E adesso? Dopo più di settant’anni arriva la versione integrale

By Mario Rubino (Università di Palermo, Italia)

Abstract

English:

Mario Rubino provides a detailed history of the reception of Hans Fallada’s novel Kleiner Mann – was nun? in Italy: from the first abridged translation published by Mondadori in 1933, to the general rediscovery in Europe of Fallada’s works at the end of the twentieth century and to the origin of Sellerio’s choice to publish a new edition of the novel. Rubino then recounts his own translation experience, stressing the distinctive features of the text and discussing the translation strategies he adopted to reproduce the narrative effects of Fallada’s prose and  to offer the Italian reader Fallada’s simple, colloquial style.

Italian:

In questo contributo Mario Rubino ripercorre l’intera storia del romanzo di Hans Fallada Kleiner Mann – was nun? in Italia: dalla prima edizione ridotta, apparsa presso Mondadori nel 1933, alla generale riscoperta in Europa delle opere di Fallada alla fine del ventesimo secolo, e al modo in cui è nata la scelta di Sellerio di pubblicare una nuova edizione del romanzo. Rubino riporta poi la propria esperienza di traduzione, sottolineando le peculiarità del testo e argomentando le strategie traduttive adottate per riprodurre gli effetti narrativi della prosa di Fallada e riportare al lettore italiano il suo stile sobrio, tipico della lingua parlata.

Keywords: kleiner mann – was nun, traduzione letteraria, hans fallada, strategie traduttive

©inTRAlinea & Mario Rubino (2013).
"E adesso? Dopo più di settant’anni arriva la versione integrale"
inTRAlinea Special Issue: Ritradurre "Kleiner Mann – was nun?" di Hans Fallada
Edited by: Natascia Barrale & Chris Rundle
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Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/1950

Cominciai a tradurre Kleiner Mann – was nun? su invito di Elvira Sellerio. Già qualche tempo prima fra lei e me c’era stata una chiacchierata in cui mi parlò di quali romanzi tedeschi l’avessero attratta, quando muoveva i primi passi del suo lungo itinerario di appassionata e instancabile lettrice. Uno di quei romanzi era stato E adesso, pover’uomo? di Fallada, nella da lei amatissima collana “Medusa” della Mondadori. Ricordava anche la vecchia edizione Bemporad di Grand Hotel della Vicki Baum.

Il fatto che poi sia l’uno che l’altro di questi romanzi siano ricomparsi ai numeri 767 e 799 della “Memoria” si lascerebbe interpretare come una sorta di ideale riappropriarsi di quelle giovanili esperienze di lettura, ripossedendole anche in senso fisico, fra i titoli, cioè, che arricchivano il catalogo della sua casa editrice.

Quando mi misi all’opera, constatai come prima cosa che nell’edizione italiana del 1933 erano venute a mancare una quarantina di pagine rispetto al testo originale tedesco. L’integralità della traduzione, un principio oggi considerato inviolabile, prese infatti ad essere unanimente condiviso soltanto nella seconda metà del Novecento. Come si è già accennato in apertura, non fu comunque un’esigenza di scrupolo filologico a motivare, in prima battuta, una nuova edizione del libro. E, d’altro canto, la riscoperta dei romanzi di Fallada da parte dell’editoria europea, a sessant’anni circa dalla loro prima pubblicazione era, per così dire, nell’aria.

Nel 1996 la casa editrice londinese Libris e nel 2007 la parigina Denoël avevano pubblicato delle nuove traduzioni, rispettivamente in inglese e in francese, del Kleiner Mann falladiano, e una nuova traduzione spagnola stava preparando anche la Maeva di Madrid. Ma non è questa la sede per interpretare i motivi di una tale renaissance del nostro autore, che si andava avviando già prima che nel 2009 scoppiasse a livello planetario il “caso” editoriale della prima traduzione inglese di Jeder stirbt für sich allein [Ognuno muore solo], con centinaia di migliaia di copie vendute per via della sensazionale, anche se un po’ tardiva, scoperta che non tutti i “little men” tedeschi erano stati willing executioners di Hitler (Goldhagen 1996).

Benché non fosse stato il primo movente di una ritraduzione italiana, lo scrupolo filologico mi indusse a procurarmi sin dall’inizio le nuove versioni inglese e francese del Kleiner Mann, per lasciarmi ispirare nella soluzione di qualche problema traduttorio che potesse presentarsi. Devo confessare che, al riguardo, il risultato fu quanto mai scarso. Imparai invece a conoscere meglio quali risorse offrivano (o talvolta negavano) a chi volesse tradurre un testo narrativo tedesco le due lingue di qua e di là dalla Manica, e a capire come tali risorse, per lo più, fossero inutilizzabili in italiano. C’era di mezzo la diversa capacità espressiva insita in ciascuna lingua ed evidentemente anche la peculiare individualità delle scelte operate dalle due traduttrici, Susan Bennet e Laurence Courtois. Con tutt’e due, a loro insaputa, venni quindi ad intrattenere per qualche mese una sorta di dialogo “unilaterale”.

Partendo dal registro linguistico e dalle soluzioni adottate per renderlo nelle diverse lingue d’arrivo, e dando per scontata la conoscenza del plot del romanzo, va detto che, sul piano dell’espressione, l’opera si struttura su un intermittente discorso autoriale che accompagna un prevalente discorso diretto dei vari personaggi. Gli eventi narrati seguono comunque, di volta in volta, esclusivamente la focalizzazione dei due protagonisti.

Data l’estrazione sociale piccoloborghese o proletaria dei personaggi, sia nel parlato diretto che nel pensiero indiretto libero il registro linguistico si mantiene su livelli alquanto bassi, con eccezionali ricorsi a forme dialettali del nord della Germania nella caratterizzazione dei personaggi più umili. Ma anche le scelte lessicali operate nei passaggi del discorso autoriale corrispondono ad un linguaggio asciutto ed essenziale dell’uso medio, evidenziando l’influsso che, per esplicita ammissione di Fallada, stava esercitando su di lui il cosiddetto stile hemingwayano.

Nella precedente traduzione italiana, fatta da Bruno Revel nel 1933 per la “Medusa” di Mondadori col titolo E adesso, pover’uomo?, questo particolare colorito linguistico era andato perduto quasi per intero, con vistose alterazioni del testo originale. Adottando un pervasivo procedimento di domesticating, il traduttore – come egli stesso dichiara nell’Avvertimento iniziale – «si è permesso di ingentilire o di omettere certe espressioni in considerazione dell’orecchio latino più pudico e musicale» (Revel 1933: 9). In ossequio ad un tale addomesticamento, per riportare solo alcuni esempi dalle prime pagine, espressioni del tutto colloquiali, pronuciate per di più da personaggi del ceto proletario, come schlimm, nimm es nicht so schwer, deine Kerle (“brutto”, “non te la prendere”, “i tuoi uomini”) diventano rispettivamente “laido”, “non ti crucciare”, “i tuoi bellimbusti”, con un’accentuata, oltre che incongrua, letterarizzazione in bella prosa di un testo che volutamente intendeva rinunziare ad ogni letterarietà e riprodurre invece i modi del linguaggio parlato.

A indubbio merito di Revel va tuttavia ascritta la brillante soluzione adottata nella formulazione del titolo, visto che tradurre kleiner Mann con “piccolo uomo” sarebbe stato impraticabile in italiano, a differenza che nelle altre lingue principali, dove si sono avute le versioni little man, petit homme e pequeño hombre.

In un romanzo che si basa in massima parte sulle battute di dialogo scambiate fra i vari personaggi, una delle principali difficoltà è stata per me la resa della naturalezza di quel parlato, nell’uso del quale, qui come altrove, Fallada si rivela quanto mai esperto. Mi sono ritrovato spesso a rimormorarmi interiormente la soluzione immaginata, per “ascoltare” se essa potesse suonare verosimile ad orecchie italiane. In funzione di equivalenza connotativa del parlato tedesco ho dovuto evidentemente fare frequentemente ricorso a forme aferetiche, al cosiddetto ci attualizzante, come anche al ci al posto di gli, oltre che alle riprese anaforiche pleonastiche all’interno della frase e a varie altre divergenze dalla norma, consuete nel linguaggio colloquiale italiano. Ho rinunziato a rendere le poche espressioni dialettali tedesche con arbitrarie corrispondenze regionali del nostro paese, ma, per compensazione, ho enfatizzato il registro linguistico basso di certi personaggi privilegiando l’indicativo a scapito del congiuntivo, che sarebbe stato d’obbligo in talune proposizioni dipendenti.

Nel primo capitolo del Prologo, quando i due protagonisti devono fornire le proprie generalità in uno studio medico, il lettore apprende subito i loro nomi anagrafici: Johannes Pinneberg ed Emma Mörschel. I nomi di battesimo tuttavia non torneranno più, se non molto raramente. Lui resta per tutta l’opera semplicemente Pinneberg e lei Lämmchen, quest’ultimo infatti è il vezzeggiativo con cui le si rivolge il protagonista e con cui anche l’autore la chiama in causa lungo lo svolgimento della vicenda. Lämmchen (“agnellino/a”) è un vezzeggiativo tedesco tuttora in uso, che intende esprimere l’idea di un essere mite e indifeso che si vuol proteggere. In un alternarsi di intenzioni foreignizing o domesticating la resa di questo vezzeggiativo si propone come una pietra di paragone nella storia delle traduzioni del romanzo di Fallada.

Non potendo evidentemente immaginare il valore che la parola avrebbe assunto da lì a vent’anni grazie alle “conigliette” di Playboy, Eric Sutton, il traduttore inglese del 1933 aveva addomesticato “Lämmchen” in “Bunny”. Un addomesticamento analogo si era avuto nella prima traduzione francese di Philippe Boegner, dove la protagonista era diventata “Bichette”. Allontanandosi dal regno animale, Bruno Revel, con un bel salto di qualità, aveva mutuato il nome del protagonista di un romanzo di Enrico Novelli detto Yambo, assai popolare a quei tempi, Le avventure di Ciuffettino: Lämmchen in Italia diventò “Ciuffetto”.

Nelle nuove versioni sia la traduttrice inglese che io abbiamo preferito lasciare inalterato “Lämmchen” col suo effetto di straniamento; mentre la traduttrice francese – senza conoscere, come lei afferma, la vecchia versione – è andata di nuovo dritta su Bichette, vezzeggiativo sempre assai diffuso. Per quel che mi risulta, soltanto in Spagna Lämmchen era stata tradotta alla lettera nel 1934, e “Corderita” è rimasta anche nella nuova versione (Fallada 1934; 2009).

Dal canto suo, la protagonista, rivolgendosi a Pinneberg, usa costantemente in tono fra scherzoso e affettuoso l’appellativo Junge, con cui, specie nel parlato tedesco del nord, si può alloquire un bambino un po’ cresciuto o un ragazzino. E’ evidentemente un vezzeggiativo dal leggero valore ironico intraducibile alla lettera in italiano. Non volendo cadere nelle consuete smancerie bambineggianti in uso nella nostra lingua, che non avrebbero sicuramente reso il senso del vocabolo tedesco, mi sono limitato a renderlo con formulazioni più neutre nella loro abitudinarietà, come “caro” o “amore”.

Un terzo vezzeggiativo di non facile traduzione è quello con cui i protagonisti parlano del loro bambino, già prima della sua nascita e poi per tutto il corso del romanzo. Il vocabolo è Murkel: etimologicamente sta per “minuzzolo”, “briciolina” ed è usato soprattutto nel nord della Germania per designare affettuosamente un bimbo ancora piccolo e bisognoso di cure. Per assonanza verrebbe da tradurlo con “marmocchio”, che però nella nostra lingua ha un valore prevalentemente negativo. Data la frequenza e la molteplicità di contesti con cui il termine si presenta nel corso dell’opera, ho preferito non renderlo col generico e variamente abusato corrispondente italiano di “bebé” o col regionale “pupo”, optando per un più polivalente “piccolo”.

Passiamo ora ad alcuni esempi di termini riconducibili al gap culturale

Nel II capitolo del Prologo, a connotare le convinzioni politiche del padre della protagonista, lo si trova intento a leggere la «Volksstimme» [“Voce del popolo”], un quotidiano di orientamento socialdemocratico, che esistette realmente fino all’avvento del nazismo. Piuttosto che naturalizzare l’informazione con un incongruo equifunzionale italiano, ho preferito ricorrere a una breve nota esplicativa in calce.

Sempre nello stesso capitolo, per significare il disprezzo degli operai nei confronti degli impiegati, Fallada fa fare al futuro suocero di Pinneberg un gioco di parole fra la sigla del sindacato impiegatizio a cui il giovane dice di appartenere, D.A.G., e il vocabolo Dackel [“bassotto”]. In questo caso, visto che quella sigla sindacale, essendo un’invenzione falladiana, non può contarsi fra i realia, sarebbe stato lecito tentare una versione domesticating, e in qualche lingua l’operazione è riuscita. Urtando contro il doppio scoglio dell’italianizzazione di una sigla sindacale plausibile e al tempo stesso deformabile in un ridicolo soprannome animale, mi sono visto costretto a gettare la spugna e a cercare rifugio, a mio disdoro, nella consueta N.d.T.

Nel I capitolo della Seconda parte s’incontra il termine Barmädchen per indicare il tipo di lavoro che la madre di Pinneberg ha fatto in passato. Tradotto alla lettera significa “ragazza che lavora in un locale notturno” ed ha un valore identico ad entraîneuse, il termine francese che si usa in italiano. Tuttavia ho ritenuto un’improprietà rendere una parola tedesca con un’analoga parola francese e ho ripiegato su un giro di frase contenente l’espressione “lavoro in un locale notturno”.

Nel XXII capitolo ricorre più volte il vocabolo Skatbruder nel senso di abituale compagno di partite a skat, il gioco di carte più diffuso in Germania, ma poco noto fuori dai confini tedeschi. Donde la traduzione come “compagno di skat” e una nota esplicativa in calce.

Infine, nel già citato II capitolo del Prologo i due giovani parlano delle loro future fedi nuziali e la ragazza cita il modo di dire popolare, legato ad una superstizione tedesca: Hände besehen bringt Streit (“osservare le mani provoca una lite”). Sarebbe stato possibile addomesticarlo con un qualche modo di dire italiano in cui si presentasse la parola “mano”. Ho preferito la versione letterale “quando ci si guarda le mani, poi si litiga”, ritenendo che il lettore potesse intuire da solo il rimando ad una superstizione.

Vorrei concludere con una riflessione, con un implicito effetto di confronto, sulle caratteristiche della precedente versione del romanzo apparsa nel 1933.

Delle alterazioni operate da Revel sul piano dell’espressione ho già detto in precedenza. Ben più rilevanti furono tuttavia le vere e proprie manomissioni a cui il testo di partenza venne sottoposto sul piano del contenuto. Dalla prima edizione nella “Medusa” fino alle ultime negli “Oscar narrativa” degli anni Novanta il pubblico italiano ha letto un romanzo in cui mancavano una quarantina di pagine del testo originale.

Si trattava di vari passaggi qua e là, più o meno lunghi, ma soprattutto di tre interi capitoli tagliati a piè pari. Essi sono il IV (Pinneberg attraversa il piccolo Tiergarten, ha paura e non riesce a rallegrarsi), il XVI (Pinneberg fa una visita e si lascia indurre alla nudità) e il XVII (Che cosa ne pensa Pinneberg del naturismo...) della seconda parte. Per il taglio degli ultimi due si può ipotizzare un eccesso di pruderie, dato che vi si descrive l’ambiente di una piscina berlinese riservata ai nudisti, anche se in modo assolutamente castigato e per di più con non poco distacco ironico. Per quanto riguarda il IV capitolo, invece, le motivazioni della sua omissione non possono essere state che di natura politica. In esso infatti si parla della sostanziale insicurezza economica dei ceti medi, del profondo disinteresse dei governanti per le condizioni in cui versa l’uomo della strada, delle «bestie del proletariato rese innocue, affamate, disperate»: tutti temi che avrebbero potuto indurre il lettore italiano a facili generalizzazioni e a inopportuni parallelismi con le condizioni del proprio paese. E da ultimo, in quello stesso capitolo, come se non bastasse, si appura che Lämmchen, l’unica eroina davvero e indubbiamente positiva dell’opera, ha la tessera della Sozialdemokratische Partei Deutschlands (“Partito socialdemocratico di Germania”), ma «non nasconde una certa simpatia per i comunisti». C’era bene di che motivare una preventiva autocensura editoriale a scanso di possibili sequestri del libro già stampato.

Riferimenti

Baum, Vicki (1932) Grand Hotel, trad. Dora Dolfi Rotondi. Firenze: Bemporad.

Baum, Vicki (2009) Grand Hotel, trad. Mario Rubino. Palermo: Sellerio, serie “Memoria”.

Fallada, Hans (2009a) Alone in Berlin, trad. Michael Hofmann, London: Penguin Books.

Fallada, Hans (2009b) Every Man Dies Alone, trad. Michael Hofmann, New York: Melville House.

Goldhagen, Daniel Jonah (1996) Hitlers Willing Executioners: Ordinary Germans and The Holocaust, New York: Alfred A. Knopf [trad. it.: I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’olocausto, Milano: Mondadori, 1997].

Novelli, Enrico “Yambo” (1933 ) Le avventure di Ciuffettino, Firenze: A. Vallecchi.

Revel, Bruno (1933) Avvertimento del traduttore, in Fallada, Hans E adesso, pover’uomo?, Milano: Mondadori.

Traduzioni di Kleiner Mann citate:

Fallada, Hans (1933) E adesso, pover’uomo?, trad. Bruno Revel. Milano: Mondadori, serie “Medusa”.

Fallada, Hans (1933) Et puis après? trad. Philippe Boegner, Paris: Gallimard.

Fallada, Hans (1934) Y ahora qué?, trad. Emilia Raumann, Barcelona: Editorial Juventud.

Fallada, Hans (1996) Little Man What Now? trad. Susan Bennett. London: Libris.

Fallada, Hans (2007) Quoi de neuf, petit homme? trad. Laurence Courtois, Paris: Denoël

Fallada, Hans (2008) E adesso, pover’uomo?, trad. Mario Rubino. Palermo: Sellerio, serie “Memoria”.

Fallada, Hans (2009) Pequeño hombre, ¿y ahora qué?, trad. Rosa Pilar Blanco, Maeva, Madrid

 

©inTRAlinea & Mario Rubino (2013).
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