Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria in spagnolo

Traduzione documento e traduzione strumento a confronto

By Raffaella Tonin (University of Bologna, Italy)

Abstract

English:

The focus of our paper are the first and second Spanish translations of Cesare Beccaria’s masterpiece, i.e. “Dei delitti e delle pene (An Essay on Crimes and Punishments)”, the widely celebrated treatise against death penalty and torture. In the first part, we briefly summarised the main steps of its birth within the Italian Enlightenment context. Secondly, we mentioned the relevance of the French translator who reorganized the text, redistributing parts of chapters into different ones, and turning the book into a well structured penological treatise. As a result, the French translation was used as source text in the translation process into other languages (such as German, for instance), and, since then, Beccaria’s work was published, also in Italian language, with the new structure. Finally, we analysed the two Spanish translations: the first one by Juan Antonio de las Casas (1774), the second by Juan Rivera (1821). Nearly fifty years passed between the two translations: in that space of time the political Spanish context changed and the religious censorship became less powerfull. As a result, the two translators used different strategies and translation procedures in order not to undergo limitations or prohibitions by Spanish Inquisition. Juan Antonio de las Casas employed some paratexts (preface of the translator, protest of the translator, advice of “Consejo de Castilla”, etc.) where he apologised for the contents of the book, and tried not to interpret but simply conveyed them into Spanish. On the contrary, the presence of Juan Rivera in the target text is more visible, as we showed in some passages included in the paper. Therefore, the translation made by Juan de las Casas may be considered a “documentary translation” since it follows the source text nearly literaly, while the second one is an example of instrumental translation: its clear aim is to be read, comprehended and discussed by lawnmakers.

Italian:

Dopo una breve ricostruzione della genesi dell’opera principe di Cesare Beccaria – “Dei delitti e delle pene” (1764) – la cui elaborazione, in questo contesto, viene paragonata ai mestieri del tradurre, si procede ad analizzare l’influenza del traduttore francese e gli interventi che egli attuò sul testo tradotto e sull’originale. La traduzione ad opera dell’abate Morellet diventa un nuovo ‘testo fonte’, non solo per le traduzioni verso altre lingue europee, ma soprattutto verso la nuova edizione italiana dell’opera che, a partire dal modello francese, viene rielaborata seguendo le modifiche strutturali, l’ordine dei capitoli e i tagli apportati dal traduttore francese. Successivamente si passa ad osservare il grado di intervento dei traduttori spagnoli nel testo tradotto per verificare se anche nel loro caso ci siano elementi di co-autorialità rispetto all’opera e alla sua ricezione. Per quanto riguarda la prima traduzione (1774) si nota che, al di là dell’ampio sviluppo paratestuale, Juan Antonio de las Casas opta per una “traduzione documento”, temendo di incorrere in problemi di censura qualora ne avesse reso in modo più diretto i contenuti; mentre Juan Rivera (1821), forte della mutata e favorevole temperie storico-culturale, redige una “traduzione strumento” manifestando espliciti fini applicativi per il trattato, alla stregua del collega francese. Gli interventi che egli apporta vengono brevemente osservati con gli strumenti dell’analisi traduttologica nella parte finale dell’articolo in una griglia sinottica nella quale si riportano alcuni frammenti delle due traduzioni e del testo originale.

Keywords: documentary translation, instrumental translation, co-authoriality, source text, translation procedures, tecniche traduttive, testo fonte, co-autorialità, traduzione strumento, traduzione documentale, specialized and technical translation

©inTRAlinea & Raffaella Tonin (2010).
"Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria in spagnolo"
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1. Premessa

Il presente contributo intende mostrare come siano state impiegate due divergenti modalità traslative per la resa in castigliano del testo Dei delitti e delle pene di Beccaria. Infatti. dopo appena cinquat’anni dalla prima traduzione (1774), il trattato viene proposto per la seconda volta al pubblico spagnolo sotto una nuova veste e con chiari obbiettivi applicativi. Dopo una breve ricostruzione delle vicende dell’opera in lingua italiana e francese, si è cercato di tracciare le principali differenze delle due traduzioni spagnole e, riprendendo la dicotomia proposta da Nord (1996, citata in Hurtado Albir 2001: 246-247), di motivare l’attribuzione dell’etichetta di traduzione documento alla prima e traduzione strumento alla seconda. Vediamo, prima di tutto, come nasce e si sviluppa il ben noto trattato di diritto penale e come la traduzione, nelle sue molteplici manifestazioni, abbia segnato così profondamente il suo successo.

2. Beccaria interpreta il pensiero dell’Accademia

La parola traduzione ed il suo universo di significazioni sembrano pervadere l’opera Dei delitti e delle pene [1]
fin dalla sua genesi collettiva in casa dei fratelli Verri, amici del Beccaria ed ispiratori dell’opera. L’immagine che emerge dal carteggio tra Alessandro e Pietro Verri è quella di un Cesare Beccaria che annota su dei foglietti volanti, su “pezzi di carta stracciati” (Verri citato in Santato 1996: 370) i racconti di Alessandro, protettore dei carcerati, e le idee che Pietro, che sta ultimando le sue Meditazioni sulla felicità, gli suggerisce di approfondire. Beccaria, si serve di quegli appunti per tradurre intralinguisticamente da una modalità all’altra: dalla fugace oralità dei dibatti appassionati alla trasmissibilità della scrittura. Ma è anche una specie di autotraduzione quella che successivamente egli opererà dalla lingua delle infervorate discussioni del gruppo fondatore dell’Accademia dei Pugni, società letteraria di stampo illuminista, alla terminologia di quel suo libello morale, che solo successivamente diverrà un trattato giuridico.

3. Verri, l’editor appassionato

Una somiglianza con l’esercizio traduttivo si scorge anche nel complesso percorso di stesura dell’opera; la difficoltà di scrittura del Beccaria, testimoniata dalle numerose lettere dei Verri, ci ricorda le tortuose e, a volte sofferte, trame mentali del traduttore letterario, sempre alla ricerca della parola giusta. Inoltre, la conflittualità e ambiguità di rapporti che Cesare Beccaria manifestò nei confronti dell’eclettico Pietro Verri ci introducono al ruolo di questo editor ante litteram e alla comprovata co-autorialità del Dei Delitti e delle Pene, ampiamente documentata nei contributi di Santato (1996), Venturi (1958, 1965, 1969), Francioni (1984) e Firpo (1984 e 1985). Riassumendo brevemente il percorso iniziale dell’opera, va detto che Cesare Beccaria affidò il suo scritto, con piena libertà di intervento, al Verri, il quale, da scrupoloso revisore, redattore e mediatore, si incaricò di dargli un ordine (introducendo ad esempio la scansione in paragrafi), di correggerne lo stile (spesso influenzato dalla presenza di voci dialettali), di moderare i toni radicali di alcuni passaggi, in sintesi di formarne un vero e proprio libro. Particolare arrendevolezza è quella che Beccaria dimostra nei confronti di Pietro Verri e delle trasformazioni che la versione autografa subisce per mano dell’amico. Successivamente, sempre Pietro Verri consegnò – il 12 aprile del 1764 – allo stesso stampatore delle sue Meditazioni sulla felicità il manoscritto del marchese suo amico, in forma anonima, tanto da far pensare, in una fase iniziale, di esserne egli stesso l’autore. Detto per inciso, l’anonimato verrà mantenuto fino all’edizione del 1770-71 (Opere diverse del marchese Cesare Beccaria Bonesana patrizio milanese edito in Napoli da Giovanni Gravier); infatti, nonostante Beccaria avesse deciso di uscire allo scoperto già per l’edizione del 1766 (la V, nota come edizione Harlem), a causa della condanna dell’opera da parte della S. Congregazione dell’Indice, all’ultimo momento il frontespizio verrà ristampato privo del nome dell’autore.

Inoltre, in qualità di amico e di ispiratore, Verri, assieme al fratello Alessandro, si prese la briga di rispondere alle accuse del monaco vallombrosiano Ferdinando Facchinei, raccolte nelle famose Note ed osservazioni sul libro dei Delitti e delle Pene. Ricordiamo che Facchinei aveva attaccato non solo il Dei Delitti e delle Pene, ma anche le Meditazioni di Verri denominandoli entrambi “mostruosi gemelli” e attribuendoli allo stesso autore, apostrofato come il “Rousseau dell’Italia”. I fratelli Verri non tardarono a difendere l’opera che aveva preso forma proprio grazie al loro contributo, e lo fecero nella Risposta ad uno scritto che s’intitola: Note ed osservazioni, infervorata apologia che paradossalmente provocherà un definitivo distacco tra Beccaria e Pietro Verri. Due sono i motivi principali di tale rottura. In primo luogo, Beccaria farà intendere di essere l’autore della Risposta citandola esplicitamente nell’avvertenza “A chi legge”, aggiunta al Dei Delitti e delle Pene a partire dall’edizione del 1766. Inoltre, durante il suo viaggio a Parigi successivo al successo dell’edizione francese, in presenza di alcuni dei maggiori filosofi del tempo, Beccaria attribuirà esplicitamente la paternità del testo apologetico a se stesso.

Offesi dal suo atteggiamento, i Verri manifestarono la loro delusione parlando a chiare lettere, nel loro carteggio privato, del plagio concettuale che l’ex-amico avrebbe perpetrato a danno di Montesquieu, Helvetius, Voltaire; in termini più moderni si tratterebbe di una ricreazione del testo letterario a partire da influenze altrui e rientrerebbe nell’ampio fenomeno della polifonia e dell’intertestualità. O forse si potrebbe parlare di un semplice fenomeno di traduzione del pensiero filosofico enciclopedista e di adattamento per un pubblico non ancora pienamente illuminato. Va da sé che all’epoca il diritto d’autore non era certo regolamentato come lo è attualmente.

Molti dei termini che accompagnano questo caso di dubbia paternità, uno dei di più eclatanti nella storia della letteratura italiana, appartengono per l’appunto anche al lessico della traduzione. Presaghe di future intromissioni e infedeltà al testo originale, espressioni come metamorfosi (come quella subita dalla prima redazione autografa beccariana trasformata dal Verri in saggio filosofico) e poi riscrittura, adattamento, plagio intellettuale, co-autorialità, sembrano condurci tutte – e l’etimologia non a caso ci traduce, ci trasporta da una lingua all’altra –  inevitabilmente alle vicende francesi di questa storia.

4. Morellet ricrea il testo fonte

È opera, infatti, del traduttore francese, l’abate André Morellet (1727-1819), la successiva trasformazione che aggiungerà, a partire dal 1766, una nuova lettura del Dei Delitti e delle Pene, non tanto per l’evidente processo di riformulazione di un testo di partenza in una lingua altra, quanto per il clamoroso cambiamento di status del testo d’arrivo: il Dei delitti e delle pene in lingua francese – che diventa il Traité de des délits et des peines (un trattato, pertanto) – sarà il testo di partenza delle prime traduzioni ad ampia diffusione europea (verso l’inglese e il tedesco, ad esempio). Sarà il nuovo testo fonte, cioè il testo dal quale si avvierà il processo traduttivo, pur non essendo affatto il testo originale. E, soprattutto sarà il testo che modificherà le successive versioni in lingua italiana. In sintesi, Morellet avvia una nuova inevitabile metamorfosi e riconsegna alla loro lingua originale quelle stesse idee che il Beccaria aveva sviluppato grazie alle letture dei philosophes illuministi. È evidente, pertanto, che in questo caso le usuali forme sinonimiche testo fonte e testo originale – in contrapposizione al testo d’arrivo o testo tradotto – assumono sfumature di significato tali da permetterci di parlare di una ulteriore presenza autoriale nelle vicissitudini del Dei delitti e delle pene.

L’esperto traduttore francese stupisce lo stesso autore per l’abilità con la quale sa dar voce alla sua volontà implicita[2], pur nell’esteso e metodico rimaneggiamento che effettuerà sull’edizione inviatagli, appositamente ritoccata per la traduzione francese. Se è vero che “vige un tacito principio nella pratica traduttiva, secondo il quale si è tenuti al rispetto giuridico del testo altrui” (Eco 2003: 20), tale lealtà è subordinata all’interpretazione del testo originale da parte del traduttore, e alla consapevolezza che le decisioni interpretative, in particolari circostanze storiche come quelle alle quali ci riferiamo, possono determinare il nuovo impiego del testo tradotto. Proprio le funzioni del testo individuate dall’emittente originale e quelle auspicate dal committente della traduzione – in taluni casi il traduttore stesso – possono non coincidere. Le norme di traduzione, infatti, non sono rigide leggi applicabili incondizionatamente, ma frutto dell’esprit du temp e proprio la temperie socio-politica spesso antepone l’accettazione del testo nella cultura d’arrivo alla lealtà filologica al testo originale.

Le istanze di quel lettore modello la cui maturità intellettuale è crescita all’ombra degli enciclopedisti, e soprattutto l’esplicita richiesta del ministro riformatore Malesherbes, di trasporre l’opera in francese, furono le voci silenziose che Morellet, consapevole interprete dei tempi, introdusse nella riscrittura del trattato. Doppiamente interprete, inoltre, il nostro traduttore, dato che la traduzione in quanto attività semiotica prevede un fare interpretativo del testo a quo e un fare produttivo ad quem. Tale interpretazione del testo può sfociare sia nella costruzione di un metalinguaggio che cerca di renderne conto, sia nella produzione del testo più o meno equivalente al primo. L’operazione che Morellet realizza nella “Preface du traducteur”, aggiunta paratestuale che si anteporrà all’indice del testo tradotto nell’edizione francese, risponde esattamente a questa riflessione metalinguistica insita nelle azioni del tradurre.

Tornando alle modifiche di Morellet, egli riceve un testo di partenza al quale Beccaria, assieme all’Accademia, aveva già rimesso mano (come si legge, sia nel frontespizio della traduzione, sia nella sopraccitata “Preface du traducteur”) con l’aggiunta di 2 nuovi capitoli (“Del Fisco” e “Delle Grazie”), portando così l’opera a un totale di 47; per quanto riguarda l’importante aggiunta paratestuale “A chi legge” – divenuta parte integrante del testo originale a partire dalla quinta edizione – essa non viene inviata al traduttore francese, forse per banale dimenticanza o forse per “il carattere ‘tutto italiano’ della risposta ivi contenuta, ritenendo la sua pacata replica alle accuse mosse al libro poco significativa per il pubblico straniero” (Francioni 1984: 301-302). 

Morellet, quindi, decide di ridurre a 42 il numero dei capitoli, di ristabilirne l’ordine secondo una sua logica d’interpretazione e, soprattutto, alla stessa stregua di un moderno traduttore con supporto informatico, di praticare degli interventi di “taglia e incolla” dei quali ci mette al corrente nella sua prefazione. In essa Morellet, che rimprovera velatamente Beccaria di lasciarsi trascinare troppo dai sentimenti nell’esposizione dei temi, ci informa dei suoi raffinati interventi di manipolazione del testo di partenza in modo didascalico ed esaustivo, e motiva la sua freddezza con la chiara finalità applicativa del trattato:

Une nation peut avoir fait de très-grands progrès dans l’étude des Mathématiques, de Astronomie, de la Navigation,  des Méchaniques & des Arts dé toute espèce, & être encore malheureuse, ou moins heureuse qu’elle ne pourroit l’être, & ce malheur, ou ce moindre degré de bonheur, seront toujours l’effet de l’imperfection de fes loix.

De-la le besoin de travailler sans cesse à perfectionner la Législation; & par une conséquence incontestable, la nécessité d’agiter sans cesse ces importantes queftions qui ne peuvent s’éclaircir que que par le contraste des opinions particuliéres, & se décider que par l’autorité irréfragable de l’opinion publique.

C’eft le principal motif qui nous a déterminé à donner dans notre Langue l’Ouvrage Italien de’ Delitti e delle Pene: nous le croyons rempli de vues profondes & vraies (Morellet 1766: V-VI).

I prologhi giustificativi redatti dai traduttori a partire dall’Umanesimo manifestano in alcuni casi la forte dimensione politica della traduzione: le infedeltà che Morellet sa di aver perpetrato nei confronti del testo originale non sono dettate più da motivi estetici legati al prestigio del francese, ma da un forte fine didattico, nel nostro caso dalla necessità di agire in ambito politico e giuridico, diffondendo un pensiero innovativo[3]. Morellet giustifica le infedeltà all’autore con l’utilità dell’opera per la nazione francese:

L’importance & la nature même de la matière nous ont fait penser que s’il étoit possible, sans altérer le texte, de rétablir, par quelques simples transpositions de Chapitres ou de parties de Chapitres, l’ordre ainsi troublé, nous rendrions l’Ouvrage plus utile à notre nation, en lui donnant une forme plus analogue à celle qui nous est familière: nous en avions le droit parce qu’un Livre où l’on plaide si éloquemment la cause de I’Hunianité, appartient déformais au Monde & à toutes les Nations; & nous avons cru que l’Auteur lui-même nous pardonneroit cette liberté, ou plutôt nous avons oublié l’Auteur en lui, pour ne voir que l’homme de génie & l’ami de l’Humanité, & nous avons compté sur l’indulgence de l’un & sur la reconnoissance de l’autre (ibid. : VIII).

Attua anche una serie di soppressioni, tralasciando di tradurre, ad esempio la Risposta alle Note ed osservazioni sul libro dei Delitti e delle Pene e Il giudizio di un celebre professore (aggiunte entrambe presenti a partire dalla terza edizione del 1765). Tale strategia è pienamente in linea con le scelte traduttive di Morellet operate al fine di trasformare il saggio filosofico in trattato giuridico. Inoltre, tali parti avrebbero potuto risultare culturalmente intraducibili, proprio perché troppo legate al contesto di emissione dell’opera originale per essere comprese a pieno dal pubblico francese.
Per quanto riguarda la ridistribuzione di alcune parti di testo e l’organizzazione dei capitoli, modifiche queste puntualmente elencate sempre nella prefazione, è da sottolineare l’atteggiamento di consapevolezza quasi superba con la quale Morellet giudica l’ordine originale e si autolegittima ad intervenire: nel caso ad esempio del capitolo XVII del testo francese “Du banissement et de la confiscation des biens” (“Bando e Confiscazioni”, originariamente in posizione n. XXIV) vi si trova un incipit preso dal cap. XXIII italiano (“Oziosi”), aggiunta giustificata da Morellet come un’inevitabile correzione del testo originale:

§. XVII. Du bannissement & de la confiscation des biens. C’eft le Chapitre XXIV. de l’original. Mais le commencement est celui du Chap. XXIII de l’Italien, dont le titre est Oziosi; & en voit bien qu’il étoit déplacé dans l’original (ibid.: XIV-XV)

Non solo reinterpreta l’ordine dei pensieri dell’autore e decide dove introdurre le postille inviategli da Beccaria, ma introduce un nuovo capitolo (“Delitti di Lesa Maestà”), da un estratto del cap. VIII, suggerendo all’autore di svilupparlo nelle edizioni future. Beccaria non coglierà quest’occasione; tuttavia questa iniziativa di Morellet ci consente di sottolineare un altro chiaro esempio di intromissione della traduzione nel testo originale: questo nuovo capitolo introdotto da Morellet verrà inserito nella vulgata, cioè nella versione del Dei delitti e delle pene basata sul modello francese e pubblicata a partire dal 1774[4].

Abulico per taluni studiosi, per altri scaltro e calcolatore, Beccaria, anche questa volta, dimostra nei confronti delle mutazioni apportate da Morellet una sorprendente compiacenza, e consapevole forse della portata di tale operazione culturale, include una nota alla quinta edizione che esce in italiano poco dopo la traduzione francese, nella quale dichiara di accettare le modifiche, trovando la traduzione “non solo fedele ma eccellente in tutte le sue parti” (Beccaria 1766, citato in Venturi 1958: 23).

Come già anticipato, il testo francese diventa testo fonte, non solo nei confronti della vulgata italiana che ritraduce il pensiero di Beccaria passando per la forma mentis del suo interprete francese, ma soprattutto rispetto alla traduzione tedesca del 1766 (ad opera di Albert Wittenberg) [5], alla prima traduzione in inglese (del 1767) [6], e a quella svedese del 1770 (di Johan Henrik Hochschild) [7], per non parlare del forte impatto che l’opera ebbe nella Russia di Caterina II grazie alla iniziale diffusione proprio del testo francese, come sottolinea Berkov (1966: 253-277).

Le considerazioni metalinguistiche contenute nella prefazione del traduttore, le modifiche paratestuali e macrostrutturali attuate e le circostanze contestuali legata alla diffusione del testo in lingua francese (la ricettività di un pubblico già illuminato e la conseguente strumentalizzazione del testo a scopi politici), tutto ciò ci induce a pensare che la traduzione di Morellet sia una traduzione strumento, cioè quella che secondo Nord (1996 citato in Hurtado Albir, 2001: 246-247) – che reinterpreta la dicotomia classica traduzione letterale vs. traduzione libera basandosi su criteri funzionali – serve da strumento di comunicazione nella cultura meta e si forma sul modello di una comunicazione realizzatasi nella cultura d’origine; ben diversa dunque da una traduzione documento cioè quella che ha la funzione solo di documentare tale comunicazione, realizzatasi nella cultura d’origine. Proprio in quanto strumento, muove da una forte istanza appellativa e, data la diversità della società alla quale si rivolge, persegue fini concreti, forse al di là delle speranze originali dell’autore stesso (ad esempio influenzare il dibattito filosofico dell’ambiente illuminista francese al quale Beccaria si era ispirato).

5. Rivera ritraduce Beccaria e Las Casas

La prima traduzione spagnola del 1774 ad opera di Juan Antonio de las Casas e la seconda, ad opera di Juan Rivera del 1821, diversamente dagli esempi sopraccitati, vengono tradotte direttamente dall’italiano, dalla versione pre-Morellet, cioè dalla famosa Harlem del 1766 della quale rispecchiano l’ordine, riproducendone anche l’avvertenza “A chi legge”. Tuttavia, tracce dell’impatto culturale prodotto dalle modifiche di Morellet si scorgeranno anche nella seconda traduzione spagnola: nelle rielaborazioni intratestuali apportate allo stile argomentativo e alle modalità di redazione di Beccaria, nell’introduzione di una prefazione (“Advertencia del traductor”) che ricorda quella di Morellet, per la presenza di commenti metalinguistici sul procedere del traduttore, e soprattutto nella chiara finalità applicativa del nuovo testo tradotto, espressa anch’essa nell’“Avvertenza”. 

Sulle aggiunte paratestuali delle due traduzioni spagnole e sul loro contributo all’ulteriore metamorfosi di un testo multiautoriale, si è già discorso in precedenti contributi[8]; tuttavia va detto brevemente che il primo traduttore corredò il testo di parafulmini cautelativi al fine di passare indenne attraverso le fitte maglie della censura (tra i quali citiamo: la “Nota” del Consiglio di Castiglia con l’autorizzazione alla stampa, il “Prologo del traduttore”, nel quale si perora la causa dell’autore e si invoca la clemenza del Monarca; la “Protesta del traduttore” nella quale si dimostra sottomissione al Potere ecclesiastico e la traduzione della nota prefazione “A chi legge” di Beccaria). Si trattò di atti di prudenza inutili dato che la Santa Inquisizione ne proibì la circolazione dal 1777 al 1820, anno in cui ricomparve la traduzione di Las Casas ma, in quella circostanza, con un doppio anonimato: autore e traduttore.

Rivera, il secondo traduttore, invece, gode di un clima socio-politico diverso: con la Costituzione del 1812 scompare il concetto di monarchia assoluta e grazie all’articolo 371 sulla libertà d’espressione, il nome dell’autore finalmente compare anche nel testo spagnolo. Rivera, inoltre, si rende consapevolmente co-interprete del forte valore applicativo dell’opera di Beccaria, tale da poter influire nel dibattito politico che porterà alla promulgazione del Primo Codice Penale del 1822, esattamente un anno dopo la pubblicazione della seconda traduzione:

[...] las circunstancias en que se anuncia esta obra traducida de nuevo, no pueden ser más interesantes, pues debiendo discutirse y aprobarse en las próximas Cortes estraordinarias el código criminal, con los demas que forman un sistema completo de legislación, pudiera suceder que los escelentes principios del autor del Tratado de los delitos y de las penas, presentados fielmente y sin confusión y desorden que se nota en la citada traduccion de 1820, diesen alguna luz tan vasta y útil empresa (Rivera, 1821:V)

È rilevante sottolineare che nella seconda traduzione si allude alla prima, sia direttamente – come nel brano appena citato – sia indirettamente quando si commenta l’altrui tradurre. Infatti, in altri punti dell’“Avvertenza” troviamo riferimenti espliciti alla traduzione di Las Casas:

Nuestra nación fue quizá la que menos ventajas sacó de esta producción literaria que se difundió rápidamente e por toda Europa desde el momento en que vió la luz pública; porque si bien se tradujo en aquel tiempo al español, promoviendo este trabajo un magistrado sabio y celoso, cuya memoria y escritos pasarán a la posteridad mas remota, no tardaron en reunirse las dos potestades para apagar esta nueva luz, como lo acostumbraban siempre que por medio de la imprenta se ponían de manifiesto las verdades políticas que necesitan conocer los pueblos para ser felices, y se revelaban los abusos del poder. [...] El público, que ha visto la traducción anunciada en esta corte el año 1820, juzgará si procedi con equivocación en el concepto que formé de ella, y decidirá hasta que punto se puede considerar como nueva la que tengo el honor de ofrecerle (ibid. : IV).

Come si nota, non solo si menziona la traduzione precedente, ma se ne giustifica una nuova attraverso una riflessione metalinguistica legata sia all’interpretazione che il traduttore fa del testo di partenza, sia alla resa del proprio operato, auspicabilmente migliore del precedente. Inoltre, indizi indiretti del fatto che Rivera doveva conoscere la traduzione di Las Casas, emergono anche dalla lettura comparata delle due traduzioni con il testo italiano. Come un editor un po’ creativo, Rivera sembra voler perfezionare, quasi cesellare, secondo la sua interpretazione del testo originale, la traduzione lineare, caratterizzata dall’equivalenza formale oltre che concettuale del suo predecessore[9]. Potremmo infatti definire la prima traduzione (quella di Las Casas) come una traduzione letterale[10]in quanto, pur nel rispetto delle strutture sintattiche e delle norme stilistiche della lingua d’arrivo, sembra essere contraddistinta da una forte aderenza alla forma linguistica del testo di partenza; la resa di Rivera, invece, appare come un intervento successivo, quasi una seconda stesura più orientata verso la cultura di arrivo che al testo di partenza. Inoltre, immaginando di rivolgersi anche ad un pubblico di esperti, spesso impiega una terminologia dal taglio più tecnico, sostituendo voci letterariamente connotate con termini più precisi in ambito giuridico; chiarisce passaggi volutamente redatti originariamente in modo ambiguo ed oscuro per il timore di persecuzioni, semplifica o sopprime alcune strategie argomentative di Beccaria (riportate fedelmente invece dal primo traduttore) come l’ironia, le domande retoriche, le metafore, le costanti esortazioni a riflettere rivolte al lettore; spersonalizza il testo, sostituendo spesso l’io dell’autore e il tu dell’interlocutore con generici riferenti impersonali. In sintesi, Rivera attua una metamorfosi nella quale la presenza autoriale è meno forte e maggiore rilevanza riveste, invece, la forza dei contenuti.

6. Gli espedienti di Rivera

A dimostrazione del maggior grado di soggettività del secondo traduttore nel testo tradotto, si è ritenuto necessario analizzare le tecniche traduttive da lui impiegate, vale a dire quei procedimenti verbali concreti riscontrabili nella riformulazione finale del testo tradotto, il cui impiego puntuale dipende dal metodo traduttivo prescelto, vale a dire da quella coerenza globale di intenti dettata dalle funzioni che il testo tradotto dovrà assolvere[12].

Le tecniche che maggiormente vengono impiegate da Rivera sono quelle tipiche di una metodologia globale che si propone di adattare il testo originale alla cultura d’arrivo, vale a dire la particolarizzazione  (procedimento che si realizza con l’impiego di termini più precisi, concreti o tecnici rispetto a quelli del testo originale) e l’espediente contrario, cioè la generalizzazione; inoltre l’[/]esplicitazione (spiegazione di elementi impliciti nel testo originale con l’introduzione di informazioni esplicative), l’ampliamento (introduzione di chiarimenti non presenti nel testo originale), l’inversione (quando una parola o un sintagma all’interno di una proposizione vengono spostati in una posizione diversa dall’originale, per motivi legati all’ordine tematico dell’informazione o per motivi legati alla natura della lingua d’arrivo), la modulazione (quando si effettua un cambiamento di punto di vista rispetto alla formulazione del testo originale), la trasposizione (l’impiego di strutture sintattiche diverse rispetto a quelle del testo originale, come ad esempio, la preferenza per l’ipotassi, tipica di alcune lingue), ecc.
Nella seguente tabella, che riporta alcuni brani tratti dal capitolo XVI (“Della tortura”), e XXVIII (“Della pena di morte”) è possibile riscontrare alcune delle strategie riformulative di Rivera e confrontarle con la linearità di Juan Antonio de las Casas. Il grassetto indica i punti oggetto della riflessione che seguirà.



Tabella con esempi delle traduzioni di Rivera e Las Casas a confronto

Vediamo nel dettaglio alcuni esempi riconducibili alle tecniche sopraelencate:

Particolarizzazione

Analizzando brevemente le divergenze riscontrate tra le due rese traduttive e il testo originale, nella traduzione del 1821 si notano casi di particolarizzazione come ad esempio nell’uso di CAUSA come resa di PROCESSO (nel primo brano riportato): il Diccionario de la lengua española de la Real Academia Española, già nella sua versione originale (Autoridades, 1726-1739), infatti ci indica come CAUSA CRIMINAL appartenga alla terminologia del diritto e sia sinonimo di PROCESO PENAL.

Generalizzazione

Nel caso in cui si presentino riferimenti extratestuali specifici alla realtà della cultura di partenza, si può ritenere opportuno generalizzare tale concetto impiegando un corrispondente generico o un iperonimo dell’ambito semantico interessato che possa assolvere la stessa funzione nella cultura d’arrivo o essere comunque compreso dal maggior numero di fruitori del testo tradotto. È il caso dell’esempio presente nel brano n.5, tratto dal capitolo XXVIII, nel quale, grazie alla stessa opzione che l’autore dà (“la forca o la ruota”), e che suggerisce implicitamente una gamma di possibili strumenti impiegati nell’esecuzione capitale, Rivera preferisce usare un termine generico applicabile a più modalità (PATÍBULO), ma fortemente connotato. Prevale in questo caso la necessità di far comprendere in modo chiaro questo concetto ad un ampio pubblico e di coinvolgerlo emotivamente al tempo stesso, senza ricorrere all’esattezza terminologica del referente impiegato nell’originale (corrispondenza impiegata nella prima traduzione), dato che tale scelta potrebbe risultare inadatta qualora tali strumenti non fossero diffusi nelle culture d’arrivo, o semplicemente non lo fossero più. Un caso analogo si trova all’esempio n.3 con l’impiego di un iperonimo a sostituzione del termine molto connotato impiegato nel testo originale (MATAR per TRUCIDARE); tuttavia tale impiego potrebbe anche essere ricondotto alla tecnica della modulazione (è spesso difficile classificare nitidamente queste elaborate strategie di intervento creativo sul testo originale).

Esplicitazione

Per quanto riguarda questa tecnica si noti (nel brano n.2) la soppressione della metafora beccariana che vede il dolore come “ambiente atto al manifestarsi della verità”, paragonato al “crogiuolo”. Rivera reinterpreta quest’immagine dando una lettura più lineare e chiara del “dolore come regola di verità”, grazie all’indicazione implicita di Beccaria che, in un passaggio successivo parla di “criterio di verità”. Altro evidente esempio di esplicitazione è dato dall’aggiunta finale “que es el temor” (presente nel brano n.4) con l’intenzione di chiarire un periodo che nella resa originale poteva essere di difficile lettura, mentre nella riformulazione anche sintattica del testo tradotto (in questo caso si può parlare anche di trasposizione) risulta meno oscuro.

Ampliamento

L’ampliamento o espansione è una tecnica largamente usata da Rivera che sembra risolvere la criptica ambiguità e la complessità sintattica della prosa di Beccaria, il cui fine sappiamo essere legato anche al tentativo di non essere perseguitato per le proprie idee, chiarendo alcuni passaggi grazie all’aggiunta di elementi lessicali e all’espansione sintattica. Troviamo esempi di tale accorgimento verso la fine del primo brano riportato, dove è presente anche un’attenuazione del punto di vista dell’emittente, con lo spostamento del “no sé”, dopo l’aggiunta del “se ha establecido”, oppure all’esempio n.4 con l’esplicitazione, quasi didattica, del meccanismo di PENA DI MORTE e l’aggiunta del termine SUPLICIO non chiaramente espresso nel testo originale. Si è inoltre rilevato un evidente caso di espansione nel passaggio della traduzione Rivera (non presente nel testo originale) che inizia con “En el primer caso se halla el espectador”. Si è impiegata questa tecnica al fine di spiegare un passaggio chiave dell’argomentazione beccariana, aggiungendo un paragone che è presumibilmente frutto dell’interpretazione del traduttore-mediatore.

Inversione

In generale, inoltre, nella versione di Rivera si è notata una tendenza all’inversione come procedimento che veicola la chiarezza interpretativa del testo e facilita la decodificazione dei nessi logici tra i passaggi tematici e quelli rematici del complesso pensiero beccariano, come nel caso dell’inizio del brano n.5 nel quale si anticipa “il ragionamento che fa un ladro o un assassino”. In questo caso Beccaria inserisce un ipotetico discorso diretto di un immaginario ladro;  tuttavia, tale ragionamento è riportato nel testo originale dopo un lungo inciso dissertatorio. Rivera, invece, non solo mette in posizione tematica la riflessione di Beccaria (“Solo per medio de una buena educación aprendemos el arte de desentrañar nuestros sentimientos”) a modo d’introduzione, ma per permettere una chiara individuazione dell’emittente, inserisce anche un inciso nella citazione in testo dell’ipotetico ladro (“se pregunta a si mismo”) che disambigua la presenza della voce esterna da quella dell’autore. Forse tale chiarezza è stata suggerita dalla medesima operazione che Las Casas fa in questo stesso frammento con l’inserimento del breve inciso citazionale “(dice)”.

Modulazione

E’ presente nel primo brano con l’impiego di BARBARIE come traduzione di CRUDELTÀ: secondo il Diccionario de uso español (María Moliner) si tratta di “Estado de incultura o atraso de un pueblo”, mentre il Diccionario de la lengua española de la Real Academia Española ammette tale voce come sinonimo di CRUELDAD solo in seconda accezione, mentre concorda nel dare come prima accezione quella di “Rusticidad, falta de cultura”. Non essendo un semplice espediente lessicale, il meccanismo del cambiamento del punto di vista può avvenire anche con l’eliminazione della presenza esplicita dell’emittente e con una conseguente generalizzazione del punto di vista, come avviene all’inizio del secondo brano riportato (l’io dell’autore, si trasforma in un collettivo noi che serve quasi più da connettivo che da esplicita manifestazione di chi scrive).

Trasposizione

Anche la trasposizione è ampiamente usata e spesso si sovrappone ad altri procedimenti già analizzati, la qual cosa mostra l’alto grado di rielaborazione che Rivera compie a partire dal testo di partenza con l’ausilio di varie modalità di parafrasi (si veda all’esempio n.2, l’intervento di natura sintattica che ha permesso di inglobare l’enunciato finale nella periodo precedente). L’ansia di chiarezza e la ricerca di uno stile proprio, che vedono nella trasposizione uno degli strumenti al loro servizio, possono provocare, tuttavia, una perdita dell’effetto ironico presente in alcuni passaggi del testo beccariano. Il passaggio appena commentato termina, nel testo originale, con un’affermazione che conclude efficacemente quella parte di confutazione della validità della tortura (“Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti”), scatenando nel lettore un amaro sorriso di consenso al ragionamento di Beccaria. Rivera decide invece di collegare tale passaggio al periodo che lo precede, completando così un periodo ipotetico implicito nel testo originale; tale riorganizzazione sintattica, tuttavia, toglie rilevanza pragmatica all’affermazione proprio perché facilita l’inferenza del rapporto causa-effetto (i delinquenti forzuti non soccombono alla tortura pertanto essa serve solo a condannare i deboli, anche se innocenti). Con l’aggiunta esplicita di “y no fuese al contrario” anticipa al lettore ciò che egli è in grado di comprendere da solo, attenuando l’effetto che l’amara constatazione finale suggerita da Beccaria potrebbe provocare nell’animo del lettore.

Variazione

Per concludere, aggiungiamo un espediente che chiameremo variazione grazie al quale Rivera manifesta una maggiore chiarezza nella resa e la sua preferenza alla fedeltà verso i contenuti e i fini applicativi dell’opera piuttosto che all’autore stesso. Si tratta di un chiarimento di una scelta autoriale che, se tradotta letteralmente, potrebbe indurre ad un’interpretazione ambigua o addirittura erronea del testo, come si nota alla fine del brano n.4: “per il reo” diventa “contra el reo”.

Rivera, dunque, mette in atto un insieme di strategie intratestuali (come l’utilizzo delle tecniche appena commentate) e metatestuali (l’avvertenza del traduttore nella quale si fa riferimento all’utilità dell’opera nei futuri dibattiti politici) che sottolineano la diversa fruibilità del testo tradotto rispetto all’originale, la presenza di nuove condizioni socio-politiche, la supremazia dei contenuti sull’espressione stilistica e, infine, la soggettività interpretativa del traduttore. Tutte queste variabili ci portano a dedurre che la traduzione di Rivera è stata eseguita seguendo un metodo libero, dettato dall’etero-funzionalità degli scopi – simili a quelli dell’originale ma più concreti – e dalla chiarezza informativa; un metodo che mira a trasformare il testo tradotto in strumento di comunicazione nella lingua d’arrivo.

7. Conclusioni

Il Dei delitti e delle pene, attraverso una lunga e controversa fase di maturazione, diventa un testo fondamentale del diritto moderno; alle progressive fasi di arricchimento partecipano, oltre che i filosofi ispiratori e gli appassionati membri dell’Accademia dei Pugni, anche alcuni visibili traduttori dell’opera. È Morellet, con la sua libertà di riscrittura, che consegna nelle penne dei successivi traduttori, sia che essi si servano o meno delle modifiche da lui introdotte, un’eredità culturale che legittima la loro visibilità nel testo ricreato.

Anche per la traduzione di Juan Rivera, infatti, possiamo parlare di traduzione strumento in forte contrapposizione con la traduzione documento di Juan Antonio de las Casas. In sostanza si passa da una traduzione nella quale la funzione principale era quella di preservare la voce dell’emittente, ad una nella quale la funzione espressiva passa in secondo piano. Nella prima la stesura lineare tutela il traduttore passibile di censura, e gli permette di non sostituirsi all’autorevolezza dell’autore, anche se anonimo. Nella seconda, forse proprio per via dell’eco dei rimaneggiamenti del testo francese meritori di aver consegnato l’opera al bene dell’umanità, l’autore stesso passa in secondo piano rispetto al messaggio e alla sua applicabilità. L’opera così tradotta da Rivera svolge nella cultura d’arrivo la stessa funzione che potrebbe svolgere un testo originale. Emerge, pertanto, una forte componente esortativa, rivolta ad un destinatario che, a differenza del generico pubblico di curiosi lettori della prima traduzione, comprende un insieme di esperti di diritto i quali dovranno, grazie alle attente indicazioni del traduttore-adattatore, saperne far buono e immediato uso.

Fonti

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Note

[1]Il presente intervento è stato presentato alla 38ª edizione del Premio Monselice per la Traduzione, durante il Convegno intitolato “Traduzioni di traduzioni”, nel giugno del 2008, precisamente a 60 anni dalla nascita della Costituzione Italiana e della Dichiarazione dei Diritti Umani, documenti nei quali sono riscontrabili tracce del pensiero di Cesare Beccaria. I risultati parziali contenuti in questo breve contributo si inseriscono in un più ampio progetto di ricerca dell’Università di Padova (Dipartimento di Romanistica) dal titolo “Il ruolo della traduzione nella diffusione dell’opera di Cesare Beccaria in ambito ispanico”, per il quale, sotto la supervisione di Carmen Castello Peña, l’autrice attualmente sta analizzando le prime due traduzioni spagnole dell’opera sopraccitata.

[2]Morellet è autore del compendio Manuel des inquisiteurs, à l’usage des inquisitions d’Espagne et de Portugal del 1762, traduzione abbreviata del Directorium inquisito rum del teologo e inquisitore Nicolau Eimeric, teologo e inquisitore del ’300; inoltre, tradurrà Beccaria anche nelle Ricerche intorno alla natura dello stile (Recherches sur le style), pubblicata in Francia nel 1771. È anche noto per aver tradotto dall’inglese il testo di Matthew Gregory Lewis, The monk

[3]Secondo Ruiz Casanova la traduzione diviene in questa epoca un “excepcional vehículo de ideas, sobre todo de carácter moral, y por lo tanto, como un recurso más que fortalece la teoría sobre la función didáctica que debe cumplir toda obra literaria” (2000: 365). Mentre Vega, riconosce la forte valenza giustificativa delle prefazioni del traduttore: “los prólogos justificativos eran, debido en parte a esa dimensión política de la traducción, una exigencia. Por lo que pudiera suceder, el traductor daba razones de su opción traductora, incluso aunque el texto no tuviera que ver con razones dogmáticas” (1994: 30).

[4]A partire da tale data si adotta, pur senza l’esplicito consenso di Beccaria, l’ordine della traduzione francese e si inizia a diffondere la ben nota vulgata, denominata in tal modo per distinguerla dalla versione “Harlem 1766”, quinta ed ultima edizione ad aver mantenuto l’appassionato disordine beccariano e della quale “esistano prove esplicite d’una partecipazione dell’autore alla revisione del testo” (Venturi: 1958: 26). La versione “Harlem” (anche se uscì a Livorno per i tipi della tipografia Coltellini) verrà riproposta solo a partire dal 1958 in Illuministi italiani a cura di Franco Venturi.

[5] Il titolo dell’opera apparsa ad Amburgo nel 1766 è Abhandlung von den Verbrechen und Strafen. Nach der französischen Ausgabe übersetzt, traduzione eseguita a partire dal testo francese (cfr. Wandruszka, 1966: 295-303).

[6] A tale riguardo si veda Cattaneo, (1990: 200 e 211) che ricostruisce l’impatto del Dei delitti e delle pene sugli intellettuali europei (Voltaire, Bentham, Lardizabal, ecc.) e Randzinowicz (1966: 58) secondo il quale “The first English translation of Dei delitti e delle pene was published in 1767; it was taken from a French edition and included a commentary by Voltaire”. Tuttavia, da una verifica effettuata sul catalogo on-line della British National Library, l’edizione del 1767 intitolata An Essay on Crimes and Punishments, presenta la seguente indicazione dopo il titolo: translated from the Italian; with a commentary, attributed to Mons. de Voltaire, translated from the French, facendo emergere quindi un plausibile dubbio sulla vera lingua di partenza; inoltre, non figura il nome del traduttore.

[7] Secondo la scheda di catalogazione del Afhandling om brott och straff della Carlskrona Läsesällskaps Bibliothek, Morellet appare, assieme al traduttore svedese, in qualità di coautore.

[8] Cfr. Tonin (2006: 153-182).

[9] A conferma della fedeltà del primo traduttore si può leggere il giudizio con cui la Academia de la Historia aveva approvato la pubblicazione della traduzione di Juan Antonio de las Casas (“fielmente traducida al castellano con uso de buen estilo y de expresiones claras y ajustadas sin alteración reparable”); inoltre è la trasposizione che tra le molte poi eseguite del testo beccariano, attualmente si trova in commercio, come, paradossalmente, lo stesso Rivera aveva predetto (cfr. Calabrò 1966: 103).

[10] Pur consapevoli del superamento della dicotomia classica traduzione letterale vs. traduzione libera nelle attuali correnti della teoria della traduzione, perché basata sull’erronea considerazione di monofunzionalità del testo, tuttavia si fa uso del termine LETTERALE non tanto per il metodo impiegato, quanto per il risultato finale: quel testo redatto da Juan Antonio de las Casas nel quale il significato del testo di partenza è espresso in modo diretto, ossia mantenendo gli stessi costituenti fondamentali del testo di partenza e adattandone le strutture sintattiche e lessicali alle norme grammaticali e alle convenzioni stilistiche della lingua di arrivo, tale da apparire come una prima stesura nel processo traduttivo. Come suggerisce Scarpa, in ambito specialistico la traduzione letterale rappresenta la prima opzione del traduttore e si presenta come un passaggio intermedio tra il testo di partenza e il testo d’arrivo atto ad evidenziare, ad esempio, contenuti problematici o passaggi ambigui del testo fonte (2001: 112-115).

[11] Secondo Delval (2004: 21-22) l’oscurità di alcuni passaggi del testo originale si deve al timore dell’autore di essere perseguitato, come l’autore stesso rivela in una lettera al traduttore francese. Sull’oscurità dello stile di Beccaria concorda anche l’insigne giurista Tomás y Valiente, anch’egli curatore nonché traduttore del Dei Delitti e delle Pene in un’edizione del 1969, il quale così definì la prosa di Beccaria: “difícil, retorcido a veces, oscuro en muchos capítulo […], con frases cabalísticas y de dudoso sentido” (citato in Guidotti 2007: 68).

[12] Sulla differenza tra metodo traduttivo, strategie e tecniche e sulle varie tecniche traduttive si veda Hurtado Albir (2001: 241-279).

[13] Sulla variazione dell’ordine espositivo nelle traduzioni oggetto della nostra analisi (in particolare quella di Juan Rivera) si veda Guidotti (2007: 165-170) che sottolinea una divergenza pragmatica tra il testo originale e il testo tradotto, riscontrabile precisamente nel diverso sistema argomentativo, nella nuova disposizione dell’informazione, nella ristrutturazione interna degli enunciati, con conseguente trasformazione del testo beccariano: “La modificación de la estructura de progresión, que tiende a garantizar tanto un orden conceptual cuanto comunicativo, provoca sobre todo en TR [traducción Rivera] una trasformación de la cohesión textual. En otras palabras, el discurso de Beccaria, trasladado a un discurso diversamente organizado, pierde su naturalezza y, subyaciendo en un modelo enunciativo diferente, se transfroma” (Guidotti 2007: 169).

About the author(s)

Associate Professor at Department of Interpreting and Translation (DIT) from 2019 in L-LIN/07 - Language and Translation / Spanish - academic discipline. Degrees: Post-doc research grant at University of Padua (Department of Roman Languages) 2009-2011. Ph.D. in Linguistics of Modern Languages - Spanish (University of Pisa) in 2004. Degree in Translation from the Advanced School of Modern Languages for Interpreters and Translators, University di Bologna at Forlì (SSLMIT) in 1998. Academic research fields: Children’s Literature Translation, especially picture books, graphic novels, etc. Contact Linguistics (Anglicisms in Spanish and Italian languages); Subtitling and Fansubbing, especially applied to Translation Didactics; Translation Competence Acquisition; Translation Studies and History of Translation.

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