Il trattamento dei nomi propri nella traduzione di documenti giuridici tra l’italiano e l’inglese

By Rocco Loiacono (University of Western Australia, Perth, Australia)

Abstract

English: International treaties have been defined as “hybrid texts”, that is, texts that are produced outside the setting of the legal systems of the interested States. This does not mean, however, that their translation will be free from problems of an intercultural nature. That is, some form of mediation between the legal cultures of the signatory States will be required. The corpus of documents chosen for analysis in this paper is the bilateral treaties that are in force between Italy and Australia. These two countries belong to different legal cultures: Italy to that of continental civil law and Australia to that of the common law. In translating legal documents in this setting, difficulties will arise as there can never be a perfect correspondence between legal systems. To overcome such difficulties, scholars have suggested that a comparative approach be adopted whereby a translator acquires a good knowledge of the sense and the function of particular legal terms in the source language before undertaking their translation. The traditional definitions of proper names and common nouns have been reviewed in recent times, in particular from the point of view that proper names have a sense which is derived from a particular cultural situation. This theory posits that words or expressions previously not considered to be proper names can now be potentially viewed as such. As legal terms are inextricably linked to the culture in which they have developed, each legal term has a specific reference that derives from the legal culture to which it belongs, it may be argued that legal terms can be considered as belonging to the category of proper names in certain circumstances. Numerous strategies have been applied by translators to proper names that take into account their cultural significance and meaning in order to render them appropriately in the target language. If legal terms can be classified as proper names, then various strategies that have been developed with regard to the translation of proper names may be applicable to legal translation. This hypothesis will be applied to the corpus of documents the subject of this paper

Italian: “Testi ibridi” è la denominazione proposta per le convenzioni internazionali in quanto la loro redazione trascende i diversi ordinamenti giuridici dei Paesi interessati. Ciò non significa, tuttavia, che la loro traduzione non comporti problemi di ordine interculturale, ossia una traduzione che richiede, in una certa misura, una mediazione tra le culture giuridiche dei Paesi firmatari. Il corpus di documenti che si sottopone all’esame in questo contributo è composto dagli accordi bilaterali vigenti tra l’Italia e l’Australia, due Paesi che appartengono a due culture giuridiche diverse, rispettivamente il sistema dei codici civili dell’Europa continentale occidentale e della common law. Poiché raramente sussiste una corrispondenza perfetta tra due sistemi giuridici diversi, il traduttore deve affrontare complessi problemi di ordine terminologico e semantico dovuti alle radicali differenze nelle categorie e nelle ripartizioni concettuali. Per superare tali difficoltà, alcuni studiosi propongono un approccio comparativo che richiede una conoscenza approfondita del senso e della funzione dei concetti giuridici del sistema della lingua di partenza prima di procedere alla traduzione. La distinzione tra nomi propri e nomi comuni è stata riesaminata da vari studiosi, in particolare dal punto di vista di nomi propri come portatori di senso, quest’ultimo, a sua volta, legato ad un determinato ambiente culturale. Tale ipotesi prende il concetto di nome proprio e lo amplia, e di conseguenza si potrebbero collocare nella categoria dei nomi propri vocaboli che precedentemente non venivano classificati in questo modo. Questa osservazione potenzialmente significa che, in determinate circostanze, si possono considerare i termini giuridici come attinenti alla categoria dei nomi propri. Varie strategie sono state sviluppate per quanto concerne la traduzione dei nomi propri per far sì che si tenga conto del loro peso culturale e del loro senso nel tentativo di renderli in modo adeguato nella lingua d’arrivo. È per questo motivo che la traduzione dei nomi propri è considerata molto pertinente alla traduzione giuridica. Se i termini giuridici possono essere classificati come nomi propri, le diverse strategie avanzate per tradurre quest’ultimi potrebbero rivestire una maggiore importanza nel campo della traduzione giuridica. Tale ipotesi verrà applicata al corpus per dimostrare come le varie strategie traduttive riguardanti i nomi propri si prestino alla traduzione giuridica.

Keywords: legal translation, intercultural mediation, proper names, bilateral treaties, traduzione giuridica, mediazione interculturale, nomi propri, accordi bilaterali

©inTRAlinea & Rocco Loiacono (2011).
"Il trattamento dei nomi propri nella traduzione di documenti giuridici tra l’italiano e l’inglese"
inTRAlinea Special Issue: Specialised Translation II
Edited by: Danio Maldussi & Eva Wiesmann
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/1799

1. Introduzione

Il presente contributo intende analizzare la traduzione dei nomi propri nel contesto della traduzione di documenti giuridici dall’italiano all’inglese e viceversa. Tale tema viene trattato attraverso l’analisi di un corpus di documenti composto dagli accordi bilaterali vigenti tra l’Italia e l’Australia.

Nella traduzione giuridica, un fattore importante da prendere in considerazione sono gli ordinamenti giuridici coinvolti (Wiesmann 2011 in questo volume). Se la traduzione si svolge all’interno di un solo ordinamento giuridico i casi da distinguere sono tre: 1) l’ordinamento in questione è un ordinamento nazionale plurilingue (ad esempio la Svizzera), 2) l’ordinamento è sovranazionale (ad esempio il diritto comunitario) e 3) l’ordinamento è internazionale (e qui siamo nel campo del diritto internazionale). Gli accordi bilaterali che compongono il corpus appartengono alla categoria degli ordinamenti internazionali, ma verrà dimostrato che la traduzione di questo tipo di testo non è prettamente intraculturale, ma in una certa misura anche interculturale, ossia una traduzione che richiede una mediazione tra le culture giuridiche dei Paesi firmatari.

La stesura di un documento normativo in una situazione multilingue presenta delle difficoltà peculiari per il traduttore, in particolare quando, com’è il caso tra l’Italia e l’Australia, l’ordinamento giuridico del Paese della lingua di partenza è del tutto diverso da quello della lingua d’arrivo. Schena (1997: 22) offre la seguente sintesi del problema: “[L]e differenze tra i sistemi di common law e quelli di diritto continentale [...] necessariamente investono i modi di concepire la realtà giuridica riflettendosi nei testi creati all’interno dei due ordinamenti.” Tale sintesi risulta applicabile anche agli accordi bilaterali in quanto la loro traduzione è in parte interculturale.

In questo contributo si passeranno al vaglio diverse strategie traduttive per vedere in che misura esse sono in grado di mediare tra diverse realtà giuridiche. Per facilitare lo sviluppo di questo argomento, si inizierà con un’elaborazione della distinzione tra nomi propri e nomi comuni, distinzione che è stata riesaminata da vari studiosi, in particolare dal punto di vista dei nomi propri come portatori di senso, quest’ultimo, a sua volta, intimamente legato ad un determinato contesto culturale. Questa osservazione potenzialmente significa che, in determinate circostanze, si possono considerare i termini giuridici come attinenti alla categoria dei nomi propri, e ciò a sua volta vuol dire che le strategie formulate in merito alla traduzione dei nomi propri possono rivelarsi applicabili alla traduzione giuridica. Tale ipotesi verrà applicata al corpus per dimostrare come le varie strategie traduttive avanzate per i nomi propri si prestino alla traduzione giuridica.

2. I nomi propri

2.1 Nomi propri vs. nomi comuni

I nomi propri sono stati considerati da punti di vista differenti da studiosi provenienti da diverse discipline. Essi costituiscono un campo di studio importante, non soltanto negli ambiti della linguistica, della filologia e della logica, ma anche della politica, dell’amministrazione e del diritto. In una certa misura le diverse discipline sopraelencate focalizzano la propria attenzione su vari problemi per quanto riguarda i nomi propri: che tipo di sostantivo sono, a che cosa si riferiscono, come vengono utilizzati e selezionati e da chi, eccetera (Allerton 1987: 61-62). Quindi, che cos’è un nome proprio? La distinzione tradizionale tra nome proprio e nome comune è stata sintetizzata da Särkkä (2007): “Basically, nouns are classified as common or proper. Common nouns refer to a class of entities (e.g. squirrel), while proper nouns have a unique referent (John, London).”

Molti sono gli studiosi che hanno approfondito la ricerca su questo tema, e quel che emerge è che la distinzione tra nome proprio e nome comune è tutt’altro che ben delineata. Risulta infatti che vocaboli che a prima vista appaiono nomi comuni, o che tradizionalmente vengono considerati come tali, possono avere la funzione di nomi propri. Secondo la teoria di Allerton (1987) e di Van Langendonck (2007), non solo i sostantivi di luoghi, di persone o di istituzioni sono classificabili come nomi propri. Una caratteristica fondamentale di un nome comune, secondo Allerton (1987: 64), è che si presta alla modifica per mezzo di articoli, di quantificatori, di dimostrativi, di frasi aggettivali, di clausole relative restrittive e via dicendo. Per esempio, il sostantivo “uomo” può essere modificato in più modi: quest’uomo, un uomo nuovo, entrambi gli uomini. Al contrario, nomi come le Alpi non possono essere modificati in un’Alpe per motivi lessicali. I nomi propri, però, possono possedere modificatori restrittivi, che servono a precisarne il significato: ad esempio l’Italia settentrionale, quale espressione riferita ad una realtà della geografia italiana, così come la Corea del Sud e la Corea del Nord esprimono una realtà politica di ambedue i Paesi (Allerton 1987: 66). Secondo Van Langendonck (2007: 249), i sostantivi che hanno la funzione di termini (ossia, che non sono numerabili) possono essere classificati come nomi propri in alcune circostanze:

Nouns functioning as terminological items, mass nouns and clauses can be construed as proper names in a limited number of constructions [...]. Terms for notions, concepts and the like may figure in apposition, or in sentences in which these words function as subjects and the categorical term is in a predicative position. It seems only then that they are to be viewed as proper names. Semantically, the words in these constructions are focused on as specific, unique entities with an ad hoc reference.

Lo stesso Van Langendonck cita la frase “English is a widespread language” per dimostrare che “English” funziona come nome proprio, essendo privo di un articolo determinativo e possedendo una struttura morfologica che è impossibile modificare in questo caso.

Per di più, Särkkä (2007) sostiene che una categoria di nomi propri consiste di “converted common nouns”, i quali “have all the distinguishing features of proper nouns: Luonnontieteellinen keskusmuseo (‘Finnish Museum of National History’), Kansallisarkisto (‘Finnish National Archives’), Torisilta (‘Market Bridge’).” Tali sostantivi non dispongono delle caratteristiche che di solito si associano alla definizione tradizionale di nomi propri. Särkkä li definisce come descriptive proper nouns.

2.2  La funzione e il senso dei nomi propri

È possibile distinguere i nomi propri dai nomi comuni? Vari studiosi hanno considerato il problema tramite la lente della funzione del sostantivo. Salmon Kovarski (2002: 85-86), citando Superanskaja (1973: 269-273), nota che le funzioni comunemente attribuite a un nome proprio sono: comunicative, vocative, espressive, deittiche e ideologiche. Inoltre, come sostiene Marmaridou (1989: 355), i nomi propri dispongono di una funzione che è palesemente referenziale. In fondo, la funzione dei nomi propri non è diversa da quella dei nomi comuni, tuttavia, Superanskaja (1973: 273-274) non manca di affermare che:

there are special onomastic functions of proper names [which] also have an extralinguistic dimension, although they are fulfilled by linguistic forms (names). The onomastic functions of names are defined by the “social mandate” and are often explained not by linguistic facts, but by the social knowledge of correlations between things.

Viezzi (2004: 28) segue la logica elaborata da Superanskaja e aggiunge:

Ancora, i nomi propri sono significativi in quanto servono da indicatori con riferimento alla sfera sociale, etnica, affettiva, culturale e pragmatica [...]. Attribuiti secondo consuetudine e per convenzione (o, al contrario, in deliberata violazione di consuetudini e convenzioni) e interpretati di conseguenza, i nomi propri sono quindi in grado di fornire una serie di informazioni o, quanto meno, appaiono connotati (e, come si vedrà, è la stessa forma del nome a costituire la base delle connotazioni); i nomi propri si prestano dunque a supposizioni e inferenze (ragionevolmente probabili, anche se non necessariamente corrette) che rispondono ad aspettative determinate dall’esperienza o dalla conoscenza.

Alla luce di quanto citato sopra, e al contrario di ciò che è stato sostenuto in passato, gli autori contemporanei riconoscono ai nomi propri un senso. Salmon Kovarski (1997: 68) sottolinea:

oggi sembra finalmente assodato che ogni tentativo fatto per ridurre i nomi propri ad elementi extra-linguistici o a “contenitori vuoti”, dalla ambigua funzione appellativa, abbia ottenuto sufficienti e convincenti controprove.

Nell’ascrivere ai nomi propri un senso, pare che gli autori adoperino questo vocabolo come sinonimo di “significato”. Il dizionario pratico di grammatica e linguistica offre la seguente definizione di senso: “Senso di una parola o di una frase è il suo significato”. Ciò sembra corrispondere al termine inglese meaning. Lyons (1977: 197) precisa che:

It is perhaps helpful to add that ‘sense’ is the term used by a number of philosophers for what others would simply describe as their meaning, or perhaps more narrowly as their cognitive or descriptive meaning.

Inoltre, il Dizionario di linguistica propone meaning come traduzione inglese per senso. Gli autori sopracitati sembrano confermare che per ‘senso’ intendono ‘meaning’. Nelle parole della stessa Salmon Kovarski (2002: 83): “proper names [...] are meaningful linguistic items”. In un intervento successivo (2006: 81) essa afferma:

i nomi propri, come tutte le altre parole della lingua, sono elementi significanti. Spesso, ancor di più delle altre parole, il loro potenziale evocativo è stratificato a livelli multipli, connessi alle ‘enciclopedie’ di vari gruppi di parlanti.

Inoltre, Viezzi (2004: 26) afferma:

I nomi propri (di persone, animali, luoghi, ecc.), le denominazioni proprie, non sono delle semplici etichette o delle entità la cui funzione e il cui ruolo si esauriscono nella designazione; sono invece significativi, sono portatori di senso.

Il senso di un nome proprio viene acquisito in un determinato contesto culturale. Prosdocimi (1989: 17) nota che “il nome proprio è l’operatore di cui si serve la lingua per significare una parte della realtà o certa realtà vista (culturalmente) in un determinato modo”. È in questo senso e sotto questo profilo che si uniscono nel nome proprio la funzione sia di designazione sia di repérage culturel (Ballard 1998: 219). Questo aspetto culturale significa che diversi costrutti sintattici sono classificabili come nomi propri. Ad esempio, Salmon Kovarski (2002: 90) nel porre il problema della traduzione di nomi propri dal russo, fa un cenno alle categorie di “antonomasia, circonlocuzioni e pseudonimi”:

Antonomasia, circumlocutions and pseudonyms are generally cultural items. In most cases, interpreters make the reference to the person involved explicit. However, they can also resort to their creativity in retaining an ironic connotation. For example:
  • antonomasia: Chozjain, being “the master” or “the boss”, a reference to Stalin;
  • circumlocutions: Samyj čelovecnyj čelovek (“the most human among humans”) and živee vsech živych (“the most lively among the lively”), are well-known phrases used to refer to Lenin);
  • pseudonyms: in most cases pseudonyms are familiar outside Russia (Stalin, Lenin), whereas official first names and/or surnames are hardly known (Džugašvili, Ul’janov).

2.3 I nomi propri e la traduzione giuridica

Si è visto come la distinzione tra nome proprio e nome comune è stata recentemente riesaminata. In base alle ipotesi di Allerton (1987) e di Van Langendonck (2007) i concetti astratti possono essere annoverati, in determinate circostanze, nella categoria dei nomi propri. Inoltre, vi sono le considerazioni di Salmon Kovarski (2002) che, tra l’altro, sembra classificare le circonlocuzioni come nomi propri. Alla luce delle osservazioni di questi (e altri) autori, è possibile che i termini giuridici siano da considerarsi nomi propri? Pare scontato che i nomi degli istituti giuridici si prestino alla classificazione come nomi propri, e l’argomentazione elaborata rispettivamente da Allerton (1987) e da Särkkä (2007) sembra combaciare con una simile ipotesi. Appaiono pertinenti le osservazioni di Sacco (1994: 485-486) in merito ai nomi propri e alle nozioni giuridiche. Quest’ultimo opera una distinzione tra nomi che rappresentano categorie astratte, quali contratto, volontà, danno, e altre parole che

sembrano indicare categorie assai ampie, e acquistano invece, proprio nei rapporti interlinguistici, un significato strettamente legato all’ambiente d’origine o ad altre circostanze; in casi limite, diventano una sorta di nome proprio, riservato ad una sola persona.
In quel settore del diritto pubblico che si riferisce ai titoli onorifici, noi c’imbattiamo spesso in contrapposizioni nominalistiche che nessuna contrapposizione concettuale può spiegare (conte ≠ marchese; cavaliere ≠ commendatore; licencié ≠ maître ≠ docteur). L’equivalenza rispetto ai termini corrispondenti al latino medioevale, o il valore storico di queste parole, ha permesso a queste contrapposizioni di mettere radici in un numero elevato di lingue.

Sacco sembra dare sostegno all’ipotesi che certi termini giuridici possano essere considerati nomi propri, dato che sono strettamente legati alla cultura che li ha prodotti e pertanto hanno un senso unico che fa riferimento a una particolare sfera sociale, culturale e così via. I nomi propri, e dunque i termini giuridici che si possono così classificare, derivano il proprio senso dalla cultura dalla quale provengono. Sacco (1987: 850) avverte che “le vere difficoltà di traduzione sono dovute [...] al fatto che il rapporto tra parola e concetto non è lo stesso in tutte le lingue giuridiche.”

Un esempio evidente di termini legati agli ordinamenti nazionali sono i nomi degli istituti giuridici. La problematica della loro traduzione è stata esaminata da Fiorito (2004). Egli sostiene che, in tal caso, il traduttore debba far fronte a queste tre situazioni:

  1. I nomi degli istituti sono uguali a livello lessicale, ma la normativa sottostante è diversa. In questi casi la traduzione letterale è sovente scorretta. Prendiamo in considerazione il sostantivo notaio. Solitamente si classifica come nome comune, però, secondo la teoria proposta da Sacco (1994) può anche avere la funzione di un nome proprio in determinate circostanze, cioè nel settore del diritto pubblico quando si riferisce al concetto del “notaio” come titolo onorifico, un attore nel sistema giuridico che compie un ruolo specifico. Il notaio italiano svolge funzioni del tutto diverse dall’inglese “notary” e perciò la scelta di “notary” non sarà idonea come traduzione.
  2. Un istituto ha sia nomi differenti a livello lessicale che una diversa disciplina normativa. In tale circostanza può accadere che alla traduzione letterale del termine non corrisponda nessun concetto giuridico familiare al sistema della lingua di arrivo. In Australia, nella gerarchia dei tribunali, vi è la District Court. Applicando l’ipotesi di Allerton (1987) e di Särkkä (2007), questo termine si può classificare come nome proprio, essendo un sostantivo di un tribunale, un’istituzione particolare nel sistema giudiziario australiano. Se viene tradotto in italiano come “Corte distrettuale”, non corrisponderebbe a nessun concetto familiare al sistema della lingua d’arrivo, perché non esiste in Italia una “corte distrettuale” che abbia le stesse competenze della District Court australiana.
  3. Un istituto esiste in un sistema ma non nell’altro. In questo caso una traduzione letterale appare priva di senso. Pubblico Ministero, che si potrebbe annoverare nella categoria dei nomi propri secondo la teoria proposta da Sacco (1994) e applicata in merito a notaio (vedasi 1), non può essere tradotto correttamente con “Public Ministry”. Nel sistema giuridico anglosassone un “Public Ministry” non esiste, e le parole non avrebbero nessun significato per un lettore anglofono.

I tre esempi succitati dimostrano che la questione della traduzione dei nomi propri nel campo della traduzione giuridica merita una considerazione più approfondita, perché una corrispondenza perfetta tra un sistema giuridico e un altro raramente esiste. Come notato da Sandrini (1996: 346):

Legal concepts are embedded in a specific working environment and in national legal systems [...] each national setting has its own principles for the application of concepts.
There cannot be absolute equivalence, unless it is a consequence of complete identity of moral values, legal provisions, interpretation rules and forms of application of laws.

Sandrini (1996: 347) propone un approccio comparativo che richiede una conoscenza approfondita del senso e della funzione dei concetti giuridici del sistema della lingua di partenza prima di procedere alla traduzione.

Only after having described the purpose of the single concepts as components of a national legal solution can we move on to see if there are possible connections to concepts of the other national legal systems.

È per questo motivo che la traduzione dei nomi propri è considerata molto pertinente alla traduzione giuridica. Varie strategie sono state sviluppate per quanto concerne la traduzione dei nomi propri per far sì che si tenga conto del loro peso culturale e del loro senso nel tentativo di renderli in modo adeguato nella lingua d’arrivo. Se i termini giuridici possono essere classificati come nomi propri, le diverse strategie avanzate per tradurre questi ultimi potrebbero assumere una maggiore importanza nel campo della traduzione giuridica.

3. Le strategie di traduzione dei nomi propri

Come riportato da Viezzi (2004: 65-66), il linguista olandese van den Toorn (1986: 119) scrive che tradurre i nomi propri è, in realtà, impossibile, un’asserzione che lo stesso Viezzi contraddice: “non è vero che sia impossibile tradurre i nomi propri; i nomi propri vengono regolarmente tradotti, come è facile notare osservando la realtà, e quindi sono traducibili”. Numerose sono le strategie proposte per la traduzione dei nomi propri, e secondo Viezzi (2004: 68-69), il riconoscimento e l’interpretazione del senso sono alla base di molteplici strategie cui il traduttore può ricorrere. In termini generali, queste strategie si possono collocare in un continuum compreso tra due estremi che riflettono rispettivamente un atteggiamento “target-oriented” e un atteggiamento “source-oriented”. Le strategie che si incontrano più frequentemente sono le seguenti (Viezzi 2004: 69-73):

  1. la ripetizione, che consiste nella riproduzione del nome proprio nella sua forma originaria, per esempio British CommonwealthBritish Commonwealth (cf. Viezzi 1996, Särkkä 2007). La ripetizione come strategia è analoga a quella dell’uso del prestito, a cui Šarčević (1997), Tvede-Jensen (1997) e Cosmai (2003) hanno rispettivamente dedicato un’elaborazione articolata in particolare per quanto concerne l’uso dei prestiti nella stesura di documenti giuridici nell’Unione europea;
  2.  l’adattamento ortografico, che si manifesta con l’introduzione di lievi cambiamenti grafici generalmente suggeriti da ragioni di ordine fonetico o alfabetico, per esempio, Qaddafi Gheddafi (cf. Salmon Kovarski 1997);
  3. l’adattamento terminologico, e cioè la trasformazione sul piano formale dei nomi propri qualora di questi esista una versione ufficiale nella lingua d’arrivo, per esempio, Roma Rome (cf. Särkkä 2007);
  4. la traduzione linguistica, che consiste nel trasferire, in modo totale o parziale, il contenuto semantico del significante comune che compone il nome proprio. Tale strategia è paragonabile a quella dell’uso del calco, per esempio The White Housela Casa Bianca; Chancellor of the Exchequeril Cancelliere dello Scacchiere (cf. Viezzi 1996, Taylor 1998);
  5. la glossa extratestuale, e cioè una nota a piè di pagina, una voce di glossario o qualche altro tipo di annotazione (cf. Särkkä 2007);
  6. la glossa intratestuale, e cioè una forma di spiegazione o esplicitazione inclusa nel testo d’arrivo (cf. Särkkä 2007). Tale strategia pare analoga a quella individuata da Marello (1989: 53-54) per quanto concerne la stesura dei dizionari bilingui. Come spiega quest’ultima:
    Il gruppo [...] delle parole [...] legate alla cultura della comunità, poiché gli usi, le abitudini, i cibi di un popolo non hanno necessariamente con quelli di altri popoli corrispondenze tali da poter sempre istituire un rapporto fra parola-lemma e traducente. Il metodo più comodo in questi casi è fare un prestito linguistico, cioè adottare la parola straniera; altrimenti si può creare un neologismo o proporre un equivalente esplicativo; o un traducente generico (un iperonimo) seguito da una definizione. Quest’ultima è sempre necessaria se il dizionario bilingue vuole svolgere la funzione di mettere in contatto culture e non solo lingue. Ad esempio [...] ingl. (USA) forty-niner it. - cercatore che partecipò alla corsa dell’oro nel 1849 (Skey).
  7. la neutralizzazione, che è rappresentata dalla sostituzione del nome presente nel testo di partenza con un nome che appare svincolato da ogni riferimento preciso a una concreta realtà nazionale o culturale, per esempio grand jurygiuria d’accusa (cf. Viezzi 1996, Cosmai 2003);
  8. la naturalizzazione, che prevede la sostituzione del nome proprio che figura nel testo di partenza con un nome il cui referente appartiene alla cultura di arrivo, per esempio United States of AmericaEspaña; Harry Antonio;
  9. la trasposizione semiotica o funzionale del nome proprio, che nel testo di arrivo viene composto da elementi che non hanno nessuna relazione col testo di partenza, per esempio Popeye Braccio di Ferro (cf. Salmon Kovarski 1997, Särkkä 2007);
  10. l’omissione, cioè la pura e semplice eliminazione del nome proprio presente nel testo di partenza senza che vi sia alcun tipo di sostituzione (cf. Särkkä 2007).

Secondo Viezzi (2004: 67), la pratica traduttiva consiste nell’operare delle scelte che rispondono a strategie ben precise. Le strategie vengono selezionate in base ad una serie di considerazioni, fra le quali: il tipo di testo, la sua funzione e i suoi destinatari. Di conseguenza, la scelta della strategia traduttiva che verrà applicata deve prendere in considerazione quanto asserito da Sacco (1994: 480-481):

La traduzione consta della ricerca del significato della frase da tradurre, e della ricerca della frase adatta per esprimere quel significato nella lingua della traduzione [...] Il traduttore, a sua volta, si preoccupa del solo significato dell’espressione che deve tradurre, e ciò che va al di là di questo significato non sembra interessarlo. Il suo unico obiettivo sembra infatti essere la corrispondenza della frase che deve tradurre, e della frase impiegata nella traduzione, a un comune concetto. Questa corrispondenza può essere facilitata, ma può anche essere messa a dura prova dai caratteri delle due lingue con cui il traduttore ha a che fare.

Da queste considerazioni emerge molto bene la difficile condizione del traduttore giuridico, “servitore di due padroni”, sempre diviso tra l’esigenza di produrre, da una parte, un testo giuridicamente equivalente all’originale negli effetti e negli intenti, ed altrettanto efficace e comprensibile, e dall’altra, di realizzare adeguati livelli di concordanza interlinguistica, un’esigenza a cui viene attribuita particolare importanza in campo giuridico (Garzone 2002: 47).

Procediamo ora all’analisi della traduzione dei nomi propri negli accordi bilaterali vigenti tra l’Italia e l’Australia per discutere quali strategie traduttive sono state utilizzate da traduttori nel tentativo di far fronte al dilemma descritto da Sacco, da Sandrini e da Garzone.

4. Esempi di soluzioni traduttive adoperate in merito ai nomi propri negli accordi

Gli accordi che costituiscono il corpus di questa analisi sono i seguenti (elencati in ordine cronologico):

  • Accordo relativo ai servizi aerei/Agreement relating to air services (1963);
  • Accordo di emigrazione e stabilimento/Migration and settlement agreement (1971);
  • Accordo per evitare la doppia imposizione sui redditi derivanti dall'esercizio del trasporto aereo internazionale/Agreement for the avoidance of double taxation of income derived from international air transport (1972).
  • Accordo di cooperazione culturale/Agreement of cultural co-operation (1975);
  • Convenzione per evitare le doppie imposizioni e prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito/Convention for the avoidance of double taxation and the prevention of fiscal evasion with respect to taxes on income (1982);
  • Trattato di cooperazione in materia di economia e commercio/Treaty on economic and commercial co-operation (1984);
  • Trattato di estradizione/Treaty of extradition (1985);
  • Accordo di reciprocità in materia di assistenza sanitaria/Reciprocal agreement in the matter of health assistance (1986);
  • Trattato di mutua assistenza in materia penale/Treaty on mutual assistance in criminal matters (1988);
  • Accordo in materia di sicurezza sociale/Social security agreement (1993);
  • Accordo di coproduzione cinematografica/Films co-production agreement (1996).

In tutti gli accordi è stipulato che il testo faccia fede in ogni versione linguistica. Viene così applicato il seguente principio contenuto nell’articolo 33(1) del Trattato di Vienna sul diritto dei trattati (1969):

Quando un trattato è stato autenticato in due o più lingue, il suo testo fa fede in ciascuna di tali lingue, a meno che il trattato non preveda o le parti non convengano fra loro che, in caso di divergenza, prevarrà un determinato testo.

Quali sono le strategie traduttive applicate alla traduzione dei nomi propri nella stesura degli accordi? Per avere qualche nozione in merito, si è consultato vari impiegati del Ministero degli Affari Esteri e del Department of Foreign Affairs australiano, rivolgendo loro una serie di quesiti sulla stesura degli accordi, però senza ottenere esiti concreti. Si è comunque appreso che le bozze iniziali sono redatte nella lingua della nazione che ha avviato il negoziato. Varie traduzioni delle bozze vengono preparate ad ogni fase del negoziato fino al momento in cui si giunge ad un accordo sulla bozza finale. Le traduzioni della bozza finale, infine, sono verificate dagli ufficiali di ambo le parti prima di procedere alla firma.

Allo scopo di dimostrare quali strategie sono state applicate nella traduzione dei nomi propri nella stesura di questi accordi si citeranno alcuni esempi, classificandoli secondo una tassonomia di categorie designata in base alle strategie elencate nella sezione precedente. Gli esempi citati mettono a confronto il testo di partenza e la relativa traduzione. Il tentativo di individuare il testo di partenza e quello di arrivo non è stato semplice, ma si è basato sui seguenti criteri: naturalezza della lingua adoperata nella stesura, idoneità delle scelte lessicali e sintattiche, ed efficacia comunicativa (in modo complessivo) del testo.

4.1 Traduzione linguistica/calco

(1)       Ministero di Grazia e Giustizia → Ministry of Grace and Justice

Questo esempio si può collocare nella categoria di nome proprio perché si riferisce ad un nome di un’istituzione (Allerton 1987; Särkkä 2007). In Australia non esiste un “Ministry of Grace and Justice”. Non esiste neanche un “Minister of Justice”. L’istituzione corrispondente è il “Department of the Attorney-General”, il cui nome deriva dal ministro a cui viene affidato tale dicastero, “l’Attorney-General”, cioè il “guardasigilli” australiano. Una traduzione come “Italy’s Ministry of Justice” sarebbe stata più efficace perché sarebbe stata in sintonia con un concetto familiare a un anglofono nel contesto australiano, e quindi conforme all’uso normale della lingua inglese. La traduzione proposta crea un termine che non ha riferimenti nel sistema giuridico australiano.

4.2 Naturalizzazione

(2)       Italian workers shall be eligible [...] to be represented in Australian courts → I lavoratori italiani avranno diritto [...] ad essere rappresentati davanti alla magistratura australiana;

Il nome proprio che si sottopone all’analisi in questo esempio è Australian courts. Da solo, courts è identificabile come nome comune. Quando si aggiunge l’aggettivo Australian, seguendo la logica di Allerton (1987), diventa un nome proprio perché Australian è un modificatore restrittivo che riflette una realtà geografica. In Australia un “magistrate” compie funzioni che sono ben diverse da quelle spettanti a un “magistrato” italiano. Per esempio, in Italia, i magistrati svolgono le indagini, ma in Australia i “magistrates” non hanno nulla che fare con le indagini (Certoma 1985, Marantelli/Tikotin 1985). Di conseguenza, la traduzione proposta non rende pienamente il senso del termine australiano. Per “Australian courts” si sarebbe potuto proporre “gli organi giudiziari australiani”, una soluzione che prende in considerazione le funzioni dei tribunali australiani, che, come va sottolineato, sono diverse da quelle dei tribunali italiani. La traduzione “magistratura australiana” sembra avere un riferimento diverso rispetto alla “magistratura” italiana.

4.3 Glossa intratestuale

(3)       Testimonial privilege under the laws of the requesting State shall not apply in the execution of a request, but such questions of privilege shall be preserved for the Requesting State → I diritti del testimone previsti dalla legge dello Stato richiedente non possono essere invocati nella esecuzione della richiesta, salva la possibilità di farli valere nello Stato richiedente

(4)       capofamiglia → head of a family

Gli esempi (3) e (4) si propongono per analisi perché sono concetti astratti, ossia al limite della distinzione tra nome proprio e nome comune. Sacco (1994) collocherebbe i vocaboli summenzionati nella categoria di concetti astratti, e Viezzi (1996) li considererebbe come cultural items. Al contrario, applicando la teoria di Van Langendonck (2007), essi sono classificabili come nomi propri in quanto hanno la funzione di un termine con un riferimento unico e possiedono un senso preciso determinato dall’ambiente legale e culturale dal quale provengono (Salmon Kovarski 2002). Da questo punto di vista la traduzione di questi termini merita un’analisi.

Negli esempi (3) e (4) ci troviamo di fronte a dei termini che non hanno corrispondenti nella lingua d’arrivo. Le soluzioni traduttive proposte ricorrono alla strategia individuata da Marello (1989), da Viezzi (2004) e da Särkkä (2007) in quanto consistono in una forma di spiegazione o esplicitazione per superare il problema dell’assenza di un termine corrispondente nella lingua d’arrivo. La soluzione traduttiva proposta per il termine inglese testimonial privilege, “i diritti del testimone” è, infatti, una traduzione esplicativa. Non esiste un termine corrispondente nell’ordinamento giuridico italiano, quindi la traduzione ha la funzione di fornire una spiegazione del significato a un lettore anglofono. Idem per (4), dove non vi è un termine o concetto corrispondente nel linguaggio giuridico inglese per capofamiglia (derivante dal latino pater familias).

4.4 Neutralizzazione

(5)       Partner-related Australian benefits → Prestazioni australiane riguardanti il coniuge de jure o de facto

(6)       Trusteeship Agreement → Accordo di Amministrazione fiduciaria

Gli esempi (5) e (6) si propongono per analisi per gli stessi motivi degli esempi (3) e (4). Essendo concetti astratti, si potrebbero classificare come nomi propri dato che svolgono la funzione di termini con un riferimento unico e con un senso preciso determinato dal contesto legale e culturale dal quale provengono (Salmon Kovarski 2002). Essi costituiscono esempi della neutralizzazione, ossia della creazione di termini generici o esplicativi (cf. Marello 1989) nella lingua d’arrivo. In tali circostanze il traduttore, come suggerito da Fiorito (2004), deve tener presente che l’uso di un termine nella lingua d’arrivo, benché a livello lessicale sembri uguale al termine nel testo di partenza, può indurre a malintesi perché il suo significato normativo è diverso.

Prendendo in esame (5), si nota che il significato della parola inglese partner comprende sia le coppie sposate sia quelle conviventi. La traduzione italiana “coniuge de jure o de facto” rappresenta una soluzione esplicativa e neutra, che mira a dare al lettore italofono il senso legale della parola. Però l’uso della parola “coniuge” nell’esempio non è consono al senso della parola nel linguaggio comune. Il GRADIT spiega il significato di “coniuge” in questo modo: “ciascuna delle due persone unite in matrimonio”. La voce “coniuge” non è propriamente definita nel Dizionario giuridico Simone online (www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&index=&dizionario=1). Lo stesso dizionario però rimanda alla seguente definizione di “coniugio”: “è il rapporto che lega marito e moglie”. Tuttavia, alla parola “coniuge” nella traduzione viene attribuito il senso di “compagno” che non possiede nell’italiano comune. Infatti, Il GRADIT nota “compagno” come un sinonimo di “partner”, di “concubina” e di “amante”. Quindi l’uso di “coniuge” nell’esempio sopraccitato ha il sapore della neutralizzazione, cioè la sostituzione del nome presente nel testo di partenza con un nome che appare svincolato da ogni riferimento preciso a una concreta realtà nazionale o culturale nella lingua d’arrivo (Viezzi 1996, Cosmai 2003).

Con riferimento all’esempio (6) si cita la soluzione di “Accordo di Amministrazione fiduciaria” proposta come traduzione per Trusteeship Agreement, un concetto peculiare all’ordinamento della common law. Qui si pone la domanda se la parola “fiduciaria” rende pienamente in italiano il concetto del trustee. Il Dizionario giuridico Simone online non fornisce una definizione di “fiduciaria”, il che sembra sottolineare la sua peculiarità rispetto alla common law. Però il GRADIT offre una spiegazione molto dettagliata del termine:

Tipo di società commerciale diffuso soprattutto nei paesi anglosassoni (trust company), cui si possono essere conferite, da private o da pubbliche autorità, funzioni di amministrazione di patrimoni e controllo di altre società.

Di nuovo si è cercato di creare un termine neutro, assegnando ad una parola della lingua d’arrivo un senso che non corrisponde con quello dell’uso comune, per esprimere un concetto peculiare nell’ordinamento inglese. Tale strategia viene sovente applicata nell’ambito della traduzione giuridica. Secondo Cosmai (2003) essa è un presupposto per la stesura di testi comunitari.

4.5 Ripetizione e adattamento terminologico

Le soluzioni sottoelencate si sarebbero potute raggruppare sotto l’esempio (1), però le loro peculiarità mi hanno indotto a proporle a parte per procedere a un’analisi più approfondita.

(7) Norfolk Island → l’isola di Norfolk
(8) Christmas Island → l’isola di Natale
(9) Cocos (Keeling) Islands → le isole del Cocco (Keeling)
(10) Coral Sea Islands → le isole del Mar dei Coralli

Questo elenco include traduzioni di alcune isole ubicate nelle acque territoriali australiane. Come nomi di luoghi sono tradizionalmente classificabili come nomi propri. Per valutare l’efficacia delle suddette scelte traduttive, ho consultato il sito web dell’ambasciata italiana in Australia (www.ambcanberra.esteri.it) per individuare i termini adoperati dall’ambasciata per indicare queste isole. L’ambasciata accetta le traduzioni (7) (una ripetizione parziale) e (10) (un adattamento terminologico). Per quanto riguarda (8), “l’isola Christmas” è preferita dall’ambasciata alla traduzione letterale “l’isola di Natale”. Potrebbe significare un adattamento terminologico, siccome “Natale” è il termine italiano per Christmas. Una vera scelta problematica si riscontra nell’esempio (9). La traduzione “le isole del Cocco (Keeling)”, che sembra in parte una ripetizione e in parte un adattamento terminologico, è palesemente errata. “Cocco” si traduce in inglese come coconut, e il nome delle isole non è “Coconut (Keeling) Islands”. Anzi, l’ambasciata propone “isole Christmas e Cocos (Keeling)” nel riferirsi a tali isole.

5. Conclusione

Secondo Arntz (1995: 137), ogni testo giuridico è per forza di cose ancorato alle leggi del paese di origine. La traduzione di un tale testo non potrà certo ignorare le differenze tra gli ordinamenti ai quali le due lingue coinvolte rimandano. Tra l’Italia e l’Australia, vi è la tensione tra il sistema anglosassone della common law e quello dei codici civili dell’Europa continentale occidentale. Il traduttore deve affrontare complessi problemi di ordine terminologico e semantico dovuti alle radicali differenze nelle categorie e ripartizioni concettuali tra i due tipi di sistemi giuridici. Benché gli accordi bilaterali oggetto della presente analisi appartengano alla categoria degli ordinamenti internazionali, le osservazioni di Arntz (e di Schena 1997) risultano pertinenti poiché gli accordi contengono un apporto culturale strettamente connesso ai termini appartenenti agli ordinamenti nazionali dei Paesi firmatari. Ciò significa che la traduzione di questo tipo di testo non è soltanto intraculturale, ma, in una certa misura, anche interculturale. Ovvero è una traduzione in cui è necessario mediare tra diverse culture giuridiche. I nomi propri, come nota Viezzi (2004: 28), sono significativi in quanto servono da indicatori con riferimento alla sfera sociale, etnica, affettiva, culturale e pragmatica. Ciò significa che sono portatori di senso. Il senso di un nome proprio viene attribuito in un determinato contesto culturale, così come il senso di un termine giuridico è strettamente legato all’ambiente d’origine. Si propone che le strategie applicate in merito alla traduzione di nomi propri possano essere di utilità nel campo della traduzione giuridica, perché i termini giuridici, alla luce delle ricerche svolte dagli studiosi nel tentativo di definire che cosa è un nome proprio, sono potenzialmente classificabili come tali in determinate circostanze. Avanziamo tale supposizione dopo aver preso in considerazione:

  1. le ipotesi di Allerton (1987) e di Van Langendonck (2007) i quali sostengono che in determinate circostanze i concetti astratti possono essere annoverati nella categoria dei nomi propri ; e
  2. quanto affermato da Salmon Kovarski (1997, 2002, 2006) che, tra l’altro, sembra classificare le circonlocuzioni come nomi propri; e infine
  3. le osservazioni di Sacco (1994: 485-486), che sembrano dare sostegno alla nozione che certi termini giuridici possono essere considerati nomi propri, essendo strettamente legati alla cultura che li ha prodotti, vale a dire termini che hanno un senso unico con un riferimento ad una particolare sfera sociale, culturale eccetera.

Se i termini giuridici possono essere classificati come nomi propri, le diverse strategie esposte per tradurre quest’ultimi potrebbero rivestire una maggiore importanza nel campo della traduzione giuridica. Secondo Viezzi (2004: 67), la pratica traduttiva consiste nell’operare delle scelte che rispondono a strategie ben precise. Le strategie utilizzate sono selezionate in base ad una serie di considerazioni, tra cui: il tipo di testo, la sua funzione ed i suoi destinatari. L’analisi elaborata in questo contributo per quanto riguarda le strategie traduttive adoperate in merito ai nomi propri negli accordi bilaterali vigenti tra l’Italia e l’Australia sembra indurre alla conclusione che i traduttori abbiano dimostrato un’inclinazione verso le strategie mirate a produrre un alto livello di concordanza interlinguistica tra entrambe le versioni del testo per far si che siano giuridicamente equivalenti negli effetti e negli intenti, con il risultato che il testo è poco conforme alla lingua d’arrivo, un testo, cioè, accessibile esclusivamente agli “addetti ai lavori”, a scapito della sua comprensibilità generale.

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About the author(s)

Rocco Loiacono is a PhD candidate and tutor at the Department of Italian, University of Western Australia, Perth (UWA) and Lecturer at the School of Business Law, Curtin University, Perth. After graduating with a combined Law and Languages degree, with specialization in Italian, he worked for some years as a lawyer. He is currently completing a PhD at UWA, his area of study being legal translation from Italian to English, in both directions. In 2008, Rocco won an Italian Government Scholarship to undertake research at the Dipartimento di Studi Interdisciplinari su Traduzione, Lingue e Culture at the University of Bologna, Forlì Campus. He has presented at conferences on translation of specialized texts and those presentations have been published in refereed conference proceedings.

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©inTRAlinea & Rocco Loiacono (2011).
"Il trattamento dei nomi propri nella traduzione di documenti giuridici tra l’italiano e l’inglese"
inTRAlinea Special Issue: Specialised Translation II
Edited by: Danio Maldussi & Eva Wiesmann
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/1799

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