“Traduire est chose vile”: l’Avis au Lecteur nella traduzione francese secentesca

By Simona Munari (Università di Roma Tor Vergata, Italy)

Abstract

English:

In Seventeenth-century France, where artistic creation was conceived as imitation, the work of a translator was assimilated to that of a grammarian and was not regarded as worthy of much consideration. However, the plan for national cohesion which Richelieu sought to promote through the Académie, generated a debate which extended even to the paratexts of translations. The court rivalries and theoretical disputes between better and less well-known translators (such as Chapelain, Chappuys, Lancelot, Vion d’Alibray, Perrault) were expressed in their paratexts. Through an analytical study of a number of Avis au Lecteur, this paper aims to circumscribe the activity of translation in order to identify the coordinates within which authors who followed literary trends, sought acceptance and strived to take part in the literary debate, as part of an ever-changing movement of appropriation and imitation of literary models.

Italian:

Nella Francia del Seicento, in cui la creazione è concepita come imitazione, il mestiere di traduttore, assimilato a quello del grammatico, non gode di grande considerazione, ma il progetto di coesione nazionale promosso da Richelieu intorno all’Académie genera un confronto che trova spazio anche nei testi liminari delle traduzioni. Traduttori noti e meno noti (Chapelain, Chappuys, Lancelot, Vion d’Alibray, Perrault) affidano ai paratesti rivalità cortigiane e rivendicazioni teoriche. Attraverso l’analisi di alcuni Avis au Lecteur lo studio si propone di circoscrivere l’atto traduttivo e precisare le coordinate entro le quali si muovono autori alle prese con le mode letterarie, la ricerca di consenso e l’aspirazione a schierarsi nel dibattito sulle regole in un movimento continuamente riformulato di appropriazione ed emulazione dei modelli.

Keywords: seicento, ispanismo francese, Teoria e pratica della traduzione, paratesti, mestiere del traduttore, dibattito sulla lingua, Académie française, seventeenth-century, French hispanism, translation theory and practice, debate on language

©inTRAlinea & Simona Munari (2020).
"“Traduire est chose vile”: l’Avis au Lecteur nella traduzione francese secentesca"
inTRAlinea Special Issue: La traduzione e i suoi paratesti
Edited by: Gabriella Catalano & Nicoletta Marcialis
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Un libro stampato, rilegato, senza prefazione, è davvero un libro? Se lo chiede Marivaux nella Préface a un romanzo del 1715, La voiture embourbée. No, risponde, solo la prefazione può dargli l’identità di libro; se manca, “c’est une manière de livre, livre sans brevet, ouvrage de l’espèce de ceux qui sont livres, ouvrage candidat, aspirant à le devenir, et qui n’est digne de porter véritablement ce nom, que revêtu de cette dernière formalité” (Marivaux 1997: 11). Una formalità, indispensabile tuttavia affinché il libro si possa considerare completo: che sia piatto, mediocre, buono o cattivo, i testi liminari gli danno patente di esistenza, per quanto sia “comica” – avverte Marivaux – l’idea che prefazioni piene di autoelogi possano essere considerate attendibili. Se almeno gli autori per salvarsi dal ridicolo annunciassero le loro opere con prudenza e modestia! Ma neanche questo, a ben vedere, riuscirebbe a tutelare l’autenticità con cui i libri sono pensati e scritti, il “naturel” con cui se ne dovrebbe parlare: “Sans l’embarrassant dessein de faire cette préface, j’aurais parlé de mon livre en termes plus naturels, plus justes, ni humbles, ni vains” (Marivaux 1997: 13).

Marivaux coglie e denuncia con ironia il tratto peculiare di una pratica che nel corso del secolo precedente aveva convertito uno spazio destinato a illustrare il lavoro autoriale in luogo di confronto e ricerca di legittimazione presso la Corte. Gli scrittori si interrogano sul processo creativo in un percorso di cui gli Avis au Lecteur segnano le tappe, generando un ampio movimento critico che parte dal teatro per poi estendersi agli altri generi. La traduzione vi assume una funzione che qui tenteremo di delineare attraverso la figura del traduttore: non tanto sulle caratteristiche delle “belles infidèles” (Zuber 1995) intende quindi soffermarsi questo contributo, quanto sulle implicazioni di un’attività che all’inizio del Seicento costituisce spesso una parentesi tra un impegno intellettuale e l’altro.

Poiché la scena era il più fecondo e vivace campo di sfida per gli scrittori che vivevano di mecenatismo, la “bataille du théâtre” (Rousset 1953: 269) si realizza in “toute une littérature de traités et de préfaces” che come ricorda Marc Fumaroli (2001: 54) contiene anche una “querelle de la traduction”. Il carattere degli interventi traduttivi e il discorso critico che ne deriva concorrono al rinnovamento di una drammaturgia in bilico tra barocco e classicismo. Il dibattito sul teatro “irregolare” si radica nel rifiuto della dimensione storica in nome della verosimiglianza, e reclama l’autonomia nella scelta dei soggetti: l’Italia, patria di quel “classico” che la Francia riesce infine ad attribuire al suo Grand Siècle, rappresenta un modello che gradualmente sostituisce gli autori dell’antichità (Dalla Valle 1969); la Spagna, soprattutto dopo i matrimoni reali del 1615, è protagonista di una moda letteraria e linguistica che segue le fasi alterne della politica e si sostanzia in un laboratorio di trasposizioni, contaminazioni e intersezioni di genere (Munari 2012).

Se infatti il concetto di creazione non implica nel Seicento l’idea attuale di originalità assoluta ma è declinato secondo vari gradi di imitazione, la scelta del modello e il grado di affinità sono elementi teorici continuamente riformulati intorno al concetto di “fedeltà”. La traduzione prevede rimaneggiamenti che possono interessare piani diversi, dal cambio di genere a modifiche considerevoli di struttura e personaggi, fino allo stravolgimento proclamato dell’originale per motivi di solito connessi alla ricezione. Quando le “correzioni” diventano oggetto di riflessione teorica e si fa più evidente l’esigenza di ripristinare una correlazione con la fonte, la maggiore ricerca di letteralità convoglia distorsioni tanto impercettibili quanto sostanziali attraverso didascalie o note esplicative che trasformano le traduzioni in vere e proprie edizioni critiche. Ai ragionamenti sulla fedeltà, scorrevolezza ed eleganza della composizione subentrano questioni di contenuto, di connotazione e coesione, insieme a commenti sulla struttura del testo originale e sull’importanza dell’incarico traduttivo, mentre il discorso sulla coerenza sintattica, lessicale e ritmica del testo tradotto si esplicita nell’elaborazione di un francese moderno che protegga la “memoria della lingua” (Fumaroli 1994: 121) contro le norme mondane e accademiche.

Le ricerche sull’italianismo e l’ispanismo francese hanno sottolineato il peso delle prefazioni teoriche nella polemica che vede gli italiani diventare il nuovo referente letterario. Autori come Tasso, Guarini e Bonarelli della Rovere, tra gli altri, sono tradotti, riscritti e imitati in una flessibilità soggetta ad accelerazioni, ripensamenti e battute d’arresto. Gli Avis au Lecteur analizzati da Giovanni Dotoli (1996) e gli studi sui traduttori del Tasso di J. Alan Dainard (1985), Daniela Mauri (1996) e Daniela Dalla Valle (2008, 2016) mostrano come anche prima della Querelle du Cid (1637) nei paratesti siano veicolati problemi di struttura e prospettive estetiche che rimettono in discussione il ruolo del pubblico e il compito dell’autore, anticipando i temi della Querelle des anciens et des modernes.

Il linguaggio e la drammaturgia si adeguano ai canoni innovativi, le forme si sovrappongono e intrecciano (particolarmente il pastorale e il tragicomico), ma il teatro alimenta anche una produzione in prosa che sfrutta una moda senza riuscire a trovare un’identità propria, rendendo fluida la nozione stessa di genere in una “imitazione obliqua” (Cioranescu 1966: 85) nella quale assumono rilievo i destinatari e le funzioni testuali. Le osservazioni sulla pratica del tradurre disseminate negli apparati liminari delineano storie complesse che chiariscono l’evoluzione dei generi, permettono di ricostruire il senso e la portata dell’opera di certi autori, rivelano la percezione del mestiere di traduttore in una stagione nella quale “écrivain” – almeno fin verso il 1660 – era un termine dispregiativo (Duprat 2007: 37).

I traduttori si copiano tra loro, plagiano gli originali, fingono di aver ritrovato manoscritti (Munari 2010) in un’operazione culturale “troppo complessa per essere definita con i termini correnti di traduzione, adattamento, imitazione” (Dalla Valle 1984a: 272), un’operazione folgorante e vertiginosa che genera una letteratura “di seconda mano” (Compagnon 2016: 53) in cui la riscrittura, innescata da un gioco di citazioni più o meno dichiarate, diventa il centro del lavoro testuale. La difficile identificazione delle fonti e i problemi frequenti di attribuzione lasciano intendere una consuetudine di “larcin à un bel esprit” – per citare il gesuita Dominique Bouhours, “oracolo del buon uso della lingua” (Fumaroli 1994: 181) – talmente diffusa da rendere arduo il tentativo di circoscriverne le modalità. Ancora a fine secolo Padre Bouhours trova opportuno ricordare che “un bel esprit est riche de son fond”, non ha bisogno di depredare testi antichi o stranieri: “Si l’on vouloit se donner la peine de bien examiner leurs ouvrages, on trouveroit que le pais des belles lettres est plein de larrons” (Bouhours 1671: 200).

È quindi essenziale, nella dimensione sociale di una Corte che è “tema, non solo teatro, di conversazione” (Fumaroli 1994: 139), dare voce al proprio lavoro. Le prefazioni si dilatano: “Ce ne serait pas mal prendre son temps, à cette heure que les Préfaces sont aussi grandes que les livres, et que l’on a tant de choses à dire à ceux qui n’ont pas la patience de les écouter”, lamenta Jean-Oger Gombauld nel prologo a L’Amaranthe, una pastorale del 1631 (Dotoli 1996: 256). Se consideriamo i testi liminari una forma di corrispondenza pubblica con un lettore fittizio che è riflesso dell’autore stesso (Chikhaoui 1990: 143), essi concorrono a tutti gli effetti a quella “teatralizzazione dell’io” (Craveri 2001: 320) su cui prende vita l’esprit de société. La “disinvoltura pedestre” dei testi cinquecenteschi in cui si apostrofano il lettore e il dedicatario lascia spazio ad amabili formule di “cortese incertezza” (Duprat 2007: 34), prettamente secentesche, impregnate di sprezzatura. Le strategie retoriche affinate nel tempo fanno delle Préfaces un momento destinato a discutere non solo la fidélité, ma anche l’agrément, la vraisemblance e la bienséance, la libertà dell’autore e la relatività del gusto.

Le versioni ad usum delphini, dalla raccolta di Huet et Montausier destinata all’erede di Luigi XIV (Volpilhac-Auger 2000) agli adattamenti dei romanzi per l’insegnamento delle lingue straniere, alimentano l’opinione che tradurre sia “chose vile”, come scrive Chapelain nel 1619 presentando la sua versione del Guzmán de Alfarache di Mateo Alemán. Realizzato nell’ambito dell’attività di precettore presso il marchese de la Trousse, questo lavoro sollecita una serie di considerazioni da cui traspare una visione del tradurre come attività che non si può “embrasser que par passe-temps” poiché presuppone “bassesse de courage et ravalement d’esprit”. Chapelain riferisce di aver dovuto vincere un senso di “répugnance” nell’affrontare un testo che gli è stato imposto, consapevole com’è che nessuna traduzione potrà mai raggiungere il successo dell’originale. L’approccio testuale rivela talento e abilità linguistica: conserva in francese le “propriétés” dello spagnolo e riconosce di averne acquisito alcune “bassesses”, ma rielabora i passi “de sens obscur et de sens caché, bref d’intelligence pénible” a rischio di essere tacciato “de superfluité et d’affectation d’abondance” (Chapelain 1619: Avertissement).

Il traduttore si considera dunque un autore prestato a una pratica minore, poco riconosciuta almeno finché la traduzione non esce dalla dimensione pedagogica e divulgativa che le è assegnata in ambito gesuita. Per quanto l’originalità consista nell’imitare in modo creativo, si delineano norme operative che presuppongono un’ottima conoscenza della lingua straniera, tale da restituire correttamente il contenuto e offrire al lettore un testo adeguato evitando forme insolite. La revisione della fonte si giustifica nella necessità di correggere errori e possibili fraintendimenti legati al lavoro di traduzione, perciò il paratesto si fa interprete, prima ancora che di un’idea di lettura, di un’idea di scrittura. Benché la parola del traduttore si esprima anche nelle dediche, nelle didascalie e nelle note di traduzione, è nel prologo che si rimette in questione “l’illusione della trasparenza” (Venuti 1999: 26): che commenti certe scelte o discuta le traduzioni precedenti, che si scusi di eventuali errori, si esponga o si ritragga, la sua voce inquadra la traduzione allografa in una precisa dimensione autoriale (Letawe 2018). Nella risonanza generata da questo meccanismo potremmo dire che prende forma, in senso bermaniano, un ragionamento sul “progetto”, l’”orizzonte” e la “posizione” del traduttore (Berman 1995: 93).

Chapelain parla di Alemán e della fortuna del romanzo dentro e fuori la Spagna, spiega le ragioni della traduzione, precisa i suoi interventi in termini linguistici e strutturali: un assetto retorico che, con alcune varianti, diverrà ricorrente. Il contraddittorio implicito (o esplicito, quando altri traduttori vengono chiamati in causa) riguarda però solo marginalmente l’atto traduttivo. Alle imprecazioni di rito contro la traduzione come mero lavoro di elocutio seguono considerazioni sulla competenza dei grammatici, non sufficiente “quand elle serait parfaite” a farne dei buoni traduttori, e la Préface si chiude con una dichiarazione di intenti, ovvero mostrare del Guzmán “non tout ce qui y était, mais tout ce qui en pouvait plaire”. Chapelain esprime la sua padronanza delle tecniche e dei mezzi espressivi anche nel giudizio su Gabriel Chappuys, traduttore noto e stimato che nel 1600 aveva dato una sua versione: il testo spagnolo gli pare “trop friand” per il collega, il quale avrebbe lavorato “si mal, que si ses oeuvres premières lui eussent onc donné du nom, cette dernière le lui otait sans remède” (Chapelain 1619: Avertissement).

Il raffronto fra traduzioni diverse sulla base di passi scelti presenta un’incontestabile efficacia dimostrativa nell’illustrare una pratica che vuole conciliare eleganza e precisione linguistica con il rispetto del significato testuale. Ma più che generare una “teoria” della traduzione, questa prassi produce un doppio movimento di svalutazione e valorizzazione (Chevrel et al. 2014: 252-57), una competizione serrata che si esprime in una serie di “dottrine personali” disperse in testi brevi, “déguisement du savoir en simple expression d’un avis dont on assure sans cesse son interlocuteur que l’on pourrait se défaire aisément pour lui plaire” (Duprat 2007: 23). L’intenso movimento di imitazione e ibridazione che caratterizza il Seicento sul piano letterario attesta vari gradi di appropriazione ed emulazione, sicché ricostruire l’itinerario di alcuni titoli riporta alla luce le rivalità tra autori impegnati a interpretare, ciascuno a suo modo, le richieste della committenza e del pubblico (Blondet 2017). Il paratesto serve allora a definire la distanza dall’originale in termini di soppressioni, modifiche e aggiunte, ma è soprattutto il momento in cui il traduttore mostra i suoi limiti, rivela le sue ambizioni, lascia trapelare le strategie mondane e l’ambiente politico entro il quale si muove (Rivara 1990: 155).

Nell’Avertissement au Lecteur che introduce la seconda parte del romanzo, intitolata Le Voleur ou la vie de Guzman de Alfarache. Seconde partie (1620), Chapelain afferma che intendeva “sans autre cérémonie” darla alle stampe senza prefazione, ma si è risolto a scriverla “y trouvant choses toutes nouvelles, et pour me contenter ayant pris un autre chemin de la traduire, plus agréable et plus généreux”. Si fa strada un discorso sulla purezza dello stile che farà di lui un convinto “régulier” e poi uno degli autori più autorevoli dell’Académie, protetto da Richelieu e chiamato a dirimere la spinosa faccenda del Cid. Nonostante le sei riedizioni, la prefazione al Guzmán resta anonima in spregio a un’attività che ha valore, a parere di Chapelain, solo nella misura in cui al traduttore sia concesso intervenire sulla dispositio. Nel momento in cui è invece chiamato a valutare le basi del sistema poetico (è il caso della prefazione che Giambattista Marino gli chiede nel 1623 per l’Adone) o a definire i criteri di un’opera riuscita (come nei Sentiments de l’Académie sur la tragi-comédie du Cid, 1637), Chapelain non si sottrae alla querelle sui margini di negoziazione tra libertà e obbedienza alla regola.

Eppure il Guzmán segna un momento decisivo nella formazione del suo pensiero critico: il rifiuto del modello letterario spagnolo a favore di quello italiano si manifesta in una sensibilità per le questioni linguistiche di cui dà prova nel commento al testo, dove il discorso sulla traduzione, rispetto alla quale sottolinea la mancanza di chiari parametri di giudizio (“autant de tetes, autant de sens”), si allarga a una riflessione sulla necessità di fissare nuove regole “du bien écrire et du bien parler” (Chapelain 1620) che rimettano in discussione i precetti della tradizione umanista e i modelli antichi. Il suo italianismo non riguarderebbe quindi una specifica dottrina o modelli concreti di poesia e narrativa, quanto piuttosto la ricerca di un rapporto dinamico tra l’opera e la sua teoria, ed è da leggere in tal senso anche la scelta di partecipare alla fondazione dell’Académie, concepita sulla falsariga della Crusca fiorentina (Duprat 2007: 45).

Chapelain vuole dotare il Paese di un sistema di pensiero e di codifica del letterario che segue l’affermarsi della lingua francese come alternativa al latino, e per questo ridisegna ruoli e competenze in materia di letteratura. Ritiene incapaci di giudizio coloro che non sono stati allevati a Corte e non conoscono i libri francesi: gli eruditi, i pedanti, gli scrittori di provincia, i gesuiti stranieri e chiunque venga da fuori, si esprima in dialetto o pecchi di regionalismi. Il progetto dell’Académie non è ancora nato e già alla traduzione, assimilata alla scrittura, è affidato il compito di descrivere, celebrare e promuovere la clarté e netteté della lingua francese, la sua propensione al raisonnement e alla douceur in nome di una parola “perfezionata, erudita, delicata” (Janin 1867-68: 455) di forte matrice femminile (Craveri 2001: 15). Epurarla dal latino, ma soprattutto “regolarne il buon uso, ridurre e distinguere” è secondo Giovanni Macchia (1987: 666-8) il fine ultimo della trasformazione del francese in una “place Royale” dove si orchestra un dialogo tra mondi diversi (Fumaroli 1994: 254).

La traduzione partecipa in modo sistematico al perfezionamento della lingua di Corte, e per quanto marginale, poco prestigiosa e vincolata a faticose strategie discorsive, l’attività di traduttore apre le porte di un’officina culturale all’interno della quale ciascuno è chiamato a interpretare un copione. Nel rinnovamento della tradizione retorica sul quale si fonda il quadro di coesione nazionale e supremazia culturale voluto da Richelieu, discutere il proprio lavoro in sede paratestuale è una promessa di esistenza nei Salons: “Maintenant que je suis devenu Livre et qu’il t’a coûté de l’argent pour savoir mon nom, je me trouve obligé de t’entretenir” scrive Georges de Scudéry con la consueta ironia nella dedica A qui lit che introduce la tragicommedia Ligdamon et Lidias ou la Renaissance (1631) in cui si dichiara contrario, in nome del pubblico, a qualsiasi costrizione di ordine estetico (Dotoli 1996: 260). “Il est vrai que je prends un mauvais sujet, puisque c’est de moi que je te parle”, ammicca Scudéry: “jouer le personnage d’un poète” conferisce autorevolezza intellettuale e sancisce l’appartenenza a un universo chiuso retto da precise leggi di comportamento.

Nella pratica mondana della critica testuale la discussione, di solito organizzata intorno a questioni creative e traduttive definite sulla base dell’appartenenza a una certa corrente, tende a fissare un protocollo di lettura rivolto principalmente ai colleghi. L’argomentazione deve pertanto adattarsi a situazioni in continuo mutamento garantendo a entrambe le parti un ruolo brillante (Duprat 2007: 25). Le traduzioni degli stessi testi, spesso contemporanee o di poco successive, non nascono quindi unicamente sotto il segno dell’emulazione o come strategia di conquista del pubblico, ma rientrano nelle molteplici implicazioni che l’arte della conversazione ebbe sulla letteratura, nel “ripensamento delle sue forme, regole e obiettivi” (Craveri 2001: 458).

La vicenda del Solimano di Prospero Bonarelli, di cui Charles Vion d’Alibray e Jean Mairet danno due versioni – rispettivamente nel 1637 e nel 1639 – di notevole interesse teorico per gli interventi innovativi di segno diverso (Dalla Valle 1984b) che vanno ben oltre il generico “habiller à la française”, o il confronto tra d’Alibray e Rayssiguier traduttori dell’Aminta (Dalla Valle 2016) sono una testimonianza di quanto gli autori sentissero la necessità di scomporre il processo creativo e di come la traduzione si prestasse a questa esigenza. Nel 1632 Rayssiguier pubblica una traduzione dell’Aminta come Tragicomedie pastoralle accommodée au Theatre François avvisando il lettore che non si dilungherà sulla natura e le caratteristiche del testo in quanto “les Préfaces de quelques-uns de nos écrivains sont assez amples pour t’en instruire sans que je t’en parle” (Au Lecteur); lo stesso anno Vion d’Alibray redige una versione “fidellement traduitte de l’Italien en vers François”, laddove la fedeltà non riguarda l’aspetto linguistico ma l’applicazione dei criteri che sanciscono la sua posizione di “régulier”. Un’attitudine che Daniela Mauri (1996: 103-104) ha sintetizzato nell’espressione “fidélité critique ou fidèle indépendance” già evidente nella traduzione del Torrismondo tassiano (1636, 2019), dove Vion, scena per scena, elenca i suoi interventi riconoscendo di essere rimasto “bien derrière le Tasse”. Le tre sezioni della Préface (sul Tasso, il Torrismondo e la tecnica di traduzione) piene di riferimenti ai classici (Aristotele, Platone, Cicerone, Calstelvetro) e al teatro antico (Terenzio, Sofocle, Seneca) compongono un testo “d’avanguardia” (Dalla Valle 2007) sulla scrittura teatrale che riprende la questione del rapporto tra récits e scene d’azione già trattata nell’Aminta (Dalla Valle 2008: 176-177).

Nella strategia mondana della dissimulazione del sapere, tradurre è comunque un’attività marginale: “C’est seulement une fois l’année que pour me divertir ie m’amuse à ce mestier, lors que ie suis retiré à la campagne”, ammette Vion (1636: Au Lecteur) riferendosi alla traduzione come al “labeur le plus ingrat de tous”. Anche il gesuita Antoine Torche, traduttore di Tasso e Bonarelli, approfitta di un soggiorno in campagna per affrontare il Pastor fido di Guarini chiedendosi come declinare una lingua che non ammette tutte le “élévations pompeuses” dell’italiano. Sceglie di procedere per gradi e dà alle stampe il primo atto nel 1664 con un prologo Au lecteur in cui afferma di considerare quella prova un saggio per capire il gusto del pubblico: “Je suis de ceux qui affirment que la traduction doit être agréable d’elle-même: car si elle ne plaît pas toute seule elle ne plaira pas avec l’original” (Torche 1664). A fronte di un’evidente sfiducia nell’adattamento (“accomoder”) del testo al gusto e al “génie” dei lettori, esprime per Suzanne Guellouz (1990: 265-66) una fiducia nuova nella Traduzione come mezzo “pour faire connaître à ceux qui n’entendent pas les langues quel a été le génie des auteurs qui ont écrit”, come una decina d’anni dopo scriverà Pierre Perrault (1678) nel presentare la Secchia rapita di Tassoni.

Il “génie des lecteurs” e il “génie des auteurs” (ma quali autori, gli stranieri o i traduttori?) trovano un equilibrio nella figura del lettore fittizio al quale lo scrittore si rivolge nel prologo, suo doppio ideale ma anche strumento di una possibile mediazione con le stanze del potere. Lo studio dei testi liminari permette allora di osservare come nel dibattito sul valore letterario dell’originale e della traduzione si determinino “le condizioni di possibilità di ogni nuova creazione” (Duprat 2007: 50), e come nella lenta costruzione retorica che porta il francese ad essere espressione definitiva della vocazione egemonica del “regno archetipico di Luigi XIV” (Fumaroli 1994: 43) l’atto traduttivo sia certamente una “operazione culturale di mediazione tra la Francia e i suoi modelli” (Dalla Valle 1984b: 107) ma soprattutto un luogo in cui, nel quadro del “naturel” invocato da Marivaux, si fissa un canone per la produzione e per il giudizio di un’opera d’arte riuscita.

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––––– (2004) Le Soliman. Tragi-comédie, Simona Munari (ed), Roma, Aracne.

Volpilhac-Auger, Catherine (2000) La collection Ad usum Delphini. L’antiquité au miroir du grand Siècle, Grenoble, ELLUG-Université Stendhal.

Zuber, Roger (1995) Les “belles infidèles” et la formation du goût classique, Paris, Albin Michel.

About the author(s)

Simona Munari teaches French language and translation at the University of Rome Tor Vergata. Her research centers on translational practice and re-writing as forms of mediation among European cultures in the modern era, with a particular focus on questions of theory which, beginning in the 17th century, have impacted French literary debate on the function of language as a model and vector of cultural exchange in Early Modern Europe. She has studied translation as a form of censure, as well as the evolution of the French language together with the definition of the literary canon and the development of literary genres. She currently works on literary translation, re-translation and self-translation in collaboration with Italian and foreign research groups. She has published monographic studies, critical editions, translations and articles in collective volumes and scientific journals. Besides, she coordinates a project on the inventory and circulation of various unpublished archives at the Collège de France in Paris.

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©inTRAlinea & Simona Munari (2020).
"“Traduire est chose vile”: l’Avis au Lecteur nella traduzione francese secentesca"
inTRAlinea Special Issue: La traduzione e i suoi paratesti
Edited by: Gabriella Catalano & Nicoletta Marcialis
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Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2473

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