Un manovale di parole

By Gloria Bazzocchi (University of Bologna, Italy)

©inTRAlinea & Gloria Bazzocchi (2019).
"Un manovale di parole"
inTRAlinea Commemorative Issue: Beyond the Romagna Sky
Edited by: Roberto Menin, Gloria Bazzocchi & Chris Rundle
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2443

In occasione delle Giornate dedicate a Giovanni si è pensato di proporre ad alcuni colleghi del Dipartimento di Traduzione e Interpretazione di tradurre una sua poesia nelle diverse lingue straniere rappresentate al suo interno. Su proposta di Marco Mazzoleni la scelta è ricaduta su “Ciò nonostante”, tratto dalla raccolta Ridente Town (Risguardi, 2013), i cui versi riecheggiano in modo commovente la voce e il cuore di Giovanni, il suo essere più profondo, la sua generosità e intelligenza, la sua essenza di uomo e di poeta.

Così, in un tiepido pomeriggio di settembre, davanti ai Musei di San Domenico a Forlì, questi versi hanno risuonato in arabo, bulgaro, catalano, ceco, cinese, francese, giapponese, inglese, portoghese, russo, spagnolo, slovacco e tedesco. Ancora una volta la traduzione, così come la scrittura, è divenuta quel luogo di accoglienza e di incontro che Giovanni ha sempre considerato e voluto che fosse. Per anni, infatti, si è fatto promotore, all’interno del nostro Dipartimento, di laboratori di traduzione poetica nati dagli incontri e dalle amicizie che ha coltivato nel tempo e che desiderava condividere con colleghi e studenti, per farci sperimentare che tradurre poesia, in fondo, è prima di tutto “un grande esercizio di vita oltre che di letteratura in cui tutte le facoltà della persona sono coinvolte, anche la sua anima. Non si può tradurre prescindendo da sé stessi. Tradurre poesia significa mettere in gioco sé stessi alla massima potenza” (Buffoni, 2009).[1]

La poesia e le sue traduzioni si possono leggere qui: [url=http://www.intralinea.org/specials/article/2442]http://www.intralinea.org/specials/article/2442[/url]

Per Giovanni tradurre letteratura non è mai stato un mestiere solitario, ma una tensione collaborativa, una progettualità attiva che lo ha portato a condividere questa esigenza con chi, come lui, operava ai margini del grande mercato editoriale, per “far confluire nella passione sempre curiosa dell’incontro-scontro la voce dell’altro e la propria in un habitat espressivo comune”.[2]  Da qui la fondazione, a metà degli anni ’80, insieme all’amico Gianni Leotta, della rivista Tratti e della casa editrice Moby Dick, spazi di accoglienza per scritture inedite e difficilmente pubblicabili, per la poesia, il teatro, il dialetto, le lingue minoritarie. Per anni, insieme, hanno organizzato a Faenza la manifestazione Tratti’n Festival, incrocio di discipline artistiche e luogo d’incontro e di contaminazione con e tra le culture di altri paesi.

A Faenza, o in giro per l’Europa, per Giovanni l’incontro con l’altro era vitale:

da qualche parte attorno a un bicchiere, in un caffè di Anversa o di Amburgo, in una rambla di Barcellona, o in una vecchia e arrugginita roulotte situata a quattro passi dal Watt (la grande, mobile battigia) del mare del Nord, se non sotto un pergolato appenninico, oppure in un monastero svizzero […] e sudare, scornandosi, su ogni singola lettera.[3]

Sudore e fatica degni di quel “manovale di parole”, come Giovanni amava autodefinirsi,[4] di quel costruttore di mondi che è lo scrittore:

Quando passo giorni, mesi, anni scrivendo lentamente le mie parole su un foglio bianco, seduto al tavolo, sento di costruire un nuovo mondo, una nuova persona dentro di me, proprio come coloro che costruiscono un ponte o una cupola pietra su pietra. Le pietre di noi scrittori sono le parole. Le tocchiamo, sentiamo il rapporto che hanno tra di loro, qualche volta le guardiamo da lontano, qualche volta le accarezziamo con le dita o con la punta della penna, le pesiamo, le sistemiamo e così per anni, con determinazione, pazienza e speranza costruiamo nuovi mondi (Pamuk, 2007: 7).[5]

Anche Neruda raccontava del suo rapporto “fisico” con le parole:

Brillano come pietre preziose, saltano come pesci d’argento, sono spuma, filo, metallo, rugiada… Inseguo alcune parole… Sono tanto belle che le voglio mettere tutte nella mia poesia… Le afferro al volo, quando se ne vanno ronzando, le catturo, le pulisco, le sguscio, mi preparo davanti il piatto, le sento cristalline, vibranti, eburnee, vegetali, oleose, come frutti, come alghe, come agate, come olive… E allora le rivolto, le agito, me le bevo, me le divoro, le mastico, le vesto a festa, le libero… Le lascio come stalattiti nella mia poesia, come pezzetti di legno brunito, come carbone, come relitti di naufragio, regali dell’onda… Tutto sta nella parola… Tutta un’idea cambia perché una parola è stata cambiata di posto, o perché un’altra si è seduta come una reginetta dentro una frase che non l’aspettava e che le obbedì… Hanno ombra, trasparenza, peso, piume, capelli, hanno tutto ciò che si andò loro aggiungendo da tanto rotolare per il fiume, da tanto trasmigrare di patria, da tanto essere radici… Sono antichissime e recentissime… Vivono nel feretro nascosto e nel fiore appena sbocciato….[6]

Giovanni ha scritto e costruito mondi con le parole, ma lo ha fatto “in presenza di tutte le lingue del mondo”, in un’apertura del luogo mediante una “poetica della Relazione”, come affermava citando lo scrittore creolo Édouard Glissant (1998):

scrivere in presenza di tutte le lingue del mondo non vuol dire conoscere tutte le lingue del mondo. Vuol dire che, nel contesto attuale, delle letterature e del rapporto fra la poetica e il caos-mondo, non posso più scrivere in maniera monolingue. Vuol dire che la mia lingua la dirotto e la sovverto non operando attraverso sintesi, ma attraverso aperture linguistiche che mi permettano di pensare i rapporti delle lingue fra loro, oggi, sulla terra […].[7]

Una tale concezione della scrittura racchiude già, in sé, l’essenza stessa del tradurre, con il “manovale” chiamato a trasferire, trasportare “qualcosa” da una lingua a un’altra. Ma questo “qualcosa”, come afferma Scocchera (2018),

non è un’entità monolitica e sempre uguale a se stessa, bensì un insieme proteiforme e mutevole di corpi vivi – le parole e il loro modo di comporsi – la cui identità e valenza cambia inevitabilmente già prima che il trasferimento abbia inizio, a seconda che il traduttore/trasportatore ne colga o meno il peso, la fragilità, l’urgenza.[8]

Ecco allora che per chi, come Giovanni, “ha calcato timidamente i primi passi nella distanza verso il mondo avvicinandolo dapprima con un dialetto, per poi via via appropriarsene molto parzialmente con una lingua “ufficiale”, imparaticcia, scolastica […] il gesto di “tradurre” è una sorta di obbligo/missione naturale”.[9]

Vivere è quindi tradurre:

Più passa il tempo, più mi convinco che sia la traduzione a muoverci e a muovere il mondo […] perché il nostro sforzo continuo di carpire ai giorni, all’esistenza e al circondario umano e geografico un qualche senso che ci costituisca passa attraverso la carne sfregiata, contaminata, ibridata, conflittuale delle lingue, intese proprio come strumenti di cui noi umani o pseudotali ci serviamo per comunicare.[10]

La traduzione della sua poesia in diverse lingue del mondo vuole quindi essere un regalo per lui, perché le sue parole vivano per sempre allargando i confini, abbattendo i muri, “verso un’inarrivabile ma imprescindibile habitat d’umanità.[11]

Anche in questo Giovanni era stato profetico: “al paról /le parole, che al s’dis /e che a dgen/ che si dicono / e che diciamo/ / intânt che nó / a s’finen / dè par dè un bisinin / no töt ’na volta d’böta / mentre noi / ci finiamo / giorno per giorno un po’ / o di colpo tutto in una volta / al s’cunsoma nenca ló/ si consumano pure loro”. Eppure, “nench la lèngva / piò sfata e strancalêda / muribonda e ormai sminghêda / anche la lingua / più distrutta e a pezzi / moribonda e ormai scordata/ la camparà sémpar piò ch’n’è nó / vivrà sempre più di noi / cun al paról nascösti / con le parole nascoste / int al carvai dla ca / nelle crepe della casa / / avèrti da e’ nöst’ rispir / aperte dal nostro respiro / tra la porbia di marciapì / ch’a j aven stamzê / tra la polvere dei marciapiedi / che abbiamo calpestato/ ’t e’ fond dal tazin de’ cafè / ch’a j aven suciê…/ nel fondo delle tazzine del caffè / che abbiamo succhiato…[12]

About the author(s)

Gloria Bazzocchi has been an associate professor at the University of Bologna since 2010. She researches mainly in translation and language, as well as in the contrast between Italian and Spanish. She is particularly interested in the translation of children’s literature, the translation of terminology used by young people, the translation of poetry, as well as the teaching of translation. She has participated in several national and international projects and collaborated with study centres and magazines in Spain. She is currently teaching Translation from Spanish into Italian and Translation for the Publishing Industry (Spanish).

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