa di una traduzione e di una riscrittura dello stesso testo di partenza, la Canzone dei Nibelunghi); interessante un’espansione sociologica: gli autori notano come, indipendentemente dalle rivendicazioni teoriche, l’etichettatura di un testo come traduzione o come adattamento avvenga molto spesso per ragioni extratestuali, legate al marketing più che alle caratteristiche intrinseche dell’oggetto da definire.

Questo quarto capitolo, che unisce teoria e analisi, fa da cerniera con la seconda parte del volume, che raccoglie una serie di studi di caso. Il capitolo 5 (Tanfer Emin Tunç, “Adapting, translating and transforming: cultural mediation in Ping Chong’s Deshima and Pojagi”, pp. 81-98) analizza il lavoro creativo del drammaturgo e regista sino-canadese Ping Chong, concentrandosi su due suoi lavori. Translating, adapting e transforming sembrano qui essere usati come termini sinonimici (o quantomeno non vengono mai problematizzati) per riferirsi alla mediazione di elementi culturali orientali nelle pièce esaminate. Il sesto capitolo (Jenny Wong, “The transadaptation of Shakespeare’s christian dimension in China’s theatre – To translate, or not to translate?”, pp. 99-111) si occupa dell’adattamento degli aspetti religiosi del Mercante di Venezia in una produzione cinese del testo – adattamento motivato da ragioni ideologiche e dalla necessità di aderire alle norme sociali della cultura target. Il secondo aspetto sembra aprire la via a un altro tipo di adattamento, non esplicitamente citato dall’autrice: quello, darwiniano, dell’organismo all’ambiente – un adattamento necessario perché la sua assenza minaccerebbe la sopravvivenza stessa dell’oggetto culturale nel contesto di accoglienza. Il settimo capitolo (Susan Knutson, “‘Tradaptation’ dans le sens québécois: a word for the future”, pp. 112-122) si concentra su un item lessicale potenzialmente interessante per gli studi sull’adattamento: il termine tradaptation, coniato dal poeta quebecchese Michel Garneau. Nelle parole di Knutson, questa pratica

does permit cultural exchange, but it shapes it, with intentionality and transparence, so that those elements entering into the exchange are visibly and audibly the ones that artists have wished to bring onto the ‘stage’. The other are left by for the occasion (p. 113; enfasi nell’originale).

La tradaptation di un testo teatrale è concepita in funzione del qui e ora della rappresentazione – di una rappresentazione specifica – e destinata a scomparire dopo il momento storico che l’ha originata, lasciando spazio a nuove tradaptations. Il capitolo 8 (Ayelet Kohn e Rachel Weissbrod, “Waltz with Bashir as a case of multidimensional translation”, pp. 123-144) espande il concetto di traduzione in un senso simile a quello proposto da Raw nella sua introduzione. Le due studiose si rifanno a Sigmund Freud (pp. 123-125), secondo il quale la traduzione sarebbe innanzitutto un fenomeno che avviene a livello psichico: sogni, lapsus, feticci, sintomi isterici sarebbero tutti fenomeni traduttivi, in grado di trasformare pensieri astratti in immagini sensoriali. A partire da questo punto di vista, vengono analizzati alcuni processi “traduttivi” presenti sotto forma di sogni e allucinazioni nel film animato Valzer con Bashir. Il nono capitolo (Eirik Frisvold Hanssen e Anna Sofia Rossholm, “The paradoxes of textual fidelity: translation and intertitles in Victor Sjöström’s silent film adaptation of Henrik Ibsen’s Terje Vigen”, pp. 145-161) si sofferma su un poema di Ibsen e sul suo adattamento cinematografico, analizzando la molteplicità di intertesti convocati (non solo il testo del poema, ma anche opere d’arte) in quest’occasione. Interessante lo statuto del testo di Ibsen, “adattabile ma intraducibile” (p. 153): la relativa intercomprensibilità delle lingue scandinave fa sì che le versioni danese e svedese mantengano gli intertitoli norvegesi, che riproducono letteralmente il testo della poesia di Ibsen. Il capitolo 10 (Sarah Artt, “Les liaisons dangereuses à l’anglais: examining traces of ‘european-ness’ in Cruel Intentions, Dangerous Liaisons and Valmont”, pp. 162-170) analizza tre film tratti dalle Liaisons dangereuses di Laclos; vengono trattate sia pratiche adattative (dal testo al film) che traduttive (dal francese all’inglese). Anche il capitolo 11(Kate Eaton, “Turnips or sweet potatoes…?”, pp. 171-187) riunisce le due pratiche: l’autrice ha tradotto due testi del drammaturgo cubano Virgilio Piñera, e racconta il doppio processo di traduzione (interlinguistica e solitaria) e adattamento per la scena (in collaborazione con attori e regista). Similmente a quanto accade nel capitolo 9, anche il dodicesimo (Mike Ingham, “The mind’s ear: imagination, emotions and ideas in the intersemiotic transposition of Housman’s poetry to song”, pp. 188-209) tratta del passaggio da un oggetto poetico ad altro, in questo caso la forma-canzone, focalizzandosi sul modo in cui “the poem texts are transformed by vocalization in terms of repetition, variation, expansion, contraction, dilution, accentuation and colouring of words” (p. 188). L’ultimo testo (Ruth Cherrington, “Cultural adaptation and translation: some thoughts about Chinese students studying in a British university”, pp. 210-217) discute l’auto-adattamento e l’auto-traduzione degli studenti in un contesto linguisticamente e culturalmente distante. La self-adaptation consisterebbe nel tentativo di adattare le proprie conoscenze culturali alla realtà della vita in un paese diverso; la self-translation sarebbe il passo successivo, e consisterebbe nell’apprendere a rispettare le credenze e tradizioni altrui attraverso le competenze apprese grazie alla self-adaptation.

Alcune impressioni sparse, in conclusione, sul volume. Un punto di forza – ma anche una debolezza – è forse l’ampio spettro degli approcci utilizzati. L’adattamento e la traduzione sono messi alla prova in una grande varietà di situazioni, più o meno prototipiche (le trasposizioni cinematografiche dei romanzi, per esempio) o metaforiche (come nel caso del concetto di traduzione e adattamento avanzato da Freud). Sarebbe forse necessario un ulteriore sforzo definitorio, parzialmente tentato nei primi capitoli del volume, al fine di sgomberare il campo da ambiguità e sovrapposizioni, visibili anche nel ristretto corpus dei tredici articoli qui raccolti; e resta l’idea – del tutto personale, ovviamente – che la separazione tra gli AS e i TS sia in qualche modo artificiale, tali e tanti sono i punti in comune tra le due attività e tra i due ambiti di studio. Il rischio (mi si consentirà di citare un’ultima volta Delabastita) è che si tratti di differenze relative al solo status, laddove origin e features sarebbero solo difficilmente distinguibili.

Note

[1] Abbrevierò d’ora in poi i due ambiti con le sigle TS e AS.
[2] Mi sembra che la fallacia della metafora concettuale “la traduzione è un trasporto” sia già stata sottolineata adeguatamente da Andrew Chesterman (per esempio in Chesterman 2001), che la sostituisce con un modello additivo. Tranne rare eccezioni, infatti, una traduzione (e lo stesso vale per l’adattamento) non configura un trasporto di qualcosa, ma piuttosto la creazione di un nuovo oggetto culturale che va ad aggiungersi a quelli preesistenti senza sostituirli.
[3] Delabastita parla qui di singoli testi, e non di tradizioni disciplinari; mi pare che il suo discorso possa tuttavia essere esteso anche a complessi culturali più ampi come un intero ambito di studi.
[4] Si tratta di un modo interessante di analizzare il fenomeno, o almeno il suo status, per dirla con il già citato Delabastita. Mi sembra però che il problema della distinzione tra i due ambiti venga soltanto spostato, e per due ragioni. In primo luogo, manca la possibilità di un accordo oggettivo sui due termini scelti: due osservatori potranno considerare uno stesso oggetto culturale, a seconda del punto di vista adottato, come relativamente same o relativamente different da quello che lo ispira; secondariamente, temo che – accanto ad alcuni oggetti culturali prototipici che saranno definiti senza troppi indugi con uno dei due termini a disposizione – esisterà sempre una vasta zona grigia sulla quale non ci sarà soltanto scarso accordo intersoggettivo, ma anche molta indecisione a livello soggettivo. Due, a mio parere (mi espongo qui al rischio di ripetere cose già dette da altri), le possibili soluzioni. La prima sarebbe una posizione “touryana” che tenga in considerazione solamente lo status di un oggetto culturale: è traduzione ciò che viene definito traduzione, è adattamento ciò che viene definito adattamento. La seconda prende in considerazione un contributo classico di Roman Jakobson (1971[1957]), che distingueva tra la traduzione intralinguistica, la traduzione interlinguistica e la traduzione intersemiotica. Si potrebbe operare un’inversione terminologica interessante: per Jakobson, l’adattamento (così come lo si intende intuitivamente: la trasposizione intersemiotica) era una forma di traduzione; si potrebbe invece considerare l’adattamento come un iperonimo e limitare il termine “traduzione” per una delle sue forme, quella della traduzione interlinguistica, ricorrendo ad “adattamento” per tutti gli altri usi.
[5] Sarebbe forse interessante un punto di vista opposto, quello di un adaptation scholar che trattasse di istanze di traduzione nel contesto di un adattamento…

Riferimenti bibliografici

Bastin, Georges (1993) “La notion d’adaptation en traduction”, in Meta 38(3), 473-478.

Chesterman, Andrew (2001) “Memetics and translation strategies”, in Synapse 5: 1-17, disponibile online su <http://www.helsinki.fi /~chesterm/2000iMemetics.html>.

Delabastita, Dirk (2008) “Status, origin, features: translation and beyond”, in A. Pym, M. Shlesinger, D. Simeoni (eds.), Beyond Descriptive Translation Studies: Investigations in Homage to Gideon Toury, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins, 233-246.

Jakobson, Roman (1971) “On linguistic aspects of translation” [1957], in Selected Writings, The Hague, Mouton.

©inTRAlinea & Fabio Regattin (2015).
[Review] "Translation, Adaptation and Transformation: una lettura", inTRAlinea Vol. 17
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Stable URL: https://www.intralinea.org/reviews/item/2088

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