Multiculturalismo e traduzione:

il caso della letteratura del Québec

By Alessandra Calvani (Università di Urbino)

Abstract

English:

This article begins by providing an introduction to issues related to the concept of multiculturalism, giving and account of the various meanings of the term both with reference to ancient Greek and Roman societies and to the debate in “post-colonial studies”. Drawing on research in comparative literature studies, the article then focuses on three authors from Québec, in whose novels multiculturalism and translation are central concerns.

Italian:

Dopo una prima parte che vuole essere una sorta di introduzione alle questioni che il concetto di multiculturalismo inevitabilmente porta con sè, introduzione nella quale si é cercato anche di dar conto delle diverse accezioni di significato che lo stesso termine riveste in riferimento a civiltà quali quella greca e romana, si passa a considerare la questione in riferimento ai cosiddetti “post-colonial studies”, che hanno fatto del multiculturalismo e della traduzione uno degli argomenti di maggior rilievo all’interno di questo ambito di studi. Partendo dalle considerazioni che vari studiosi di letterature comparate hanno svolto sul tema delicato delle influenze letterarie tra civiltà spesso lontanissime tra loro, passo ad analizzare il caso di tre autori del Québec che hanno saputo fare del multilinguismo e della traduzione in particolare il tema principale dei loro romanzi.

Keywords: multiculturalism, post-colonial studies, comparative literature, quebec, multiculturalismo, studi post coloniali

©inTRAlinea & Alessandra Calvani (2005).
"Multiculturalismo e traduzione: il caso della letteratura del Québec"
inTRAlinea Volumes
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Il multiculturalismo: osservazioni preliminari

Se le parole sono il tentativo di dare concretezza alle visioni del mondo nel quale siamo immersi, ecco che la nascita o l’estinzione di parole e termini nella nostra lingua ci danno anche una prima immagine, quasi un diagramma di quello che la nostra cultura si è trovata di fronte e soprattutto delle questioni che più di altre l’hanno colpita, scossa, stimolata fino al punto da sentire il bisogno di accogliere nel suo interno quella nuova parola che definisca il tanto problematico concetto nuovo. Nel nostro caso, il concetto che ha saputo imporsi nel grande dizionario della nostra storia è quello di “multiculturalismo” e “multilinguismo”, termini questi tanto nuovi da essere citati all’interno del Dizionario del Nuovo Italiano1 con tanto di data di nascita e di presunto autore del neologismo. Sicuramente l’idea dell’esistenza di culture e popoli differenti non può certo dirsi nuova, anzi gli occidentali in generale e gli “italici” in particolare possono ben dire di aver fatto abbastanza indietro nel tempo l’esperienza dell’ “altro” , basti pensare ai vari storici greci o latini che hanno raccontato di vicende e popoli tanto lontani da divenire quasi mitici o anche agli innumerevoli libri di viaggio che popolano le nostre biblioteche, primo fra tutti Il Milione di Marco Polo. Tuttavia la nascita di una nuova parola documenta sempre qualcosa di differente: c’è chiaramente l’apporto di un concetto diverso che viene a fecondare il territorio della cultura già esistente determinando la nuova accezione linguistica, ma c’è chiaramente anche qualcosa in più. Se l’esperienza dell’ “altro” si può dire quasi endemica, essendo connaturata all’atto stesso di nascere da un corpo che non è il nostro, tuttavia l’altro che ci si pone davanti, tutti quegli “altri” rappresentati dal nostro nucleo familiare prima e dai nostri conoscenti poi, diventano parte di ciò che è a noi noto. Il fattore determinante in questo caso è dato prima di tutto dall’aver fatto esperienza di questa alterità, di averne appreso forma, lingua, consuetudini e di essere quindi ormai “abituati” alla presenza di questi altri tanto da essere ben determinati e identificati. Cosa c’è allora di nuovo nel termine multiculturale? L’idea di diversità è sicuramente veicolata, ma possiamo considerarla retaggio del passato, ciò che può dirsi nuovo è l’idea di vicinanza, quasi di contatto con culture diverse dalla nostra, di compresenza di elementi noti, ma anche sconosciuti all’interno dello stesso contesto. Con il termine “multiculturalismo” infatti si vuole indicare “la condizione di chi partecipa a più culture2”, definizione abbastanza chiara e lineare e tuttavia non troppo facile da concepire fino a qualche tempo fa, almeno in Italia. Le nostre categorie di pensiero erano senza dubbio capaci di concepire la diversità culturale che poteva distinguere le popolazioni delle varie nazioni europee, ma non è altrettanto evidente concepire una situazione in cui più culture, estranee l’una all’altra, convivono all’interno della stessa nazione. Si è attratti da ciò che non si conosce, ma si è anche spaventati dall’ignoto e la convivenza all’interno dello stesso stato, della stessa città, con persone provenienti da un altro continente, da un’altra cultura, può costituire motivo di preoccupazione. Il fatto che si sia coniato un termine italiano per definire tale concetto indica senz’altro la presa di coscienza della nuova realtà che si è venuta a costituire, ma anche il bisogno di controllarla, dominarla, di appropriarsene nel modo più antico e quasi istintivo che l’uomo conosce, ossia “nominandola”. Eppure, nonostante oggi il multiculturalismo non sia più l’idea platonica di una realtà non reale, ma sia piuttosto una verità effettiva, nominata e quindi conoscibile, è anche vero che le questioni sollevate da quello che a prima vista sembra solo un termine innocuo sono ancora al centro del dibattito affrontato da numerosi studiosi ed attendono una risposta3. Certo, molti sono i campi di studio che hanno affrontato il tema dell’incontro con l’altro, la letteratura di viaggio è senza dubbio uno di questi, ma certamente anche gli studi sul femminile, l’altro forse più difficilmente riconosciuto come tale, hanno dato il loro contributo. Tuttavia la commistione di culture e gli effetti che tale contatto provoca o può produrre sono stati forse meglio messi in evidenza dagli studi sulla traduzione, mediazione per eccellenza e dai cosiddetti post-colonial studies. E’ strano osservare che tali discipline sono di nascita relativamente recente, quando invece il tema dell’ “altro” ha certamente origini antiche. In particolare molti studiosi dell’antichità greca e latina e non solo, hanno messo in evidenza la grande spinta multiculturale presente nel mondo greco e romano, mostrando inoltre come anche queste culture, considerate in Europa la culla della nostra civiltà, subirono influssi provenienti dal mondo orientale, il che sarebbe dimostrato dall’esistenza di stilemi letterari comuni a tutto il mondo mediterraneo4 nonché dalla presenza di elementi comuni nell’arte e nell’architettura egizie e greche5. Si è spesso parlato della grande capacità dei Romani di assimilare le culture con le quali venivano a contatto senza per questo cancellarle, ma piuttosto adattando alla propria civiltà tutti quegli elementi che ritenevano utile importare, come del resto si è fatto spesso riferimento alla grande spinta sincretistica della cultura greca ellenistica, in particolare con il regno di Alessandro Magno. In effetti, seppure la realtà del grande Impero Macedone prima e quella dell’Impero Romano poi, era certamente multietnica, va anche detto però che la superiorità della cultura greca e romana rispetto a quella dei popoli conquistati non è stata mai veramente messa in discussione dai filosofi o autori appartenenti a tali culture. Se è vero che gli antichi “prescindevano quasi completamente dal colore della pelle nel formarsi un’opinione degli uomini6”, è anche vero che molti filosofi si sono poi cimentati nel fornire spiegazioni razionali che attestassero ineccepibilmente la superiorità greca sui popoli “barbari”, data in qualche caso per scontato. Va in effetti considerato che nell’antichità molte affermazioni che oggi verrebbero sicuramente messe in discussione, erano accettate in quanto dati di fatto; Platone quando descrive il suo modello di stato governato dai filosofi, i quali possono dedicarsi interamente alla cura della cosa pubblica perché non assillati dalla necessità di svolgere lavori manuali, non si chiedeva se la situazione avrebbe potuto essere diversa, ma partiva da tale assunzione per costruire da questa il suo ragionamento, così come sembra abbastanza strano per un lettore contemporaneo leggere in testi greci e romani di schiavi, colti e raffinati, rispettati e perfino amati dai propri “padroni” che tuttavia accettano la loro condizione senza metterla in discussione. Il multiculturalismo dell’antichità va quindi accettato come dato reale ma sicuramente devono esserne evidenziate anche le differenze da ciò che noi associamo oggi al termine. Del resto i Greci definivano βάρβαρος i non appartenenti alla loro cultura, termine dispregiativo, di origine onomatopeica, che voleva indicare il “balbettamento” che era per loro il suono prodotto dai parlanti lingue non greche. Avevano un termine anche per indicare gli stranieri greci, χενος, segno di un bisogno evidente di ulteriore differenziazione tra gli abitanti della Grecia vera e propria e quelli che vennero annessi tramite conquista solo successivamente. La rivalità ed il campanilismo esistente tra le varie città greche è del resto cosa nota, il contrasto tra Sparta e Atene è quasi proverbiale e tuttavia, già nel V secolo a.C., le riflessioni dei filosofi sofisti contengono già quei primi segni di una considerazione della persona che prescinde dalla propria cultura di appartenenza e che si basa invece sul rispetto dell’essere umano in quanto tale7. Non dimentichiamo poi che i primi studi “etnografici” per così dire, possiamo dire risalgano proprio al mondo greco, ad Erodoto in particolare, la cui opera venne presa a modello dagli storici e geografi successivi, avendo egli stesso definito i criteri in base ai quali descrivere popoli diversi dal proprio, fondati essenzialmente sull’osservazione diretta della cultura che si vuole descrivere e sul reperimento di informazioni di prima mano. I racconti di questo tipo ebbero grande successo fino a trasformarsi in un vero genere letterario, con narrazioni che diedero spesso luogo a racconti idealizzanti delle culture osservate, enfatizzando tutte quelle doti ritenute positive dall’osservatore e sentite ormai come estinte nella propria cultura d’appartenenza8. Molti studiosi, in base ad analisi condotte sulle rappresentazioni dell’altro nel mondo greco e romano, desunte dall’ambito letterario, ma anche da quello pittorico e architettonico, hanno visto nel mondo greco e romano appunto una prima realizzazione di quel multiculturalismo che oggi viene ad essere analizzato come segno di modernità. In effetti, nonostante sia innegabile una certa dose di sincretismo culturale all’interno delle culture del mondo antico, tuttavia bisognerebbe considerare la cosa anche da una prospettiva di tipo differente. Se è infatti vero che molti autori latini e greci ebbero modo di fornire realistiche idealizzazioni delle popolazioni “barbare” è anche vero però che nessuno di loro sognò mai di appartenere ad una cultura diversa dalla propria. Le stesse descrizioni di Tacito, se anche non sono avare di lodi nei confronti dei suoi Germani, tuttavia vanno anche contestualizzate e messe in rapporto al bisogno dello scrittore di evidenziare qualità sentite come caratterizzanti i cives del passato, in un processo perverso in base al quale le lodi per i Germani di oggi si trasformano in esaltazione dei cittadini romani di un tempo. Come mette bene in evidenza Francesco Stella, citando un passo da Saggezza straniera di Momigliano, “lo sguardo anche di simpatia dell’etnografo antico… fu uno sguardo freddo, gettato su civiltà straniere dall’alto della propria sicurezza. Non ci fu mai la minima tentazione di cedere ad esse; in effetti, non ci fu alcun desiderio di conoscerle intimamente apprendendo le lingue straniere9” . La vera spinta verso l’universalizzazione delle culture si avrà solo con il cristianesimo e sarà poi durante il Medioevo10 che le popolazioni tribali di origine germanica e le popolazioni stanziate nei territori di quello che era stato l’Impero sperimentarono un’ effettiva convivenza, le cui tracce restano ancora inscritte all’interno di moltissime opere letterarie che registrano miti e stilemi provenienti da tradizioni celtiche o comunque germaniche e nella lingua stessa, la cui storia ha registrato anche la sedimentazione dell’influsso germanico sul latino originario. Se quindi le affermazioni riguardanti il multiculturalismo latino e greco vanno accettate con riserva, tuttavia ciò non implica che non vi siano state influenze di vario genere operanti tra le popolazioni che sono venute a contatto. Il territorio dell’Impero Romano, come pure quello di Alessandro Magno prima di lui era ampiamente esteso. Molti autori latini, che ci hanno lasciato testi scritti in latino, sono in realtà schiavi arrivati per vie traverse a Roma parlanti lingue differenti e di cui spesso non viene messa bene in luce la provenienza: Livio Andronico era uno schiavo greco, Ennio parlava probabilmente l’osco e Terenzio era uno schiavo africano. Come le loro origini abbiano potuto influire sulle loro opere dovrebbe essere meglio indagato, è un fatto però che la società romana, con la conquista della Grecia, rimase a lungo bilingue, come testimoniano anche i ritrovamenti archeologici di biblioteche aventi sia una sezione latina che una greca e come mostrano le particolarità linguistiche di alcune opere letterarie giunte fino a noi e penso immediatamente al Satyricon di Petronio e a quel pastiche linguistico e culturale che è dato dal famosissimo episodio della cena Trimalchionis. Se infatti già Aristofane aveva cercato di caratterizzare linguisticamente alcuni dei suoi personaggi, tentando di riprodurre il dialetto megarese o beota o anche il persiano negli Acarnesi , tuttavia tali rappresentazioni “risentono comunque di un’elaborazione artificiale ed hanno un’incidenza trascurabile, per quantità e per l’importanza dei personaggi interessati11”, mentre la rappresentazione di Trimalchione e dei liberti invitati alla cena costituiscono un unicum all’interno del panorama delle opere latine di quel periodo. La lingua parlata dai liberti infatti mostra un chiaro influsso della loro lingua originaria, presumibilmente il greco a giudicare dai nomi dei personaggi e dalle parole stesse che usano, spesso storpiature di termini greci latinizzati12, senza considerare la confusione e la contaminazione di miti e leggende cui fa spesso riferimento il protagonista dell’episodio13, che al di là dell’effetto comico suscitato sicuramente tra gli invitati latini e i lettori del testo, rendono però meravigliosamente il senso di sradicamento, di confusione e di commistione tra culture tipico di chi partecipa contemporaneamente di due realtà distinte, tanto che sarà lo stesso Encolpio, latino, a subire l’influsso esercitato da quella compresenza di linguaggi nel suo modo di parlare14. L’autore sa perfettamente di suscitare il riso nei suoi lettori, riso che nasce dall’eccentricità di Trimalchione, ma soprattutto dalla diversità dei parlanti i quali nel loro desiderio di essere considerati al pari dei cives latini, cercano, con effetto disastroso, di adeguarsi alla cultura ospitante, non riuscendo però nella loro impresa a causa di quella loro origine non latina che non riescono ad occultare. La superiorità romana sembra uscirne rafforzata ed il ridicolo viene estremizzato quando sarà Encolpio a farsi influenzare dai liberti, possibile frecciata questa alla situazione contemporanea, dove più del valore effettivo della persona erano poi i “sesterzi” a decidere. Al di là dell’intento parodico, comunque, il testo ci fornisce una rappresentazione realistica di quella che doveva essere la vita quotidiana nelle città italiche presumibilmente del periodo neroniano, mettendone in luce con chiarezza le contraddizioni. Ed é davvero sorprendente come la questione del multiculturalismo ellenistico e romano si ripresenti praticamente identica sotto molteplici aspetti oggi, riflessa nell’attuale e dibattuta questione del multiculturalismo degli stati postcoloniali e della loro letteratura. Il problema della lingua, della possibilità o impossibilità di commistione culturale, delle influenze reciproche tra culture o dell’imposizione di una cosiddetta cultura dominante su un’altra messa forzatamente a confronto e giudicata “inferiore”, sono tutte questioni che sembrano riproporsi irrisolte oggi come allora, anche se finalmente esposte e messe a nudo, esaminate con clinica freddezza e dibattute e sarebbe forse utile, alla luce appunto della rinnovata attualità della questione, studiare con la stessa lucidità ed attenzione il problema del “sincretismo” delle grandi civiltà del passato, alla ricerca di fattori che oggi come allora possano aver determinato quella strabordante ricchezza culturale manifesta nelle espressioni artistiche di quelle culture frutto dell’incontro. A tale proposito, tema di particolare interesse é certamente quello legato alla lingua; questione dibattuta e sofferta é infatti certamente stata e lo é tuttora, quella della scelta della lingua in cui esprimersi; mi riferisco a tutti quegli autori, africani ad esempio, che con il processo di colonizzazione si sono anche visti privare del loro naturale mezzo di espressione per subire il segno più evidente dell’appropriazione ossia l’imposizione di un nuovo linguaggio, di un modo diverso di esprimersi: non più il mondo come lo si conosce, ma come altri lo conoscono. La questione é interessante ed é difficile non notare il parallelismo che ancora una volta sembra riproporsi tra antichità ed attualità, tra ieri ed oggi. Non dobbiamo infatti dimenticare che se anche il valore della cultura greca non sia stato certo messo in discussione da parte dei romani, è innegabile l’importanza che l’elemento politico, un tempo come ancora ai giorni nostri, doveva certo avere nel confronto fra culture: scrivere e parlare in latino era già un segno della disparità delle forze in campo. Se la cultura greca poteva essere assimilata, il latino doveva però essere lo strumento di diffusione: il pensiero ellenistico piegato alle esigenze della struttura del latino. Il passaggio da una lingua ad un’altra non è infatti un’operazione lineare come potrebbe sembrare ad un osservatore superficiale e non è un caso se oggi la questione del valore del testo letterario tradotto sia stata riesaminata ed abbia anzi portato alla luce fattori non considerati in passato. Tradurre un testo infatti non è semplicemente un’operazione linguistica ed il valore di una traduzione non può essere stimato in base ad una maggiore o minore aderenza alla lingua del testo originale. Il secolare dibattito che ha visto impegnati traduttori e studiosi nel tentativo di dimostrare, con evidenze più o meno discutibili, quale fosse il sistema più efficace di tradurre, se quindi essere “fedeli” al testo di partenza o se concedersi maggiore libertà nel passaggio da una lingua ad un’altra in nome di una più stretta aderenza al senso dell’originale, può dirsi oggi superato. Il testo di partenza e la relativa traduzione sono due cose diverse a tutti gli effetti, la non equivalenza è un fattore imprescindibile del processo traduttivo, il testo ottenuto va quindi esaminato non in base ad una comparazione superficiale, quanto piuttosto come opera letteraria a tutti gli effetti. Va detto però che la traduzione è un’opera letteraria del tutto particolare perché partecipa costituzionalmente di due culture, quella del testo originale e quella del paese d’arrivo. Il traduttore, strumento del passaggio e nello stesso tempo artefice, è esposto ovviamente a fattori provenienti da civiltà diverse; la traduzione è una terra di confine, le contaminazioni sono inevitabili, è confronto con l’altro nel quale l’alterità viene assunta solo inizialmente come tale per poi appropriarsene e trasformarla in un testo rivolto a nuovi lettori. Questa essenza in qualche modo “dualistica” e allo stesso tempo però sincretistica di due culture in una sola, è stata giustamente messa in rapporto con altri campi di studio. La questione del rapporto con ciò che è altro è infatti centrale in comparatistica, la diversità pone sempre degli interrogativi e può essere analizzata in base alle risposte che i testi letterari hanno saputo registrare al loro interno. E’ chiaro che ogni cultura, ogni letterato, ogni testo ha saputo rispondere alla sfida in maniera differente. Come confrontarsi con l’altro, accettarlo in quanto diverso o assimilarlo, renderlo affine, manipolarlo in funzione dei propri interessi? Sono le stesse domande che molte studiose femministe e molti studiosi di post-colonial si sono trovati di fronte e non è certo un caso se in entrambi questi due campi di studio, il dibattito sulla traduzione è sempre presente all’interno delle varie riflessioni. In particolare le studiose femministe hanno evidenziato nel rapporto tra originale e traduzione il riflesso della contrapposizione gerarchica di maschile e femminile, dove ciò che è originario è maschile e ciò che è derivato, tradotto appunto, è femminile. La sproporzione nella comparazione viene evidenziata del resto dalle stesse espressioni comunemente usate per descrivere le metodologie di traduzione: fedele, che evoca inevitabilmente una determinata connotazione morale positiva nel mondo cattolico occidentale e libera, connotata in senso opposto. La stessa metafora delle belles infidéles rimanda proprio a questa stessa connotazione morale, laddove la bella donna era necessariamente infedele e di conseguenza poco affidabile, questione questa che sarebbe stata messa in relazione con l’apprensione che molti traduttori hanno mostrato nel rivendicare l’originalità del proprio testo, e che è stata definita da alcune studiose come vera e propria “ansia da paternità15”. Simili considerazioni aprono la strada alla possibilità di rapporti di tipo differente non solo tra testo “originale” e “derivato”, ma anche tra culture diverse il cui rapporto è stato in qualche modo caratterizzato da una sorta di gerarchizzazione degli elementi dei due termini a confronto. Se il rapporto con l’altro di tipo maschile è sempre caratterizzato dall’eliminazione, dalla negazione e dall’assimilazione violenta, le studiose femministe teorizzano invece l’esistenza di un approccio femminile all’altro, caratterizzato al contrario dal rispetto e dalla non violenza. Rosemary Arroyo riportando il pensiero della studiosa Hélène Cixous afferma: “The pursuit of a feminine style is also the pursuit of meaning without mediation, free from the constraints of translation, and which could be different from the masculine language we have been taught, a language that translates everything in itself, - understands nothing except in translation, […] listens only to its grammar, and we separated from the things under its orders16”. In realtà, l’analisi condotta dalla Arroyo, mostra come il presunto rapporto non violento della Cixous nei confronti del testo di Lispector, autrice per lei rappresentativa dell’approccio femminile all’altro, nonché di Lispector stessa nei confronti degli altri, risulterebbe nient’altro che una nuova affermazione di quell’approccio “maschile” che voleva negare. Arroyo mette chiaramente in evidenza come Cixous si sia appropriata del testo della scrittrice, fornendone la propria rilettura espropriante e facendo affermare all’autrice ciò che Cixous vuole che dica. Se come dice Felman, l’autorità è una forma di scrittura, questo ne è un chiaro esempio. La disparità di autorità esistente tra le due autrici ha fatto sì che la lettura della Cixous si sia imposta a prescindere dal riscontro effettivo sull’opera della autrice considerata. Se è vero che la scrittrice francese ha identificato in Clarice Lispector il suo lacaniano subject presumed to know è anche vero che poi ha deciso di costruire il suo rapporto con lei sulla base di una appropriazione violenta; del resto la teoria lacaniana in questione implica non solo amore, ma anche volontà di possesso.

Quanto avvenuto tra le due autrici può essere assunto come lo specchio del rapporto spesso ampiamente sbilanciato esistente tra culture occidentali colonizzatrici e culture colonizzate. Non a caso l’appropriazione di un testo in traduzione come anche la lettura tesa all’appropriazione viene spesso indicata facendo ricorso proprio all’uso di metafore provenienti dal mondo coloniale. Il legame esistente tra traduzione e post-colonial studies è stato spesso messo in evidenza. In particolare, Maria Tymoczko17 ritiene sia possibile studiare i testi e gli autori postcoloniali alla luce degli studi condotti in ambito traduttivo. Entrambi i campi di studio infatti presentano affinità notevoli sotto vari punti di vista: gli autori postcoloniali ad esempio come pure i traduttori cercano di trasportare la propria cultura in un contesto differente e durante il processo di trasposizione subiscono condizionamenti provenienti sia dalla cultura d’appartenenza che da quella ricevente. E’ infatti evidente come sia impossibile, per il testo tradotto nei confronti dell’originale e per l’autore postcoloniale nei confronti della propria cultura, veicolare tutti gli elementi ad essa relativi. Si impone quindi una scelta, scelta che non è certo indolore né esente da condizionamenti e non è forse da sottovalutare il fatto che molti autori postcoloniali scelgano appunto di allontanarsi dalla propria terra d’origine per vivere all’estero, quasi che l’allontanamento gli consenta una visuale più nitida ed una prospettiva più ampia dalla quale osservare. A questo punto è facile contrapporre due punti di vista opposti della questione: molti studiosi postcoloniali hanno messo in evidenza la totale impossibilità da parte delle popolazioni colonizzate di compiere scelte di qualunque tipo; Said18 mostra come non sia possibile parlare di romanzi tra ‘800 e ‘900 prescindendo da fattori quali imperialismo e colonizzazione e come la rappresentazione delle popolazioni da colonizzare sia volta a riprodurre stereotipi volti a giustificare le azioni di conquista europee. Da questo punto di vista, possiamo certo dire che gli europei hanno scelto cosa veicolare delle culture colonizzate, ma non si può dire altrettanto delle culture rappresentate. In particolare Spivak19 sottolinea l’incapacità dei colonizzatori di ascoltare la voce dei gruppi subalterni, una voce costituita per lo più da silenzi che i dominatori non sanno interpretare o che vengono fraintesi, silenzio stranamente caratterizzante anche buona parte delle rappresentazioni femminili in letteratura . Lo studioso africano Chinua Achebe, notava come in Heart of Darkness, opera considerata dalla critica occidentale come un segnale di condanna dell’espansione coloniale, “gli indigeni africani non parlano mai, e appaiono quindi incapaci di articolare un linguaggio complesso20”, così come il critico Said affermava che se anche la critica ci fosse, questa resta pur sempre inserita all’interno del punto di vista occidentale, che non vede alternativa all’occupazione coloniale che non sia quella del caos, dell’oscurità e delle tenebre. Eppure secondo altri studi critici, quegli stessi fraintendimenti determinanti incomprensione e avvertiti come in qualche modo legittimanti le operazioni di conquista, non possono essere evitati nell’incontro/scontro tra culture differenti ed anzi possono essere stimolanti e fecondi per entrambe le culture. La comparatista cinese Yue Daiyun notava come in realtà, quando due elementi diversi vengono in contatto, non si ha semplicemente la riproduzione di caratteristiche del primo elemento da parte del secondo, ma piuttosto si procede ad una “scelta” di quelle caratteristiche del primo elemento che la cultura ricevente ritiene assimilabili, operazione questa inevitabile in quanto i soggetti appartenenti alle diverse culture, pur entrando in contatto, non smetteranno di percepire ed osservare gli elementi dal loro punto di vista, rifiutando quindi ciò che gli è totalmente estraneo. In particolare, riferendosi alla realtà cinese afferma: “Per esempio oggi la cultura cinese che entra nel terreno della cultura straniera viene a sua volta filtrata, restando modificata grazie anche ai misreading e alle interpretazioni forzate; nel contempo la cultura straniera entrando nel campo della cultura cinese è soggetta alle scelte di quest’ultima e muta alla luce del modo cinese d’interpretarla. In realtà, storicamente, ogni cultura può assorbire e trarre beneficio da tutte le altre soltanto attraverso tali scelte, misreading, interpretazioni esagerate e cambiamenti21”. A questo proposito André Lefevere notava, come la traduzione si riveli di fondamentale importanza nel dare una prima immagine, forse approssimativa, ma sicuramente realistica, della visione che le culture hanno dell’altro e parlando della Cina affermava che non è certo un caso se all’interno di tale cultura si siano sviluppate strategie traduttive solo tre volte nel corso della sua storia. Tale dato di fatto affermava “says something about the image of the Other dominant in Chinese civilisation, namely that the Other was not considered very important22”.

In effetti, le affermazioni della studiosa cinese sono sicuramente interessanti ed aprono nuove prospettive di studio, ma mettono anche in luce il relativismo culturale di tali considerazioni. Se è vero che l’incontro con l’altro produce sempre fraintendimenti è anche vero che la rielaborazione di tali misreading da parte delle differenti culture dipende anche dalla posizione che le stesse occupano nella fase di confronto. Un dialogo è tale quando i parlanti sono fondamentalmente equiparati nella loro possibilità di ascoltare e parlare a loro volta, situazione questa determinata appunto dalla fondamentale condizione paritaria tra i due interlocutori, bisognerebbe però domandarsi se tale condizione sia veramente così scontata come sembra e se abbia caratterizzato immancabilmente il contatto tra culture.

Il confronto tra culture: dal Giappone di Kojima Usui, all’India

Come abbiamo visto, le affermazioni della comparatista cinese Yue Daiyun hanno sollevato interrogativi interessanti cui è possibile rispondere solamente a partire da ulteriori precisazioni in merito. Se è vero che il confronto provoca sempre cambiamenti e se tali cambiamenti sono frutto della scelta di determinati elementi rispetto ad altri, è anche vero che ciò è possibile solo nel caso in cui sia effettivamente uno scambio quello che si sta svolgendo fra le civiltà in questione. Nel caso di culture come quella cinese o anche araba e giapponese è senza dubbio un dialogo quello che ha avuto luogo, ma ciò è stato possibile grazie al livello culturale raggiunto da tali culture, sentito già come forte al momento dell’incontro, con una tradizione scritta alle spalle e con una loro codificazione di norme e generi letterari che le rendeva di per sé rispettabile agli occhi del mondo occidentale. Tale atteggiamento lo vediamo riflesso anche nel contegno che gli appartenenti alle rispettive culture mostravano l’uno verso l’altro. Gli occidentali hanno sempre considerato la loro cultura superiore rispetto a quella delle altre parti del mondo e come tale appare rappresentata nei romanzi che documentano l’incontro tra colonizzatori e colonizzati. Non così per quanto riguarda il contatto con il mondo orientale. Seppure gli europei si sono presentati al loro primo incontro come portatori di civiltà, si avverte tuttavia in molti resoconti dell’epoca un certo disagio provocato dalla frustrazione di aspettative disattese. Non ci volle molto a riconoscere nell’altro l’elaborazione di un complesso sistema culturale, riconoscibile in una tradizione scritta, al pari della nostra, senza dubbio diversa e per questo guardata con sospetto. Del resto una certa dose di diffidenza era senza dubbio presente da entrambe le parti, segno questo, per quanto possa sembrare strano, di una certa somiglianza, almeno di atteggiamento, verso ciò che é estraneo. In una situazione del genere è certo possibile una “scelta”. Per quanto oriente e occidente abbiano spesso dato prova di scarsa capacità ricettiva l’uno nei confronti dell’altro, tuttavia il passaggio di qualche elemento è inevitabile, seppure “filtrato” dalle esigenze dei riceventi. E’ il caso ad esempio del Giappone e della nascita del nuovo genere letterario che aveva per tema la descrizione realistica di paesaggi montani. La suggestione romantica provocata dalla descrizione dei paesaggi alpini, l’esaltazione del senso di vertigine nato dalla contemplazione di cime innevate, di precipizi, della forza della natura in genere, ma anche di quella dell’uomo, capace di sfidare la natura fino a raggiungerne le vette più inaccessibili, giunsero anche nel paese del Sol Levante. Il banchiere giapponese Kojima Usui, entusiasta del mondo occidentale e desideroso di farne conoscenza, fu insieme protagonista e artefice della creazione letteraria di quelle che vennero rinominate le “Alpi giapponesi23”. In questo caso, l’amore per i paesaggi alpini venne comunicato allo scrittore giapponese niente meno che dalla lettura di Byron, che tante volte aveva saputo suggestionare i suoi lettori evocando i paesaggi montani a lui ben noti ma anche dalla lettura del testo Nihon Fûkei Ron del giapponese Shiga Shigetaka con acclusa una particolare appendice contenente oltre ad una sorta di “guida” alla montagna in genere, anche una serie di prime rudimentali nozioni di alpinismo, testo tra l’altro nato dal vero e proprio plagio dello scritto di William Gowland24, Handbook for Travellers in Japan e da Art of Travel, di Sir Francis Galton, cosa questa appresa con sdegno da Usui, il quale la riteneva opera originale dello scrittore giapponese. Già da tale reazione, è evidente come Usui non voglia semplicemente prendere immagini europee per trasportarle nel suo paese, ma voglia invece elaborare una letteratura tutta giapponese sul tema. La spinta decisiva in tal senso gli venne dall’incontro con Walter Weston, autore di Mountaineering and Exploration in the Japanese Alps e membro dell’ Alpine Club, che lo introdusse all’alpinismo e alla sua storia, illustrandogli inoltre le varie attività legate appunto al Club di cui faceva parte. Tuttavia, la nascita dell’ Alpine Club Sangakukai di Tokyo, avvenuta su sua iniziativa, non voleva essere semplicemente imitazione dei clubs inglesi. Ciò che più lo affascinava era costituire luoghi d’incontro dove poter discutere sul tema a lui caro delle montagne in rapporto all’uomo. Alcuni critici hanno letto la nascita del nuovo genere letterario come segno dell’intromissione dell’Occidente in Giappone e come marca dello strapotere occidentale. In realtà, seppure il genere letterario come tale è sicuramente una novità per questa nazione, tuttavia il tema non può certo ritenersi estraneo alla cultura nipponica. La natura ha sempre avuto un posto di prim’ordine nella letteratura giapponese, le montagne furono luogo di culto fin dal periodo Jomon, luogo in cui seppellire i propri cari, dimora di divinità guardiane e protettrici. Se anche i paesaggi descritti nella letteratura tradizionale non sono mai realistici, ma descrivono piuttosto luoghi interiori ed i componimenti sono volti ad esemplificare la perfezione condensata in poche parole, tuttavia è la scelta del tema che va sottolineata. La natura come luogo di perfezione e di bellezza può certamente essere l’elemento comune ai due mondi; Usui ha scoperto, nella letteratura occidentale, un modo diverso di veicolare quella stessa idea di base. L’elemento poi di “sfida” che Byron ha così ben descritto, lo scalare le vette come metafora della capacità dell’uomo di superare qualsiasi avversità grazie alla sola forza di volontà, non possono certo essere avvertite come estranee al Giappone, terra di samurai, che legavano la loro esistenza al rispetto di norme comportamentali estremamente rigorose e che concepivano il proprio onore come l’elemento centrale della loro vita: accettare la sfida senza paura era la norma per un samurai, capace di infliggersi la morte pur di conservare il proprio onore. Il grande merito di Kojima Usui dunque, non é semplicemente quello di aver saputo comunicare al Giappone il modo europeo di percepire la montagna, ma quello di aver creato, a partire dal genere tradizionale della kikobun, letteratura di viaggio, un genere letterario nuovo, quello della sangaku kikobun o bungaku, la letteratura alpina appunto, innovando a tale scopo lo stesso linguaggio scritto. Come afferma Fujioka, “When new perceptions are nurtured and ready to be channeled into a new form of literature, here has to be a new language that is equally free from old literary styles25”, affermazione questa che suggerirebbe inoltre la sua vicinanza, se non appartenenza, al movimento letterario genbun itchi26, evidenziato da quella che é vera e propria sperimentazione linguistica e dalla ricerca di uno stile nuovo, che colmasse la mancanza di espressioni che potessero dare rappresentazione di luci e colori27. Alcuni critici e Kenneth R. Ireland28 in particolare, hanno evidenziato una sorta di “westonizzazione” del Giappone all’interno della quale la funzione di Kojima Usui sembra non trovare spazio. E’ Nobuko Fujioka ad evidenziare la questione chiedendosi appunto se la “westonizzazione” giapponese non sia piuttosto il frutto della creazione del mito di Weston da parte di Usui e l’affermazione di Usui riportata in citazione sembra appunto guidarci verso tale soluzione se appunto affermava: “Indeed it was Weston that introduced the Japanese Alps to the Japanese people; we definetely owe him a great deal for that. Yet, at the same time I think I can say that I myself played a considerable part by introducing him to the Japanese29”.

Se quindi, la vicenda di Usui e delle Japanese Alps può essere vista come esemplificazione del caso in cui l’incontro ha certamente provocato il cambiamento, va anche evidenziata la forte volontà del cambiamento, deciso dagli appartenenti stessi alla cultura che hanno accettato e scelto quali elementi ricevere. Non così nell’incontro tra occidentali e popolazioni africane o americane. La storia della colonizzazione delle Americhe o anche del continente africano è a tutti nota. E’ evidente come in questo caso, seppure il dialogo fosse una delle possibilità che si presentavano ai colonizzatori al momento dell’incontro con le popolazioni locali, pure sappiamo che questa possibilità rimase appunto tale. La profonda disomogeneità delle culture che si sono trovate a contatto ha determinato la prevaricazione dell’una sull’altra ed il dialogo è stato ridotto all’affermazione occidentale che non contemplava possibilità di replica da parte delle popolazioni locali. In una situazione del genere è davvero difficile ritenere che la deportazione di popolazioni intere, la loro condizione di servaggio, la scomparsa e l’eliminazione delle loro tradizioni per lo più trasmesse oralmente, possa essere stato veramente il frutto di una scelta, che non sia l’unica possibile, ossia quella occidentale30. E’ chiaro quindi che in un campo di studi così vasto come quello riguardante il rapporto con l’ “altro” in genere è necessario precisare di volta in volta la situazione alla quale si fa riferimento. Lo stesso problema è stato affrontato anche da quella vasta area di studi denominata appunto studi postcoloniali31, che del modo in cui si è sviluppato l’incontro tra gli europei e le culture colonizzate hanno fatto il tema principale della loro ricerca. In particolare negli anni ’70 si usava il termine in riferimento a tutte quelle aree geopolitiche che erano riuscite ad ottenere l’emancipazione e l’autonomia dai vincoli coloniali dopo la seconda guerra mondiale. Più recentemente, la definizione è stata estesa a tutte quelle produzioni artistiche provenienti appunto dai territori un tempo colonizzati. In realtà, oggi molti studiosi postcoloniali sembrano affrontare la questione da un altro punto di vista: non più rintracciare all’interno delle opere letterarie occidentali le prove delle loro colpe, ma piuttosto analizzare la situazione presente per cercare di individuare un cammino da percorrere e fare un po’ il punto della situazione. Spivak afferma senza mezzi termini che “la fase postcoloniale, quella cioè più direttamente legata ai processi di reazione delle culture altre nei confronti della colonizzazione32” è ormai terminata. Oggi si assisterebbe ad una fase successiva, quella in cui la cultura occidentale condiziona ancora fortemente le popolazioni soggette alla sua influenza, ma dove forse ancora più forte e caratterizzante è il processo di “creolizzazione” cui sono soggette tutte le aree che hanno vissuto il fenomeno della colonizzazione. Se esaminiamo la cosa dal punto di vista linguistico, la questione diventa forse più chiara. In ambito postcoloniale possiamo infatti riconoscere tre diversi gruppi linguistici: i monoglossici, parlanti una sola lingua, i diglossici, essenzialmente bilingui ed i poliglossici, dove convivono all’interno dello stesso gruppo più lingue il cui contatto provoca mutamenti continui. Nel primo caso è evidente che non esiste un vero problema in quanto la popolazione non deve scegliere quale lingua utilizzare, la scelta è obbligata.  La questione si fa più complessa nelle comunità bilingui o addirittura poliglossiche. La scelta del linguaggio in cui esprimersi porta infatti con sé implicazioni di varia natura. Gli autori appartenenti a tali comunità hanno risposto in maniera diversa alla questione, evidenziando problematiche di difficile soluzione. Lo scrittore nigeriano Chinua Achebe ad esempio, riflettendo sulla possibilità di scrivere in un’altra lingua che non sia l’inglese, ha affermato: “Per me non esiste scelta. Mi è stata data questa lingua ed è mia intenzione utilizzarla. […] Dovrà essere però un nuovo inglese, in totale comunicazione col contesto dei suoi antenati, ma mutato per poter corrispondere al contesto africano33”, mentre il keniota Ngugi Wa Thiong’o afferma la necessità di scrivere nella propria lingua natia, essendo il linguaggio espressione della propria cultura, ad essa inscindibilmente legata. Scrivere in inglese sarebbe, in questo caso, tradire la civiltà cui si appartiene. La questione ovviamente si ripropone identica in India. Sono molti gli autori indiani criticati per aver usato l’inglese nei loro lavori letterari. In realtà, come mette bene in evidenza Prasad34, l’inglese utilizzato dagli scrittori indiani è un inglese di tipo diverso, è Indish, come lo ha definito Khushwant Singh. Il fattore determinante in tale contesto non è tanto lo scrivere in inglese, ma il trasformare il linguaggio per permettere di veicolare attraverso di esso la cultura e la tradizione indiana. Le strategie coinvolte nel processo sono le stesse utilizzate già da qualsiasi traduttore e del resto sono gli stessi autori indiani a metterlo in evidenza. Salman Rushdie ad esempio ha affermato che gli Indiani sono “translated men” e che tradurre non significa solo perdere qualcosa, ma anche acquisire qualcosa. Lo stesso concetto era stato esposto in precedenza dallo scrittore Raja Rao il quale affermava che le difficoltà affrontate da uno scrittore Indiano nello scrivere un testo, sono le stesse che deve affrontare un traduttore. In effetti, la particolarità di questi autori non è appunto quella di scrivere in inglese quanto quella di creare una loro lingua, che possa essere riconosciuta dal mondo anglosassone come inglese a tutti gli effetti e quindi compresa in linea generale, ma che nello stesso tempo venga avvertita da quegli stessi parlanti inglesi come “strana” o per strutturazione del periodo o per i termini utilizzati35. Rushdie ad esempio utilizza spesso termini Urdu all’interno dei propri romanzi, Raja Rao invece crea calchi dall’indiano o utilizza nomi propri o anche espressioni usate nel rivolgersi agli altri che non sono quelle inglesi, ma sono quelle indiane tradotte; Mulk Raj Anand dichiara di scrivere i propri testi traducendo direttamente dal Punjabi in inglese. In realtà l’analisi dei testi di questi scrittori mostrano come la costruzione delle frasi in inglese non sia veramente una traduzione dai vari dialetti indiani, ma sia piuttosto il tentativo, perfettamente riuscito nella maggior parte dei casi, di far apparire il testo come fosse una traduzione dall’indiano, cosa che in realtà non é. Prasad, attraverso l’analisi di singoli brani estratti da vari romanzi degli autori considerati evidenzia le strategie utilizzate da tali scrittori per raggiungere il loro scopo: l’inglese impiegato nei loro testi non solo non è quello parlato dagli Inglesi, ma non è nemmeno quello parlato dagli Indiani. Attraverso l’utilizzazione di strategie traduttive come il calco o l’importazione di termini dalla lingua originale gli autori riescono a comunicare al lettore la loro non appartenenza alla cultura che impiega la lingua nella quale pure scrivono. Non solo, ma l’utilizzazione di strane costruzioni sintattiche o di termini incomprensibili ha lo scopo di rendere difficile la lettura per il parlante inglese, il quale è costretto a notare l’ “ibridismo” del linguaggio usato e a prendere coscienza della “creolizzazione” delle culture imposta dalla colonizzazione, creolizzazione evidente anche nelle creazioni linguistiche utilizzate che non sono sempre le stesse, ma sono piuttosto “text-specific36” cambiando di volta in volta. In realtà i testi in questione, così come i loro autori, appaiono sospesi tra due culture: non è l’appartenenza all’una o all’altra civiltà che stanno cercando di ribadire, quanto piuttosto la ricerca di un loro spazio, ugualmente lontano dalla cultura del colonizzato come da quella del colonizzatore. E’ quello che molti studiosi, tra cui Mehrez e Bhabha, hanno definito come spazio “in between”. Entrambi gli studiosi definiscono tali luoghi come spazi di libertà nei quali i parlanti bilingui possono trovare un modo d’esprimersi libero sia dalle costrizioni della propria tradizione che da quella acquisita37. Sono spazi di frontiera per definizione, dove le contaminazioni non vengono recepite come tali ma si sviluppano spontaneamente come forma d’espressione di un’identità che nasce già come partecipe di più identità, meticcia per definizione. E non è un caso se in una situazione del genere, tanto posto ha avuto il discorso sulla traduzione, luogo d’incontro ed anche strumento prediletto per la creazione di ibridismi linguistici. Fin dai tempi più remoti, la traduzione ha avuto spesso il compito di arricchire la lingua della cultura d’arrivo grazie all’importazione di nuovi termini, figure retoriche o anche generi letterari. Maria Tymoczko38 ha addirittura definito la traduzione e la letteratura postcoloniale come “sovversive”, in quanto spesso utilizzate per sovvertire le norme del sistema letterario d’appartenenza. Da notare come pure il termine “originale” riferito ad entrambi i contesti, quello traduttivo e quello postcoloniale viene ad assumere varie connotazioni insieme. Se infatti la questione dell’origine è stata affrontata dagli studiosi di entrambi i settori nel tentativo di assegnare un’identità definita a ciò che è indefinito per natura, notiamo pure come il termine “originale” viene spesso utilizzato col significato di “particolare” o anche di “nuovo”. In effetti è ciò che sia la traduzione che la letteratura postcoloniale sono, qualcosa di nuovo, di diverso, nato però da qualcosa di anteriore. Sono testi vecchi e nuovi allo stesso tempo, che sembrano nascere dalla morte del testo precedente per risorgere con quella forza nuova che il passaggio da uno stadio all’altro porta con sé. Del resto la trasposizione è fondamentale in entrambi questi contesti come già lo era nella sua rappresentazione letteraria più ovvia, nella letteratura di viaggio appunto. Domenico Nucera sottolineava come già il termine “partire” contenesse in sé una certa ambiguità semantica dovuta all’etimologia latina del termine che lo riporta alla parola latina pars, parte, che veicola quindi anche l’idea del distacco e della morte appunto, ma anche al verbo parere, partorire. La stessa idea del dolore e della sofferenza si ritrova anche nell’inglese travel che riporterebbe al termine italiano travaglio che esprime anch’esso l’idea della sofferenza. Un viaggio però contempla sempre anche il ritorno che può essere una meta reale o idealizzata, un luogo materiale o tutto interiore, ma che comunque viene sempre considerato come lo scopo del viaggio, “ma naturalmente […] non si torna per ritrovarsi nella stessa situazione di prima. Si parte per cambiare, per rinnovarsi, ci si allontana dalle proprie abitudini per far morire una parte di sé e allo stesso tempo per permettere alla nuova di nascere39”.

La categoria del viaggio quindi, del passaggio da una cultura all’altra, da una lingua all’altra, può dirsi appartenente a tutte e tre le aree di studio di cui abbiamo parlato, ma solo gli scrittori bilingui hanno saputo inscrivere l’idea del passaggio all’interno dello spazio linguistico stesso.  I loro testi non sono semplicemente traslati, ma sono traslazione essi stessi. In questo caso è forse utile ricorrere all’espressione del sanscrito usata per indicare il termine “traduzione”. Come fanno notare Trivedi e la Bassnett, anuvad, è il termine usato, termine che però letteralmente significa “saying after or again, repeating by way of explanation, […], explanatory reference to anything already said40”. L’idea di base non é legata ad un passaggio nello spazio, come l’etimologia latina del termine “traduzione” indica, ma è piuttosto legata ad un passaggio nel tempo, un dire dopo, che non esclude quindi le imitazioni o i rifacimenti. Non c’è l’idea del passaggio come viaggio e quindi anche come morte in funzione di una rinascita, quanto piuttosto quella della reincarnazione, tipica della cultura indiana. Considerando la traduzione da questo punto di vista, si vede bene come per gli scrittori postcoloniali, non sia semplicemente una questione legata alla trasposizione di determinate opere letterarie, ma sia piuttosto l’essenza del loro esprimersi. Se è vero che l’uomo non fa altro che tradurre fin dalla sua nascita, la situazione mostra tutta la sua veridicità e si arricchisce di nuove sfumature nel caso degli scrittori bilingui, immersi da sempre all’interno di due culture, parlanti lingue diverse l’una dall’altra. L’ibridismo è caratteristica di tutti gli stati postcoloniali, il loro linguaggio, la loro stessa identità è composita. A tale proposito Bhabha e Spivak precisano che l’identità non è semplicemente data dall’appartenenza ad un gruppo, “la distinzione in gruppi contrapposti non ha quindi alcun significato perché l’identità viene continuamente ridefinita e rinegoziata a seconda delle situazioni in cui ci si viene a trovare41”. Ogni individuo è costituito da particolari elementi. L’appartenenza ad un gruppo è data dal possedere quegli elementi che risultano determinanti per stabilire l’appartenenza o meno di quel determinato individuo ad un insieme dato, ciò non significa che quello stesso individuo non possieda anche altri elementi, che in altre circostanze o in altri contesti possono ridisegnare la sua identità come appartenente ad altri gruppi in base al rilievo dato ad altre caratteristiche che l’individuo possiede. E’ quindi evidente come qualsiasi cultura possa in realtà essere definita composita e come l’ibridismo sia caratteristica dell’essere umano: gli studi postcoloniali hanno avuto il merito di fare di questa condizione esistenziale il loro punto di forza.

Un caso particolare: il Québec

Esaminiamo ora il caso particolare di uno stato, il Québec, che ha saputo dare anch’esso la sua peculiare rappresentazione di identità in base alle caratteristiche di ibridismo e multiculturalismo che gli sono proprie. Considerato stato postcoloniale fin dal 1867, può certamente dire di partecipare di tutte le contraddizioni e le tensioni che il colonialismo ha portato con sé e tuttavia la situazione del Québec può dirsi ulteriormente particolare. Sherry Simon42 rileva giustamente come sia stato da sempre uno stato di “confine”, dove gli scambi linguistici tra coloni francesi e indiani erano all’ordine del giorno e dove gli scambi commerciali con il resto dell’America imponevano necessariamente il contatto con la lingua inglese. Non possiamo non notare tuttavia, che il Québec è pur sempre una ex-colonia francese in cui la tensione è data dall’essere colonizzatori minoritari rispetto ai colonizzatori del Nord America di lingua inglese. Il loro essere europei e l’aver partecipato alla colonizzazione essi stessi li rende fondamentalmente interlocutori paritari rispetto agli inglesi. Ciò che veramente ha creato tensione in Québec, più della vera e propria aggressività inglese nei loro confronti sembra piuttosto essere stata una sorta di competizione e l’istintivo desiderio di rivalsa di quanti, essendo consapevoli del loro valore e della potenziale uguaglianza delle forze in gioco, intravedono la possibilità di una sconfitta dettata non tanto dalla reale superiorità dell’avversario quanto piuttosto dalla semplice superiorità numerica. La diversità intrinseca di tale situazione si riflette anche nella volontà, espressa quasi immediatamente, di investire tanta parte delle proprie risorse nella edificazione di vere e proprie “barriere” volte ad impedire qualsiasi sorta di contaminazione inglese: l’aver istituito leggi che sancivano l’obbligatorietà dell’uso della lingua francese nei luoghi di lavoro e nelle transazioni commerciali ne sono certamente un esempio. Mentre la maggior parte degli stati postcoloniali si sono trovati di fronte all’impasse di dover scegliere una lingua nazionale, con tutte le implicazioni che una scelta del genere porta inevitabilmente con sé, il Québec non ha avuto esitazioni, il francese era la sola scelta possibile. Ciò che possiamo vedere come maggiormente caratterizzante l’atteggiamento di questa propaggine della cultura francese in America sembra essere quella dell’ “assediato”, tanto più traumatica per chi, come in questo caso, è arrivato così lontano per “assediare” a sua volta. Questo trincerarsi nelle proprie abitudini rimanda tra l’altro alla descrizione di tanti personaggi di romanzi connessi con le imprese di colonizzazione, che vedono quasi sempre gli europei barricarsi dietro la ripetizione delle stesse consuetudini, dello stesso modo di vestire che caratterizzava la loro esistenza quotidiana in patria, segnalando ogni slittamento, ogni commistione con le consuetudini locali come una sorta di segnale di “decadenza” soprattutto morale43. Come Simon ha precisato, la letteratura del Québec in francese è sempre stata avvertita come affermazione della propria differenza contro l’identità inglese, tuttavia non si può restare sordi per sempre a quanto prodotto nelle altre letterature e anche le produzioni artistiche di questo stato ne sono finalmente consapevoli, “in other words, it is recognized that the life of culture is not to be found in conservation, but in the risky play of dialogue44”. Un esempio di come l’apporto di altre lingue e culture possa essere considerato valore positivo a tutti gli effetti viene ben evidenziato dall’analisi di tre opere letterarie contemporanee di autori del Québec, opere estremamente particolari in quanto fanno della traduzione, della loro condizione di autori di “frontiera”, fondamentalmente bilingui, non solo l’argomento, ma l’essenza stessa della loro scrittura: il contatto linguistico con l’inglese e la traduzione che immancabilmente ne scaturisce vengono percepiti come causa ed effetto insieme, come elemento fondante della produzione di opere letterarie. Il primo autore presentato è Jacques Brault con il suo Poèmes des quatre côtés. Il volume, scritto in francese, è costituito da quattro poemi che illustrano ciò che Brault definisce “processo di non-traduzione”, separati da parti in prosa nelle quali espone il suo pensiero in merito. Partendo dalle considerazioni di autori come Meschonnic o Blanchot, Brault tenta di sovvertire la convinzione, tante volte manifestata in ambito traduttivo, riguardante l’esistenza di una sorta di assoluta separazione gerarchica tra testo originale e opera da esso “derivata”. Il più delle volte infatti la critica della traduzione tende ad evidenziare solamente gli aspetti negativi del processo di trasposizione, evidenziandone per l’appunto i “difetti” senza soffermarsi troppo o addirittura trascurando i “successi” raggiunti dal traduttore45, il che minerebbe in un certo senso, sin dall’origine, il risultato del lavoro critico, venendo meno in parte allo scopo stesso per cui era stato creato. Ciò che Brault vuole fare è invece mostrare la forza della creatività che il processo traduttivo condivide con quello di scrittura tentando così di sovvertire la sfiducia ed il sospetto che accolgono in Québec i testi tradotti, visti come veicolo di contaminazione, come il cavallo di Troia della cultura americana; “He wishes to propose a different use of translation – one which will contribute to the cultural interests of Québec46”. Ma come riesce l’autore ad evidenziare la creatività della traduzione in sé? Sfruttando l’infinità di disquisizioni sorte in merito all’originalità del testo letterario, alla funzione del traduttore in rapporto a tale testo e all’inevitabile frustrazione che colpisce ed ha colpito buona parte dei traduttori per non essere appunto “autori” ma solo “traduttori”, Brault attua quella che alcuni teorici hanno ipotizzato essere la sola via d’uscita al senso d’insoddisfazione che ogni traduzione porta con sé, la cosiddetta “morte dell’autore”. Se si occulta infatti il nome dello scrittore originale ecco che il testo tradotto verrà ad assumere il suo ruolo ed il nome del traduttore diventerà quello del creatore dell’opera. E’ chiaro però che quando ciò avviene, il traduttore ha tutto l’interesse a tenere nascosto il nome dell’originale qualora si tratti di una traduzione, se invece è una riscrittura, l’autore in genere vorrà evidenziarlo proprio al fine di mostrare come abbia saputo creare un’opera “originale” dallo spunto suggeritogli da un altro testo. In questo caso la situazione è differente: Brault non nasconde che i suoi testi si siano ispirati a quattro poeti Inglesi: Gwendolyn, Mc Ewen, Margaret Atwood e John Haines, i cui poemi sono stati da lui utilizzati per crearne di nuovi. Indica anche il nome dei volumi da cui sono tratti i poemi, ma non i titoli. A tutta prima la sua opera sembrerebbe una riscrittura, in realtà i critici sono in serio imbarazzo sull’argomento: avendo occultato le fonti, è difficile stabilire se il testo sia una riscrittura o una traduzione. Ovviamente il tutto risponde ad un disegno ben preciso dell’autore legato al ruolo assegnato alla traduzione in un contesto di relazioni culturali non alla pari. Secondo Simon47, Brault mette in relazione la sua teoria della non-traduzione con la situazione di squilibrio esistente nel dialogo tra cultura americana e fragilità di quella del Québec. Ispirandosi al “non-poem” di Gaston Miron, “the glorification of alienation and linguistic poverty48”, Brault cerca di invertire i termini di squilibrio. La sua non-traduzione vuole riconoscere la grandezza di certa produzione artistica in lingua inglese ed allo stesso tempo appropriarsene, è in pratica la teoria del cannibalismo proposta inizialmente da De Andrade e poi rielaborata da De Campos nel suo Manifesto Antropofago. Ciò a cui Brault si oppone è la tradizionale posizione assunta dagli scrittori del Québec che o si sono mostrati eccessivamente euforici nell’esaltazione del loro bilinguismo o troppo precipitosi nel condannare qualsiasi influenza straniera. Brault considera la traduzione un confronto ed afferma: “I finally realized that in practice the most vital relationship with oneself comes through the mediation of others. This is the core of non-translation. I felt aggressed by the English language? Well, I resolved to traverse this language until I came to my own (yet unknown) tongue, and that during this difficult and salutary passage I would lose myself in the other and the other would find itself in me49”. E’ quindi evidente che non si tratta semplicemente di aprirsi all’ influenza dell’altro, ma di elaborare un nuovo linguaggio dall’incontro tra due realtà differenti. Brault afferma anche che la visione negativa del processo traduttivo nasce da una concezione idealistica dello scrivere: non esiste una verità assoluta di cui la traduzione deve farsi carico, così come non esiste un significato assoluto di un’opera letteraria50. A questo punto quindi sembrerebbe confermata ulteriormente l’ipotesi iniziale riguardante la sua opera, si tratterebbe di una riscrittura. In realtà, Simon evidenzia come Brault riesca a frustrare le nostre aspettative: il confronto tra originali, debitamente rintracciati dai critici e i poemi in questione mostrano come in effetti si tratti di traduzioni vere e proprie che poco o affatto si allontano da quelle che sono le norme tradizionalmente seguite in traduzione. Quale significato attribuire quindi all’operazione condotta da questo autore? Secondo Simon, la vera trasgressione dell’autore consiste nell’aver “decapitato51” gli originali, privandoli di riferimenti precisi e perfino dei titoli che sono invece inglobati all’interno del testo di Brault. Eliminando il nome dell’autore ed il titolo dell’opera, trasportando un testo dal suo contesto ad un altro che non gli è proprio, costringendo un testo nato nella mente di un altro autore e concepito come parte di un suo progetto a diventare parte di un’altra opera con un suo ordine ed una sua funzione all’interno del testo completamente differenti, trasforma l’opera iniziale in qualcosa di nuovo, di sua creazione. Sembra quasi di sentire l’eco di quanto affermato dal diabolico personaggio di Calvino, Hermes Marana, “Che importa il nome dell’autore in copertina?52”. E’ ciò che Brisset chiama “self-affirmation”, ma è anche molto di più: Sherry Simon evidenzia come, eliminando il nome dell’autore originale e sostituendolo col proprio, Brault voglia mostrare la debolezza intrinseca del legame esistente tra autore e testo; usando il suo nome, l’autore segnala l’opera come appartenente ad un altro gruppo culturale. Il nome dell’autore quindi non sarebbe legato tanto alla soggettività del poeta, quanto piuttosto alle sue origini culturali, alla tradizione di appartenenza.

Veniamo ora alla scrittura di Nicole Brossard, con il suo Mauve Desert. Anche questa scrittrice, come Jacques Brault, riesce a fare della traduzione la fonte della sua creatività, inscrivendo ancora una volta il processo traduttivo all’interno dell’opera stessa. Mauve Desert si compone di tre parti, la prima, separata dal resto dell’opera e dal titolo omonimo, è la storia drammatica di un delitto; la seconda parte, intitolata A Book to Traslate, raccoglie le riflessioni della traduttrice Maude Laures, che legge il testo, lo vive in qualche modo, e riflette su di esso, contemplando possibili risposte agli enigmi che l’opera pone. L’ultima parte, Mauve, the Horizon, contiene la “traduzione” del primo capitolo, scritta però nuovamente in francese. La struttura tripartita del testo è interessante ed ancora di più lo sono le ultime due. E’ evidente infatti che la prima parte dell’opera, seppure la narrazione possa essere ben costruita e risulti avvincente, esiste in funzione delle altre due, che ne fanno un’opera particolare a tutti gli effetti. A Book to Translate infatti si presenta come una sorta di introduzione alla traduzione, spiega le circostanze che hanno portato la traduttrice al testo e rende partecipe il lettore di tutte le riflessioni che accompagnano sempre un testo tradotto e che in genere scompaiono dall’opera edita o che comunque il traduttore cercherà di occultare nel risultato finale vero e proprio. Ciò appare evidente dall’analisi della terza parte, nella quale, dopo tante riflessioni, vediamo il traduttore seguire meticolosamente il testo originale, tanto che il testo tradotto risulta praticamente identico a quello presentato inizialmente. E’ questa la vera sorpresa del libro, dopo le lunghe riflessioni della traduttrice e le ipotesi che ha formulato, ecco che la sua traduzione non si scosta dall’originale. Sherry Simon53 ne mette in chiaro la ragione: grazie al lungo lavoro di riflessione e allo sforzo immaginativo compiuto per entrare veramente all’interno del testo, la traduzione non può dirsi che perfettamente riuscita, mostrandosi quasi identica all’originale. Simon ci tiene a mettere in evidenza il fatto che l’autrice sia, in questo caso, una scrittrice femminista, molte delle riflessioni prodotte in ambito traduttivo ci vengono infatti proprio da questa area di studio. In particolare osserva: “To be sensitive to the gendered aspects of language use is to understand the subjectivity expressed in any act of rewriting. Translation can never be a neutral act of repetition: mediation involves transmission but also displacement54”. Ciò che ancora una volta si vuole sottolineare é il ruolo attivo del traduttore, la sua capacità creativa, in contrasto con quanto tradizionalmente affermato in merito. Sherry Simon paragona la concezione del ruolo del traduttore della Brossard a quella di Calvino espressa in Se una notte d’inverno un viaggiatore. Calvino introduce il suo traduttore, Hermes Marana, all’interno di un triangolo che lo vede in relazione con il Lettore/Autore da una parte e con la Lettrice dall’altra. Il traduttore è ancora una volta visto come un frustrato, che non potendo più tollerare la propria impotenza rispetto all’autore originale, decide di “sabotare” i testi da tradurre in modo da attirare l’attenzione su di sé. Anche Brossard sottolinea l’importanza dell’opera del traduttore, il suo ruolo attivo all’interno del testo, ma ciò che spinge il traduttore a compiere questo lavoro non è il desiderio di vendetta o qualche strano intrigo internazionale, ma piuttosto “the passionate life of the word55”. Il libro è un oggetto e come tale è costruito; la divisione in tre parti dell’opera vuole mimare proprio le fasi della vita di un’opera letteraria. La Lettrice di Calvino voleva essere solo una lettrice e non voleva oltrepassare la linea che separa il lettore dall’autore ed è il Lettore ad esprimere bene il pensiero, “si direbbe che quelli che usano i libri per produrre altri libri crescono di più di quelli che i libri amano leggerli e basta56”. Brossard invece sottolinea proprio l’importanza ed il significato di questa che per lei è una fase dell’esistenza stessa del testo che nasce e poi incontra casualmente lettori che gli daranno il loro significato. Qui però non abbiamo una riscrittura del testo originale, la terza parte del testo è praticamente identica alla prima. La somiglianza con il Pierre Menard di Borges è evidente: se anche fisicamente il testo può sembrare identico, tuttavia è il significato che cambia. Il dislocamento intralinguistico, la successione temporale, sono tutti valori che attribuiscono nuovo significato al testo; con Mauve, the Horizon, Brossard vuole mostrare al lettore la fase stessa di costruzione di un libro, evidenziando quali tipi di cambiamenti possono aver luogo nel passaggio da una lingua ad un’altra. E tuttavia, la visione che della traduzione ha l’autrice è fondamentalmente ottimistica. I cambiamenti che apporta nella terza parte sono minimi, il che per Simon ha il valore di una dichiarazione di fiducia nei confronti del potere della traduzione, tutto può essere veicolato per suo tramite, dichiarazione questa ancora più interessante se messa in relazione a quanto affermato dall’autrice riguardo le costrizioni concettuali nel nostro modo di comunicare imposte dall’universo patriarcale in cui viviamo57. Nell’opera in questione Brossard mostra di avere fiducia “in the life of the word”, vita che non nasce spontaneamente, ma che viene costruita, “then patiently transferred and rediscovered58”. E’ la traduttrice il vero eroe della sua opera, capace di riscoprire il testo, che non vuole varcare i confini del proprio ruolo, rifiutando tuttavia di sottostare allo stereotipo del traduttore frustrato o “traditore” del testo originale.

Ed arriviamo infine all’ultimo scrittore presentato dalla Simon, Daniel Gagnon, autore di La Fille à marier e della sua traduzione in inglese The Marriageable Daughter. Si tratta di un romanzo epistolare, precisamente sono le lettere di Jeanne, una dodicenne dall’esistenza tormentata, vittima di una serie di eventi drammatici e incapace di esprimere la propria sofferenza, alla sua penpal Phyllis. Il primo testo edito è quello francese, il testo inglese viene pubblicato successivamente, ma l’autore afferma che la prima delle due opere ad essere stata scritta è appunto la versione inglese. In effetti esistono evidenze testuali che confermerebbero tale affermazione: alcune espressioni idiomatiche sono senza dubbio tipiche della lingua inglese, tuttavia Simon mostra come in realtà è possibile portare esempi che dimostrerebbero l’affermazione contraria. La particolarità del testo è appunto questa: è impossibile stabilire quale delle due versioni sia stata scritta prima perché in effetti sono state concepite come un testo in cui la compresenza di entrambe le lingue è alla base dell’esprimersi delle due ragazze: scrivere in inglese era già tradurre. Jeanne infatti, di lingua francese, si sforza di scrivere in inglese alla sua amica, ma inevitabilmente la poca conoscenza linguistica la porta ad esprimersi in una lingua “mista”, farcita di termini francesi. Per esemplificare al meglio la particolarità linguistica del testo, Simon ne riporta un brano prima dall’inglese: “do you understand me well? Excuse my so bad English, mister Smith mon professeur d’anglais gave me your precious name, if it will cure your pernicoius anemia, he said, and now I have my kindred soul” e poi dal francese: “O Phyllis, tu es ma chère soeur à Medicine Hat, en Alberta au Canada, ne l’es tu pas? Aren’t you? Do you understand me well? Excuse mon si mauvais anglais, mister Smith my English professor m’a promis de corriger mes fantes, il m’a donné ton précieux nom et maintenant j’ai une âme sœur59”. Dall’esempio risulta evidente la commistione linguistica che pervade il testo fin dall’inizio del suo concepimento. Come il critico Brian Fitch affermava, per le opere bilingui di Beckett, che non esiste un testo “primo” rispetto all’altro in quanto Beckett scrive “across languages60”, la presenza dell’altra lingua essendo sempre avvertita sia che scriva in inglese o in francese, lo stesso si può affermare per la scrittura di Gagnon. In questo caso però, il linguaggio spezzato, a singhiozzi dell’autore, seppure dichiara la sua appartenenza a quel territorio di frontiera che lo vede ricettore di influenze provenienti da culture diverse, evidenzia anche il suo disagio con il linguaggio in quanto tale. La sua ossessione per le espressioni idiomatiche mostra l’appartenenza del testo ad una tradizione specifica ma contemporaneamente esprime anche “the dialogue between linguistic affiliation and alienation61”. La lingua di Gagnon sembra presupporre sempre il confronto con l’altra lingua, quella straniera, iscrivendo così la differenza proprio al centro della sua scrittura. Ciò che ne risulta è un offuscamento dei confini, un processo di traduzione continuo che relativizza la propria appartenenza ad un luogo specifico.

Come abbiamo visto gli esempi di scrittura proposti fanno tutti del pluralismo il tema fondante delle loro opere, tuttavia se Jacques Brault e Nicole Brossard evidenziano il valore positivo, fonte di creatività insito nel processo traduttivo, la scrittura di Gagnon mostra invece le difficoltà, l’incertezza costituzionale che solo chi vive a metà tra due culture può provare. La difficoltà di identificarsi come appartenente ad una cultura o all’altra è evidenziato dalla sua scrittura frammentaria, mista, caratteristica che anzi ricondurrebbe il testo a ciò che viene comunemente ritenuto una cattiva traduzione. Fin troppo presente è infatti la commistione tra inglese e francese, caratteristica questa che in traduzione verrebbe intesa quale dichiarazione di sconfitta da parte del traduttore che non sapendo trovare equivalenti nella propria lingua si vede costretto a lasciare il termine in lingua originale. Il senso di non appartenenza ad una singola cultura destabilizza l’idea stessa di traduzione62, tradurre è infatti possibile qualora si debba trasferire un testo concepito in una determinata lingua, ad un’altra differente, ma che succede se il testo è scritto in più lingue? Come hanno espresso tutti e tre gli scrittori considerati e come Simon vuole evidenziare, il contatto porta con sé anche disordine e confusione. Se è vero che la traduzione può creare nuove opportunità di scrittura tuttavia va anche rilevato che il processo traduttivo ha più a che fare con la differenza che con la ricerca di somiglianze. Sembra quasi di avvertire un certo smarrimento in queste ultime affermazioni della studiosa canadese, echeggiato ancora quando afferma:“ Culture no longer offers itself as a unifying force; language, nation, culture no longer line up as bounded and congruent realities. Language, in particolar, has lost its ability to ground us in a shared universe of reference63”. Sembra di leggere la paura nell’ammettere la propria “creolizzazione” che Glissant64 avverte come caratteristica delle “culture ataviche”, che non hanno più ricordo del loro incontro con l’altro. Il senso di disagio di fronte al contatto con ciò che è diverso, con la traduzione, sembrerebbe essere avvertito maggiormente dagli occidentali, quasi avessimo perso coscienza del rapporto confidenziale che invece dovremmo aver stabilito con essa. Molti scrittori hanno affermato che già scrivere o parlare è tradurre. Sterne affermava di ricorrere alla traduzione continuamente. Ciò che veramente sfugge è l’ambiguità insita nella scrittura stessa, nel linguaggio, mentre invece sembra essere intuita da molti la possibilità di una comprensione al di là della lingua, della scrittura e della traduzione, possibilità questa avvertita come reale anche da Calvino, che per bocca del suo Lettore affermava: “E’ questa la vostra risposta? Volete dimostrare che anche i vivi hanno una lingua senza parole, con cui non si possono scrivere libri ma che si può solo vivere, secondo per secondo, non registrare né ricordare? Prima viene questa lingua senza parole dei corpi vivi, […] poi le parole con cui si scrivono i libri e si cerca inutilmente di tradurre quella prima lingua, poi… - i libri cimmeri sono tutti incompiuti… - sospira Uzzi-Tuzzii, - perché è di là che continuano… nell’altra lingua, nella lingua silenziosa a cui rimandano tutte le parole dei libri che crediamo di leggere…65”.

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Note

1. C. Quarantotto, Dizionario del Nuovo Italiano, Newton Compton Editori, Roma, 1987.

2. Ibidem.

3. A tale proposito, Ashcroft, B., Griffiths, G. and Tiffin, H. The Empire Writes Back: Theory and Practice in Post-colonial Literature, London and New York: Routledge, 1989. Bhabha, H.K. The Location of Culture, London and New York: Routledge, 1994. P. Burton, K.K. Dyson and S. Ardener eds, Bilingual Women: Anthropological Approaches to Second Language Use, Oxford: Berg, 1993. Kachru, B. The Indianization of English: the English Language in India, New Delhi: Oxford University Press, 1983. Simon S. ed. Culture in Transit: Translating the Literature of Quebec, Montreal: Véhicule Press, 1995. Ramakrishna ed. Translation and Multilingualism, Delhi: Pencraft International, 1997.

4. Vedi in proposito M. L. West, The East Face of Helicon. West Asiatic Elements in Greek Poetry and Myth, Clarendon Press, Oxford 1997.

5. Vedi in proposito K. Galinsky, Classical and modern interactions. Postmodern Architecture, Multiculturalism, Decline, and other Issues, University of Texas Press, Austin 1992.

6. Cit. in F. Stella, Antichità europee, in Letteratura comparata, a cura di Armando Gnisci, Mondatori, Milano, 2002.

7. “noi capiamo e rispettiamo le persone di società a noi più familiari, ma non comprendiamo né rispettiamo quelle appartenenti a società più distanti: per questo siamo diventati barbari gli uni per gli altri, mentre per natura ricevono le medesime doti sotto ogni aspetto sia i barbari che i greci”, in F. Stella, op. cit., pag. 42.

8. Basti pensare alla Germania di Tacito o all’Indiké di Arriano di Nicomedia.

9. In F. Stella, op.cit., pag. 43.

10. Vedi in proposito F. Stella, op. cit..

11. In Petronio Arbitro, Satyricon, a cura di A. Aragosti, BUR Pantheon, Ariccia RM, 2003, pag. 45, nota 46.

12. Potremmo citare come esempio il termine pataracina, dovuto forse alla storpiatura del termine greco πάταχνον e ad una contaminazione del termine latino patera o anche all’espressione staminatas duxi, dovuta probabilmente alla contaminazione tra σταμνός e stamen. Vedi in proposito Petronio Arbitro, op. cit., pag. 223, nota 107 e 108.

13. Vedi ad esempio la nota 131, pag. 242 o la nota 137, pag. 248 di Petronio, op. cit..

14. Ibidem, pag. 44.

15. Vedi in proposito L. Chamberlain, Gender and the metaphorics of translation, in L. Venuti, Rethinking translation: Discourse Subjectivity Ideology, London, Routledge, 1992.

16. R. Arroyo, Interpretation as possessive love, in Post–Colonial Translation, S.Bassnett e H. Trivedi eds, London and New York: Routledge, 1999, pag. 146. Il corsivo è mio ed indica la citazione del testo di H. Cixous.

17. Maria Tymoczko, Post-colonial writing and literary translation, in Post–Colonial Translation, op. cit.

18. E. Said, Cultura e imperialismo, Gamberetti, Roma, 1999.

19. Vedi in proposito Francesca Neri, Multiculturalismo, studi postcoloniali e decolonizzazione, in Letteratura comparata, op. cit.

20. Francesca Neri, op. cit., pag. 223.

21. Yue Daiyun, Internazionalismo e nazionalità della letteratura comparata, in Letteratura comparata, op. cit., pag. 224.

22. André Lefevere, Chinese and Western Thinking on Translation, in S. Bassnett e A. Lefevere, Constructing Cultures: essays on literary translation, Topics in Translation: 11, Clevedon, Multilingual Matters Ltd, 1998, pag. 13.

23. Vedi in proposito Nobuko Fujioka, Vision or creation?Kojima Usui and the literary landscape of the Japanese Alps, in Comparative Literature Studies, Penn State Press, vol. 39, no. 4, 2002.

24. Vedi in proposito Nobuko Fujioka, op. cit., nota n. 1, pag. 291.

25. In Nobuko Fujioka, op. cit., pag. 289.

26. Vedi in proposito Nobuko Fujioka, op. cit., nota 7, pag. 292.

27. In particolare Usui afferma: “[Chinese style] is not fit for description of nature full of life” e ancora “a new style of Meiji should be created” che, aggiunge Fujioka, “which would allow smooth depiction of nature as it is”. Citazioni in Nobuko Fujioka, op. cit., pag. 289.

28. Kenneth R. Ireland, Westonization in Japan: The Topos of the Mountain in Yasushi Inoue’s Hyoheki, in Comparative Literature Studies, Penn State Press, vol. 30, no. 1, 1993.

29. Nobuko Fujioka, op. cit., pag. 290.

30. E’ interessante osservare comunque come alcuni autori abbiano in realtà individuato l’esistenza del cosiddetto “fraintendimento produttivo” all’interno del mondo delle popolazioni colonizzate particolarmente nell’uso che tali popolazioni hanno fatto del linguaggio dei colonizzatori. Lo psichiatra martinicano Fanon, studiando la questione dell’identità all’interno delle situazioni coloniali, afferma che “il desiderio del dominato di essere il dominatore crea inevitabilmente uno squilibrio che, per Fanon, si può risolvere soltanto nel confronto diretto, nell’azione militare in cui l’oppresso, nel momento dell’emergenza, si schiera istintivamente dalla parte dei suoi connazionali”. Homi Bhabha, partendo da queste stesse osservazioni, afferma invece che la contrapposizione tra gruppi non è mai così netta ed anzi, seppure esiste la volontà reale da parte del dominato di imitare il dominatore, tale desiderio tuttavia non elimina la consapevolezza della propria identità. Tale situazione si manifesterebbe nel linguaggio adottato dai colonizzati che non è semplicemente il francese o l’inglese, ma una rielaborazione personale di tali lingue, con in più la presenza di elementi provenienti dalla propria lingua madre. In particolare, “Bhabha sostiene che l’atto mimetico del colonizzato è essenzialmente ironico e che quindi la sua ripetizione degli atti dei colonizzatori è un momento di libertà parodica, con cui il sottoposto ottiene dei vantaggi, ma attraverso il quale sviluppa anche la sua personalità individuale distinta da quella originariamente espressa nell’atto parodiato”. Cit. in Francesca Neri, op. cit., rispettivamente pag. 225 e 226.

31. Anche se dobbiamo tenere presente che il movimento di reazione a ciò che veniva letta come l’oppressione del mondo occidentale sulle altre culture nasce negli anni ’60 in America, grazie alla critica opposta dagli studenti neri al canone letterario proposto come materia d’insegnamento nelle scuole e nelle università. Multiculturalismo è stato appunto denominato tale movimento ed “ha comportato […] la revisione del vecchio concetto di Weltliteratur e ci ha insegnato che le opere che ci sono sempre apparse come portatrici di valori fondamentali e inattaccabili ci apparivano tali perché ci confermavano nei nostri valori, riflettendo le credenze del nostro mondo e della nostra società”. Cit. in Francesca Neri, op. cit., pag. 211.

32. Francesca Neri, op. cit., pag. 221.

33. Achebe citato in Francesca Neri, op. cit., pag. 217.

34. G.J.V.  Prasad, Writing translation, in Post–Colonial Translation, op. cit.

35. Vedi in proposito, G.J.V.  Prasad, op. cit.

36. Vedi in proposito Braj Kachru, The Indianization of English : The English Language in India, New Dely, Oxford University Press, 1983.

37. In particolare Mehrez afferma: “In most cases, the challenge of such space in between has been double: these text seek to decolonize themselves from two oppressors at once, the western ex-colonizer […] and the traditional, national cultures”, in S. Mehrez, Translation and the Post-colonial experience: the francophone North African Text in L. Venuti, op. cit., pag. 121, mentre Homi Bhabha definisce gli “in between spaces” come “spazi nel mezzo in cui nascono soggettività nuove. […] Si tratta infatti di uno spazio di libertà in cui non agiscono le solite costrizioni e che é quindi particolarmente creativo”, in Francesca Neri, op. cit., pag. 220.

38. Maria Tymoczko, post-colonial writing and literary translation, in Post–Colonial Translation, op. cit.

39. Domenico Numera, I viaggi e la letteratura, in Letteratura comparata, op. cit., pag. 132.

40. H. Trivedi e S. Bassnett, Of colonies, cannibals and vernaculars, in Post–Colonial Translation, op. cit., pag. 9.

41. Francesca Neri, op. cit., pag. 229.

42. Sherry Simon, Translating and interlingual creation in the contact zone, in Post–Colonial Translation, op. cit.

43. E’ il caso ad esempio del capo contabile della stazione della Compagnia per cui Marlowe lavorava, incontrato all’inizio della sua avventura in Congo, in Heart of Darkness, ma che troviamo comunque anche nella descrizione di personaggi olandesi trapiantati in Indonesia, di inglesi in India, fino allo stesso Robinson Crusoe, che fa delle sue abitudini inglesi un’ancora di salvezza contro quello che sembra essere il pericolo maggiore, ossia il ritorno allo stato di natura.

44. . Sherry Simon, op. cit., pag. 60.

45. Vedi in proposito A. Berman, Pour une critique des traductions: John Donne, Gallimard, Paris, 1995.

46. Sherry Simon, op. cit., pag. 61.

47. Ibidem, pag. 62.

48. Ibidem.

49. Brault, 1989, in Sherry Simon, op. cit., pag. 62.

50. Ibidem, pag. 63.

51. Ibidem, pag. 64.

52. Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Oscar Mondatori, Verona, 2002, pag. 116.

53. Ibidem, pag. 65.

54. Ibidem, pag. 66.

55. Ibidem.

56. Italo Calvino, op. cit., pag. 107.

57. Sherry Simon, op. cit., pag. 67.

58. Ibidem.

59. In Sherry Simon, op. cit., pag. 69.

60. Ibidem.

61. Ibidem, pag. 70.

62. Ibidem, pag. 71.

63. Ibidem, pag. 72.

64. Vedi in proposito, Francesca Neri, op. cit., pag. 229.

65. Italo Calvino, op. cit., pag. 82.

About the author(s)

Laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università Roma Tre, ha successivamente ottenuto il Master in Comunicazione Web ed il Dottorato Europeo in Letterature Comparate, con un lavoro di ricerca dal titolo Gli specchi dell’originale: Traduzioni e Traduttori. Attualmente è docente a contratto per il corso di “Lingua e Traduzione Inglese” presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Ha pubblicato Il viaggio italiano di Sterne, Franco Cesati Editore, Firenze 2004, testo incentrato sull’analisi ed il confronto delle traduzioni del Sentimental Journey, la traduzione italiana di The Twilight of the Gods di Richard Garnett, Mattia&Fortunato;, Calabritto, 2005 e recentemente una raccolta di poesie e racconti, Parole di sabbia, Aletti Editore, Guidonia, 2008. Ha inoltre pubblicato vari articoli, tra cui La mediazione interlinguistica: opportunità da cogliere o problema da risolvere? e Rito e Sacrificio nelle traduzioni di Otello, entrambi reperibili all’indirizzo Internet www.intralinea.it , Byron e il femminile: la verità in maschera, in Linguae & (anche online, sito Internet, http://www.ledonline.it/linguae/index.html ) e numerose traduzioni di Richard Garnett.

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"Multiculturalismo e traduzione: il caso della letteratura del Québec"
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